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DAL REGIME AUTORITARIO ALLA DEMOCRAZIA

2. L’assetto politico-istituzionale

2.1. I prodromi del regionalismo italiano

L’istituzione del regime autonomistico siciliano ha costituito un momento di svolta nell’evoluzione, in senso regionalista, della nascente democrazia italiana, assumendo profili rilevanti, oltre che negli aspetti giuridici, in prospettiva sia storiografica, che politologica.

Ponendosi come l’esperienza più ardita di regionalismo al tempo sperimentata in Italia, lo Statuto della Regione Sicilia rappresentò innanzitutto una sintesi tra passato e futuro: da un lato, l’inserimento dell’autonomia regionale nei fondamenti costituzionali portava a compimento una serie di tentativi disattesi in quasi un secolo di storia unitaria, recependone il patrimonio di pensiero, ispirato alla causa autonomistica; al contempo la novazione politica ed istituzionale in esso disegnata assunse un ruolo di “avanguardia giuridica”, creando un precedente per il modello di decentramento regionale, che di lì a poco sarebbe stato elaborato dalla Costituente [Renda 1993, 349].

In Italia l’“idea di regione” emerse in epoca ottocentesca, con origini intellettuali nei movimenti di pensiero risorgimentali – riconducibili a Mazzini, Cattaneo e Gioberti –, nelle lotte per l’indipendenza nazionale e nel processo di unificazione del paese. Nel corso del tempo il dibattito sulla regionalizzazione ha dimostrato una sostanziale continuità, ripresentandosi sistematicamente all’attenzione politica in corrispondenza dei periodi di transizione o di crisi economica ed istituzionale, sebbene la questione rimase irrisolta, data la distanza a lungo mantenuta tra le impostazioni teoriche e la prassi, fino all’approvazione del disegno costituzionale del 1948.

Il primo addentellato parlamentare fu l’istituzione presso il Consiglio di Stato di una Commissione legislativa per lo studio e la compilazione di progetti

di legge sulla riforma dell’ordinamento amministrativo. Le proposte più rilevanti furono presentate dai ministri Farini e Minighetti, che si succedettero nel biennio ‘60-‘61 al Dicastero degli Interni: le linee guida delle riforme – una a favore di un decentramento amministrativo gerarchico, l’altra di carattere più autarchico – proponevano una divisione interna attraverso istituti intermedi tra gli enti locali e lo Stato, fondata sulle correlazioni socio- economiche come elemento strutturante degli assetti urbano-territoriali e, quindi, politico-amministrativi dell’Italia unita [Gardini 2010, 12; Martinez, Ruggieri e Salazar 2005, 3-4].

Parallelamente, in Sicilia venne istituito dal prodittatore Mordini, col decreto 19 ottobre 1860, il Consiglio straordinario di Stato, ossia un consesso qualificato di rappresentanti del popolo siciliano, designato per elaborare una proposta che avrebbe conciliato, nel processo di annessione, le necessità dell’Isola con la nuova dimensione nazionale31.

Dalla Relazione avanzata al Parlamento, fu evidente la volontà della Sicilia di partecipare all’unità con un intendimento nettamente federalista, ponendosi come unica regione in posizione critica nei confronti dell’assetto centralista sabaudo [Renda 2011, 41]: l’ordinamento italiano venne quindi concepito come una federazione di autonomie, prospettando un decentramento regionale che avrebbe interessato tutte le realtà territoriali, dotandole di un Parlamento e di un Governo con poteri decisionali su materie legate alle esigenze locali, in modo da non pregiudicarne l’identità32.

31 Il Consiglio straordinario di Stato si componeva di 37 membri e rifletteva il dibattito

sviluppatosi nell’Isola precedentemente allo svolgimento del plebiscito: il contrasto di fondo fu tra coloro che sostenevano l’annessione incondizionata e gli eredi dell’ispirazione autonomista che, accantonata la pregiudiziale del separatismo federalista della rivoluzione siciliana del 1848, propugnavano un assetto dello Stato che prevedesse la creazione di regioni dotate di grande autonomia. Sebbene quest’ultima fosse la posizione preminente nell’Isola, il governo di Torino respinse l’aspirazione siciliana, facendo prevalere le spinte annessioniste e “imponendo” nell’Isola lo svolgimento del plebiscito [Mack Smith 1970, 599-609; Renda 2011, 33-36].

32 Di notevole importanza sono i primi articoli della Relazione presentata dal Consiglio

Straordinario di Stato, nei quali si chiedeva: “che nell’Ordinamento generale del Regno d’Italia la Sicilia formi una delle grandi divisioni territoriali, ch’è necessario abbiano esistenza lor propria” (art. 2); “che la Sicilia come ogni altra di tali Regioni, o grandi divisioni territoriali

Sia le proposte operative ministeriali, che quelle del Consiglio Straordinario33, non ebbero seguito [Renda 2003, 975]: nella fase post-

unitaria, il governo di Torino temeva che le differenze regionali – espressione della diversa evoluzione delle realtà territoriali degli stati annessi – potessero condurre ad una disgregazione del paese appena unificato; sembrò quindi opportuno estendere in tutta Italia la legislazione piemontese – ricalcata sul modello burocratico francese di stampo napoleonico –, strutturando internamente lo Stato su province e prefetture, ossia su una visione fortemente centralistica, che sarebbe stata funzionale sia all’unificazione nazionale, sia all’interesse del centro di controllare gli sviluppi della periferia meridionale [Rokkan 1999, trad. it. 2002, 283]. Il fatto che tale modello fosse ispirato ad una realtà dove l’unificazione era ormai un processo consolidato, rendeva artificiosa l’applicazione nel territorio italiano, livellando in un’unica forma di disciplina quelle specificità territoriali che, per parametri ecologici e socio- culturali, non erano superabili nelle realtà regionali [Gangemi 1994, 29; Petraccione 1995, 24 e ss.].

Tale assetto determinò una frattura troppo netta tra dimensione statale e provinciale, producendo una debolezza organica dell’apparato burocratico e squilibri nella giustizia distributiva particolarmente oppressivi nel Mezzogiorno, che concorsero, unitamente alle difficoltà strutturali produttive del territorio, a determinare fenomeni di rigetto come l’emigrazione, il brigantaggio e, nel caso specifico della Sicilia, la mafia [La Barbera 1950, 8].

Conseguentemente, il dibattito sull’autonomia regionale riemerse come forma di risposta alla crisi dello Stato nazionale nel periodo tra le due guerre, specificandosi come modo concreto per avviare a soluzione il problema del abbia un consiglio deliberante elettivo ed un Luogotenente nominato dal Re” (art. 3); “che il Consiglio regionale della Sicilia sia composto di membri nominati per elezione diretta” (art. 4). Lo strumentario costituzionale offerto dalla Relazione diverrà il fondamento dello Statuto autonomistico della Sicilia repubblicana.

33 Il legame tra le due proposte si legge espressamente nella Relazione del Consiglio

Straordinario che “lietamente s’accorge che il Governo del Re gli abbia già spianata la via col concetto dei governi regionali, esposto dal Ministro Farini alla Commissione appositamente

sottosviluppo nel Mezzogiorno, accorciando il divario tra Nord e Sud [Gardini 2010, 12]. Fu soprattutto il Partito popolare a sostenere la necessità di una riorganizzazione dei poteri all’interno dello Stato, col fine evidente di creare un contrappeso al centralismo: la proposta avanzata superava la concezione delle Regioni come mere ripartizioni amministrative, trasformandole in enti con strutture rappresentative autonome e dotate di poteri legislativi, che fossero in grado di formulare indirizzi adeguati per convertire le differenze “ereditarie” del territorio in risorse [Sturzo 1949, 141]. Ma l’avvento del fascismo soffocò qualsiasi aspirazione regionalista, in quanto il programma statalista del regime non prevedeva alcuna forma di autonomia “per definizione” [Paladin 1979, 5].

La ricostruzione nazionale successiva alla caduta del fascismo ripropose la necessità di un’organizzazione interna articolata in Regioni come enti dotati di autonomia politica, funzioni legislative ed amministrative, in modo da determinare un decentramento istituzionale ed organico più consono ai principi di democrazia.