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L ’azione privata

di Italo Insolera e Giusa Mareialis

Il paesaggio delle nostre città, dei paesi, dei centri di villeggiatura al mare o in montagna è opera dell’iniziativa privata: il peso di questa infatti — come vedremo — è stato sempre determinante in ogni momento della ormai lunga storia della nostra crescita e dal nostro sviluppo. Solo in pochi momenti l’iniziativa pubblica è riuscita ad avere un ruolo non del tutto secondario, mentre miai l ’interesse pubblico è riuscito a condizionare l'iniziativa privata, di per sé assolutamente indifferente per struttura e costituzione ad assolvere qualsiasi compito meramente sociale.

Abbiamo detto ohe l’edilizia come « attività asociale » è un fatto di costi­ tuzione e di struttura: il suo cordone ombelicale infatti, anche se paradossal­ mente, non collega la casa alla città, l’edilizia all’urbanistica, ma ad un complesso di manovre aconomico-finanziarie che si chiamano « rendita fon­ diaria » da una parte e « risparmio » dall’altra.

L ’ espansione d e ll’ edilizia privata

Chi in Italia voglia infatti investire i propri risparmi a occhi chiusi e ricavarne alti profitti sempre a occhi ¡chiusi, trova ponti d’oro e sicurezza nel settore immobiliare. Non è una novità di questi ultimi anni, è una salda tradizione nazionale di origine remota, ohe è riuscita a cristallizzare nei decenni ogni possibilità di evoluzione dei modelli di insediamento e ogni speranza o prospet­ tiva di risoluzione del problema della residenza per i meno abbienti.

Evidentemente questa deleteria tradizione è legata alla grande finanza che crea grandi patrimoni immobiliari, non ai piccoli risparmi sacrificati sull’altare del « tetto sicuro » , ehé anzi questi ultimi sono solo vittime incoscienti delle condizioni esose e deformanti imposte dai primi, sia nella struttura, quasi esclusivamente privatistica, del settore, sia nella psicosi coattiva della casa- rifugio.

Le ragioni della crescita e del dilagante potere del capitale immobiliare sono state troppe volte analizzate e sviscerate perché se ne tenti una nuova interpretazione. Una cosa è certa: la produzione di case, salvo i periodi di orisi, tende a crescere in modo apparentemente sproporzionato al fabbisogno

— nel ’68 in Italia esisteva un patrimonio edilizio di 56 milioni di vani mentre la popolazione era di 54 milioni di unità — e insieme i prezzi delle aree, delle case e i fitti aumentano paurosamente, senza pause e senza crisi. Si possono indicare due motivi principali d i questa espansione vertiginosa; da una parte la struttura stessa delPindustria edilizia che si serve di una mano d'opera per larga parte non specializzata e quindi a basso costo e di impianti relativamente poco costosi; dall’altra i massicci movimenti di popolazione all’interno del paese, che hanno determinato squilibri drammatici tra patri­ monio edilizio disponibile e popolazione, creando così zone di domanda che possono considerarsi artificiali. Ma allo stesso modo, del resto, sono artificiali i movimenti di popolazione, nel senso che essi corrispondono alle esigenze del modo di produzione capitalistico che ha bisogno per mantenersi in piedi di usare l ’uomo come « cosa » concorrente alla formazione del profitto, e quindi ne ignora la naturale capacità di autodeterminazione. D ’altra parte però l’industria edilizia stessa svolge una funzione autoesaltante perché richiama nelle zone di domanda quella mano d’opera squalificata necessaria dia un lato a costruire le case richieste dalla crescita della popolazione, dall’altro a sosti­ tuire il precedente flusso di mano d’opera ohe, nel frattempo, ha trovato qualificazione industriale.

Si determina così una spirale infinita di domanda di case che genera una domanda di mano d’opera che chiede necessariamente case e così via,

Se questo è un’aspetto della espansione del settore immobiliare, non è da trascurare un altro aspetto, per certi versi tutt’altro che casuale, e cioè la rete di rapporti di potere che il settore immobiliare è riuscito a consolidare nelle zone di sottosviluppo e di debole industrializzazione. Basta pensare a Roma e alle grandi città del Mezzogiorno, agli scandali edilizi che ogni giorno vengono alla luce e alle forze che ogni volta si mettono in movimento per soffocarli. Infatti una produzione come quella edilizia, legata per scelta a fattori di sviluppo tanto artificiosamente gonfiati e quindi labili, ha finito per esigere un’assenza quasi completa di controlli, in maniera da poter sfruttare al massimo le occasioni di espansione, con l’unico obiettivo del massimo profitto e quindi con il più assoluto dispregio dell’interesse collettivo.

D ’altra parte le condizioni poste agli imprenditori per ottenere agevolazioni finanziarie sono state fino ad oggi talmente effimere e facilmente evadibili che non si può non notare una vera e propria complicità del legislatore con l ’im­ prenditore contro l’utente e, più in generale, contro la necessità di accedere all’uso della casa a prezzi rapportati ai salari per la massima parte della popo­ lazione nazionale.

E così non può sottacersi la complicità tra i proprietari di aree e la maggior parte delle amministrazioni comunali, che hanno insieme strumentalizzato i piani urbanistici comunali ai soli fini della valorizzazione delle aree, determi­

nando per contro quella abnorme e caotica crescita dei centri urbani a tutto danno delle classi povere.

E’ più che evidente che in questa situazione di fatto consolidata — cioè massima libertà di intervento, grande mole di agevolazioni in pratica senza condizioni — ogni tentativo di portare ordine nel tessuto delle città, di modifi­ care i criteri di espansione per creare finalmente ambienti vivibili, con scuole, ospedali, spazi liberi, servizi, verde, ecc., in una parola ogni tentativo di porre un freno alla speculazione, ha trovato fiere opposizioni, fino ad oggi vittoriose, che sono costate crisi di governo, eliminazione di personaggi politici di primo piano. Ma soprattutto sono costate e costano spaventose condizioni di vita per i lavoratori, per i meno abbienti, in tutte le città. Né si può considerare questa situazione un fenomeno isolato al settore dell’edilizia, essa infatti muove dal più generale orientamento della politica economica del paese, fondato in sostanza sull’esaltazione dei consumi privati, dalla quale deriva un intreccio di spinte concomitanti alla distorsione dei modelli urbani e resi­ denziali (motorizzazione privata, assenza di servizi centralizzati e di servizi pubblici, ecc.).

Quindi il fronte che si oppone a una legislazione urbanistica avanzata non è limitato alle forze del capitale immobiliare; anche se recentemente si può scorgere una tendenza a differenziare la rendita fondiaria da quella edilizia, poiché la prima finisce per tradursi in un pesante limite all’ « imprenditoria­ lità », in quanto limita la produttività dell’operazione edilizia gravandola del costo dell’area che diventa sempre più incidente nell’intero complesso dei costi.

Tuttavia fino ad oggi rendita fondiaria ed edilizia sono andate sotto braccio, formando un’alleanza potente che ha condizionato pesantemente non solo la evoluzione della legislazione ma anche lo stesso intervento diretto' dello stato nel settore della residenza.

Basta pensare alla funzione che hanno avuto i quartieri di iniziativa pubblica nella valorizzazione di aree che, con un normale sviluppo della città, avrebbero tardato ad acquistare valore. I quartieri popolari emarginati sono serviti molto spesso ad affrettare l ’urbanizzazione delle aree libere tra essi e la città e quindi a farne lievitare il valore. Sono stati i piloti che hanno guidato nel territorio la nave della speculazione. Spesso essi stessi hanno direttamente valorizzato terreni agricoli di questo o quel latifondista, di questo o quel notabile dell’establishment.

Molti settori della periferia delle nostre città possono dimostrarlo, ma a Roma troviamo forse alcuni tra gli esempi più clamorosi, come la via Tuseo- lana. N el 1945, alla fine della seconda guerra, chi usciva dalla città sul tram per i Castelli, lasciava le ultime case al bivio della via Appia, Dopo un tratto di campagna incontrava le arcate dell’Acquedotto Felice: dentro e tutt’attorno le baracche degli sfollati (questo è forse l’unico aspetto della zona rimasto

immutato perché le baracche ci sono ancora e anzi sono aumentate). Subito al di là c’era un vecchio centro rurale dell’Agro Romano: il Quadraro, poche case a uno o due piani. Poi ricominciava la campagna e per un lungo tratto la via Tuscolana correva in mezzo alle cave di pozzolana, alcune a cielo aperto, altre in galleria, molte ancora in funzione in quegli anni. Alla fine delle cave, isolati, sorgevano l’Istituto Luce, il Centro Sperimentale di Cine­ matografia, Cinecittà (allora campo profughi).

Nel 1948 oltre le ultime case del Quadraro di fronte al deposito dei tram, poi demolito, sorse la prima casa « nuova », « moderna », « cittadina » , alta otto piani. Ma rimase del tutto isolata. Tre anni dopo dall’altra parte della Tuscolana cominciarono a sorgere invece le case di uno dei massicci interventi dell’INA-Casa, istituita con la legge Fanfani del 28 febbraio 1949. L ’INA-Casa realizzò tre successivi interventi: il primo comprendeva una sessantina di edifici di tutti i tipi (dalle case a due piani alle torri di dieci piani) su progetto degli architetti De Renzi e Muratori; il secondo comprendeva una unità di abitazione sperimentale progettata da Adalberto Libera; il terzo oltre un centinaio di edifici su piano urbanistico d’ufficio. In totale circa 15.000 abitanti si insediarono in poco più di cinque anni. Ma intanto l ’iniziativa privata cominciò a costruire tutt’intomo riempendo le vecchie cave (costi di fondazione enormi) e, in breve volgere di tempo, tutta la zona tra il Quadraro e Cinecittà è diventata una delle più popolate di Roma: case intensive senza interruzione, su strade strettissime senza una piazza, senza un giardino, con una orribile, incredibile chiesa metafisica in fondo a un viale spettrale (qui ne « La dolce vita » Fellini mise la casa dell’intellettuale che si suicida con tutta la famiglia). In quindici anni si è passati da zero a duecentomila abitanti. Ma non ci interessano qui le pessime condizioni urbanistiche, comuni del resto a tutte le nostre periferie, e non solo a quelle realizzate dall’iniziativa privata: qui al Tuscolano la zona dell’INA-Casa non si distingue davvero dalle altre. L ’intervento dell’INA-Casa servì a valorizzare quei pessimi terreni di cava che appartenevano a vari personaggi della Democrazia Cristiana di Roma e di Frascati. La valorizzazione dei terreni deve aver reso alcune centinaia di miliardi se estendiamo a tutte le aree urbanizzate i prezzi di acquisto e di vendita noti per i circa 170 ettari del senatore Gerini: acquistati a poco più di 1.000 lire al metro quadrato e rivenduti tra 20.000 e 25.000 lire al metro quadrato, per 40 miliardi circa.

L a stru ttu ra del settore im m obiliare

E’ indubbio che in qualunque parte d ’Italia « le costruzioni sono realizzate in gran parte dall’iniziativa privata, mentre gli interventi pubblici provvedono a costruzioni di tipo economico e popolare destinate alle famiglie con redditi più modesti e ai lavoratori e a finanziare l’attività di un numero crescente

di cooperative edilizie ». Così si legge in L ’edilizia residenziale nell’ultimo

ventennio, allegato alla relazione del Consiglio di amministrazione della So­

cietà Generale Immobiliare per il triennio 1969-1971. Molto esattamente viene definita la fascia di domanda a cui è rivolta la produzione edilizia privata, cioè media e alta borghesia.

Nel decennio ’51-’61 il settore privato ha realizzato il 78% dei vani di abitazioni totali, in quello ’61-’71 più del 90%.* Bastano questi numeri a spiegare perché il problema della casa per i lavoratori è stato ed è tanto lontano da una soluzione.

Che cosa dà al capitale privato neH’edilizia un così colossale potere di intervento e di condizionamento dell’intero settore e, con esso, della struttura delle nostre città e del nostro costume?

Tentiamo di definire un quadro della struttura del settore immobiliare privato. Dal 1951 al 1969 il peso degli investimenti in abitazioni in Italia sugli investimenti fissi totali è andato quasi costantemente aumentando (22,7% nel ’51, 34,4% nel ’69) } tuttavia il problema delle abitazioni, come è noto, è assai lontano da soluzione, anzi la domanda di case continua a crescere drammaticamente: « Ciò dipende dal fatto che il sistema di finanziamento attua­ le consente di finanziare tutto: rendita delle aree, costi di intermediazione e costi di giacenza del prodotto invenduto (in genere di lusso), spesso perfino gli stessi interessi passivi della stessa operazione di mutuo ».3

In effetti un simile privilegio finanziario non solo spiega ma certo anche favorisce gli abnormi fenomeni di spreco che si registrano nel settore (30.000 appartamenti sfitti a Roma, una città dove almeno 70.000 persone vivono ancora in baracche) e la insensibilità alla domanda reale. Quest’ultima rimane in larga parte inevasa poiché il suo principale interlocutore, l’operatore pub­ blico, investe una quota praticamente irrilevante in rapporto ai fabbisogni. (Si è passati dal 31,5% di realizzazioni pubbliche nel 1951 al 6% nel 1970 in termini di vani e dal 25,9% al 2,8% in termini di investimenti).

A l contrario lo stato è sempre prodigo di interventi « anticongiunturali » per la ripresa dell’attività edilizia privata nei periodi sfavorevoli, basti pensare agli ultimi: nel 1965 col D.L. 6 settembre n. 10221, convertito in legge 1° novembre 1965 n. 1179, il cosiddetto decreto per l’edilizia, che formulava norme per Tincentivazione dell’edilizia attraverso la concessione di mutui agevolati venticinquennali per l ’acquisto e la costruzione di abitazioni, sino al 75% della spesa necessaria o del valore delTimmobile acquistato; poi la legge 28 marzo 1968 n. 422 che stanzia altri contributi per un investimento complessivo di 110 miliardi; poi ancora la legge 1° giugno 1971 n. 291 che stanzia ancora fondi per Tincentivazione dell’attività edilizia privata che con­ sentono un investimento complessivo di circa 500 miliardi. Quest’ultima legge libera inoltre l ’operatore privato dalle noie derivanti da una pianificazione

sottoposta a controlli centrali, dando via libera ai comuni (non compresi in certi elenchi) di attuare gli strumenti urbanistici sulla base della sola adozione consiliare: si mette fine così alla « scarsità di aree » e alla « repressione mini­ steriale » che tanto impacciano il libero sviluppo dell’« imprenditorialità » e dunque la rovina del territorio nazionale.

In un regime di privilegio così sfacciato è più che logico che tutti i grandi operatori finanziari intervengano nell’edilizia, dalle finanziarie sorte con la nazionalizzazione deU’industria elettrica, alle banche, agli istituti previdenziali, alle società assicuratrici, come vedremo più avanti.

Questo tipo di operazioni non può logicamente che avere come obiettivo il massimo profitto, pertanto la fascia di domanda a cui si rivolge la loro produzione non può essere quella dei lavoratori perché i margini di specula­ zione che su questa categoria possono realizzarsi sono indubbiamente assai ridotti, dati i livelli salariali medi. Ancora un altro motivo perché la grande massa delle realizzazioni venga dirottata dai settori di domanda effettivamente bisognosi ad altri che nella casa vedono soprattutto un bene d’investimento. D ’altra parte con un regime di mercato e di fitti quale quello italiano, di fatto la proprietà dell’abitazione ha tutte le caratteristiche di un investimento speculativo, o comunque di un investimento che mette al sicuro dagli sbalzi dei fitti, dall’incertezza generale della situazione economica. Si determina così una domanda d’acquisto in certo senso artificiosa, che blocca capitali che meglio potrebbero essere impegnati in investimenti produttivi e invece servono, alla fine dei conti, a ripagare i finanziatori dell’industria edilizia dei pochi rischi corsi.

« L ’industria edilizia, di per sé, non è in grado di offrire le abitazioni in affitto ed opera in pratica come longa manus dei finanziatori nel rastrella­ mento dei redditi familiari ».4

Questa affermazione trova una prova ulteriore se si considera la struttura delle imprese del settore edilizio privato:

classi di imprese fino a 10 addetti 11- 50 » 51- 100 » 101- 250 » 251- 500 » 501-1.000 » oltre 1.000 » Totali

dipendenti numero imprese

50.129 9.237 170.742 7.064 66.196 985 54.713 344 15.804 47 5.589 9 4.180 4 367.383 17.690

Oltre il 50% delle imprese ha carattere pressoché artigianale, non può quindi certo sobbarcarsi il carico della gestione del costruito; le imprese a carattere industriale, nel complesso, sono assai poche, e di solito esse possono

contare anche su importanti patrimoni di aree sulle quali costruiscono complessi residenziali di lusso, da vendere o affittare a canoni poco accessibili:

« Oggi si afferma la scarsa offerta di case in locazione a canoni moderati fenomeno che è da imputare soprattutto alla forte recessione dell’edilizia pub­ blica, che ha svolto un’attività troppo limitata nelle aree congestionate, dove l ’afflusso dei lavoratori rendeva e rende necessaria una tempestiva, maggiore offerta di case a basso prezzo... L ’iniziativa privata non è in grado di contri­ buire all’offerta di case che possano essere date in locazione contro il paga­ mento di un canone pari all’ 1,5 del costo convenzionale delTalloggio, come fa la GESCAL, né è ammissibile imporre ai proprietari, come misure coercitive, canoni che non compensino non solo la remunerazione del capitale investito, ma neppure il solo ammortamento dei mutui contratti per l’acquisto della abitazione ».5 A questa affermazione fanno riscontro le decine di migliaia di appartamenti « signorili » vuoti, sfitti o invenduti che giacciono anche per anni sul mercato.

I meccanismi di funzionam ento del settore im m obiliare

Ma vediamo chi è che costruisce questi appartamenti, chi sono i « padroni del vapore » edilizio e fondiario.

Su circa 150 titoli, la cui quotazione di borsa viene riportata dai quotidiani milanesi, i titoli di società immobiliari sono pochissimi: una mezza dozzina a cui se ne possono aggiungere altrettanti di società la cui attività principale è connessa con l’edilizia.

I titoli di questo settore che rientrano tradizionalmente tra i grandi della borsa sono però solo quattro: la Generale Immobiliare (fatturato 1970: 38.861 milioni, utile 5.106 m ilioni), i Beni Stabili (fatturato 1970: 16.361 mi­ lioni, utile 2.098 m ilioni), l’Edileentro (fatturato 1970: 1.057 milioni, utile 617 milioni) e il Risanamento Napoli (fatturato 1970: 4.427 milioni, utile 902 m ilion i). In totale 60.706 milioni di fatturato: se vogliamo avere un termine di confronto possiamo dire che corrisponde a circa un trentesimo del fatturato della sola F IA T . L ’utile delle quattro immobiliari è di 8.723 mi­ lioni che sono invece pari a circa una volta e mezzo l’utile della F IA T nello stesso anno 1970. Poche ma sicure dunque le grandi immobiliari. L ’utile della Generale Immobiliare, il gigante del settore, è inferiore solo agli utili globali di quattro titoli finanziari (Finsider, IF I, SME, S TE T) di uno dei servizi pubblici (S IP ), di uno farmaceutico (L E P E T IT ), di uno meccanico (Olivetti) : il capitale dell’Immobiliare, diviso tra circa 36.000 azionisti, è valutato in 58.660 milioni, circa un nono del capitale F IA T . Il capitale dei quattro grandi dell’edilizia al 1970 assommava a circa 170.000 milioni, circa un quarto della

F IA T e quasi uguale al capitale della sola Italcementi, società a servizio del­ l ’edilizia e alFmi. Dobbiamo infine osservare che ancora si tratta di società centenarie, le cui radici affondano nelle peggiori speculazioni urbanistiche di Roma e di Napoli intorno al ventennio 1860-1880; ma la vecchiaia è un guaio di tutta la borsa italiana.

Chi sono i padroni di queste grandi società? Chi ha il pacchetto di maggio­ ranza o la delega del gruppo minoritario dirigente?

La Società Generale Immobiliare è stata per molti decenni una delle colonne finanziarie del Vaticano ed ha raggiunto il suo massimo potere in Italia nel periodo pacelliano: i suoi affari furono spesso intrecciati con quelli di altre istituzioni finanziarie notoriamente legate al Vaticano quale il Monte dei Paschi di Siena che intorno al 1940 a Roma cedette a prezzo di regalo l’intero Monte Mario all’Immobiliare che ne fece, dal dopoguerra in poi, il suo principale campo d’attività edilizia della capitale.

Quando, finita l’Amministrazione Pacelli (e l’esenzione cedolare della Santa Sede), il Vaticano cominciò a liquidare i suoi pacchetti azionari, quello dellTmmobiliare passò nelle mani di Michele Sindona, cioè di un agente di borsa parte in proprio, parte per conto d’altri. Quanto l’Immobiliare fosse in ottime condizioni e l’affare buono lo dimostra il fatto che il Vaticano infilò nel portafoglio dellTmmobiliare l’81,8% delle azioni delle Ceramiche Pozzi, l’unica vera operazione fallimentare delle speculazioni paeelliane, Chi controlla oggi il gigante Immobiliare è difficile dirlo. Sindona ha venduto una parte delle azioni alla Galli and Western Realty Corporation, entrando contempora­ neamente in società con questa per costruire 5 milioni di metri cubi sui vecchi

studios della Paramount ad Hollywood. Da anni infatti la Immobiliare ha

costituito la SGI International Company che batte la comoda bandiera-ombra della Liberia (dove le esenzioni fiscali seguono ancora il regime di comodo del Vaticano nei decenni scorsi) e ohe opera in Francia, USA, Canada, Messico. Sindona fa parte del Comitato esecutivo e del Consiglio d’Amministrazione in cui figurano anche Charles G. Bluhdorn (finanziere da cui dipende la Gulf and Western) e Carlo Pesenti.

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