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L ’azione pubblica

di Vezio Emilio De Lucia

D a Luzzatti a lla G E S C A L

L ’organizzazione pubblica dell’edilizia residenziale nel nostro paese risponde ad un così disordinato ed incredibile complesso di norme, istituzioni e proce­ dure, che è assai difficile fornire un quadro chiaro e sintetico dell’attuale situazione. Ci sembra perciò indispensabile un'analisi — sia pure schema­ tica — dell’evoluzione subita dall’apparato legislativo ed istituzionale, come premessa ad ogni considerazione di carattere generale e particolare sui pro­ blemi di oggi e sulle prospettive della politica edilizia.

E’ del 1903 la prima legge sulla politica della casa — come si direbbe r.ggi — promossa dai ministro Luigi Luzzatti, che si può considerare il fondatore dell’intervento pubblico nell’edilizia nel nostro sistema legislativo. Prima di Luzzatti il problema delle abitazioni per i meno abbienti era affron­ tato da associazioni private solitamente sostenute da banchieri filantropi (in particolare a Milano, Torino e Firenze) oppure dal movimento cooperativo molto diffuso nelle province dal nord (specialmente a Milano) ma presente anche nelle altre regioni. Agli inizi del secolo cominciarono a costituirsi gli

istituti per le case popolari, grazie all’iniziativa dei comuni e di altri enti

(istituti di risparmio, associazioni di cittadini, collegi degli ingegneri, ecc.): il primo fu l'Istituto per le case popolari di Trieste fondato nel 1902, solo tre giorni prima di una legge dell’Impero austro-ungarico sulle abitazioni minime; 1 sorsero poi l’IA C P di Roma, di Bologna, di Torino, ecc. La legge del 1903 incentivò la costituzione degli IA C P , autorizzando i comuni « a intraprendere la costruzione di case popolari soltanto per darle a pigione » . Non avendo aree disponibili, i comuni potevano espropriare i suoli edificatori che potevano essere rivenduti o concessi temporaneamente: « la plusvalenza, manifestatasi al momento della vendita o alla fine delle concessioni temporanee a chiunque fatte », era assegnata al fondo speciale costituito dal comune « per provvedere alle case popolari e alle opere edilizie di carattere igienico».2 Altri obiettivi della legge erano l ’agevolazione degli investimenti, mediante concessione di mutui a tasso agevolato, e la esenzione, per alcuni anni, dalle imposte e tasse sulle nuove costruzioni realizzate dagli enti pubblici e dalle cooperative. Lo stesso Luzzatti definì « panteistica » l’impostazione da lui data alla legge, in quanto « accoglie e protegge tutti i sistemi. Questo è il suo merito, perché ogni sistema che costruisce le case secondo le condizioni locali e gli umori dei

lavoratori, è la verità, che consiste non nel dichiarare princìpi ma nel compiere opere buone ».

Luzzatti non era un rivoluzionario, si muoveva in un’ottica di riforme indispensabili « per salvare l ’ordine sociale minacciato » e capì anche che « i quartieri operai nuovi... creano centri di vita, ravvivano terreni ed edifici » , teorizzando così la più recente speculazione fondiaria che sollecita gli investi­ menti pubblici per urbanizzare le aree poste in prossimità di quelle di sua proprietà, che vengono così valorizzate a spese della collettività.3 Se certamente non si può far carico al Luzzatti per quanto succede oggi, va però messo in evidenza che nella sua impostazione coesistono, in nuce, tutti i difetti che ancora oggi continuano ad affliggere l ’organizzazione pubblica dell’edilizia.

In primo luogo il « panteismo » teorizzato dal Luzzatti, cioè il riconoscimento

della necessità del carattere pluralistico degli interventi, ha dato origine ad un sistema di concorrenza, si può dire, fra interventi pubblici e privati, con il frequente riconoscimento a questi ultimi di funzioni pubbliche, creando una confusione istituzionale tipica del nostro ordinamento.

In secondo luogo leggi immediatamente successive a quella del 1903 estesero i benefici della « temporanea immunità fiscale » anche ai privati, stabilendo

così un principio che, con proroghe successive, è ancora oggi in piedi e rappresenta un’altra delle cause di fondo dello sviluppo distorto del settore. Se infatti è evidente che in alcuni momenti particolari si è costretti a convo­ gliare verso l’attività edilizia gran parte delle riserve disponibili è anche evidente che l’indiscriminata estensione del principio delle esenzioni e delle agevolazioni ai privati è alla base dello stato cronico di crisi dell’edilizia pubblica e al contestuale incontrollabile ed enfatico sviluppo dell edilizia privata, irragione­ volmente privilegiata rispetto agli altri settori produttivi. Nel 1959 l’allora ministro delle finanze Trabucchi calcolò che il complesso delle agevolazioni in atto rappresentava il 31,34% del valore delle costruzioni!4

Infine un altro connotato fondamentale dell’attività edilizia, che prese corpo già dall’epoca del Luzzatti, è determinato dal meccanismo di erogazione del

credito fondiario ed edilizio manovrato in modo da accrescere le disparità

fra le regioni del paese, attraverso esportazioni di capitali dalle regioni meno sviluppate verso le altre. Senza approfondire l’argomento5 va però sottolineato che ha origine così, con il sostegno al processo di accumulazione capitalistica nelle aree più sviluppate, il contributo dell’edilizia &\l’esaltazione dello squilibrio

territoriale, sul quale torneremo.

Dopo la prima legge di Luzzatti l’attività legislativa si sviluppò in maniera vertiginosa; dal 1908 al 1938 fu necessario per tre volte raccogliere in testi unici coordinati tutte le norme legislative emanate in materia di edilizia. Ma il quadro istituzionale restò sostanzialmente immutato se si eccettua l’intro­ duzione (1919) del finanziamento diretto, in conto capitale, dell’edilizia popo­ lare da parte dello stato. L ’intervento diretto fu orientato prevalentemente

a favore della borghesia impiegatizia ed in particolare a vantaggio dei dipen­

denti delle pubbliche amministrazioni. E’ del 1924 la fondazione dellTNCIS (Istituto Nazionale per le Case degli Impiegati dello Stato) cui hanno conti­ nuato a far seguito una serie di provvedimenti disarticolati ed episodici a favore di questa o quella categoria. Venne anche mortificato il sistema tradi­ zionale delle cooperative edificatrici a carattere mutualistico — che, come si è detto, avevano un’antica tradizione, almeno in alcune regioni del paese — nella misura in cui furono privilegiate (1938) le cooperative di impiegati statali e simili, cioè quelle pseudo cooperative agevolate dal contributo statale, enorme­ mente diffusesi nel dopoguerra e ben note all’opinione pubblica.6 L ’obiettivo di questa politica era evidente: « il regime volle acquistarsi, e in gran parte ci riuscì, la simpatia dei cosidetti ceti medi, soprattutto impiegati statali. Non può sfuggire la gravità del metodo adottato: il finanziamento diretto viene introdotto a favore di queste categorie relativamente benestanti, mentre viene invece negato per gli alloggi realmente popolari, lasciati al solo finanziamento mediante mutui con il contributo statale sugli interessi » ?

La proliferazione di benefici a vantaggio dell’apparato burocratico e mini­ steriale non si è arrestata però con la caduta del fascismo, che anzi nel dopo­ guerra ha assunto nuovo vigore. Sono recenti infatti le agevolazioni per la costruzione di case per ufficiali e sottufficiali delle forze armate e della guardia di finanza, per i carabinieri, per la P.S., per i profughi, per i dipendenti dei Ministeri delle Finanze e degli A ffari Esteri, della Amministrazione autonoma delle Poste e Telegrafi e della Azienda di Stato per i Servizi Telefonici, ecc. Una indagine del CNEL del 1967 elenca centinaia di enti e di istituti edilizi assistiti da particolari sostegni dello stato.8

N el dopoguerra quindi le esigenze della ricostruzione non sono state colte come occasione per un riordinamento generale della organizzazione pubblica dell’edilizia, che ha continuato invece a svilupparsi sulla falsariga della legi­ slazione prebellica, sommersa ed enfatizzata dal susseguirsi di provvedimenti parziali e casuali sempre motivati da esigenze congiunturali. Citiamo per tutte: la legge 408 del 1949 (cosidetta legge Topini) che rilancia su larga scala il meccanismo dei mutui e delle agevolazioni fiscali (il meccanismo cioè della manovra del credito, più volte in seguito riproposto come unico fattore di regolazione nelle crisi cicliche del settore edilizio), e la legge 43 del 1949 sulla formazione della gestione INA-Casa (poi G ESCAL), che sviluppava la linea dell’intervento pubblico in conto capitale.

La confusione regnante nel settore edilizio è così descritta in ,un documento di fonte insospettabile (il Ministero dei Lavori Pubblici): « A parte tutta una serie di leggine particolari, affidate per l’esecuzione agli Enti più disparati, anche le leggi fondamentali, nate in momenti diversi e per diverse spinte, formano un quadro carico di squilibri. Si verificano interferenze tra diversi ministeri. Ci sono troppi enti che fanno le stesse cose ognuno a suo modo.

C ’è promiscuità ,tra finanziamenti a ohi provvede in proprio a costruirsi l ’alloggio (cooperative e singoli cittadini) e finanziamenti per la costruzione diretta da parte dello Stato e di enti pubblici di case destinate a varie categorie di cittadini, definite con criteri eterogenei. Poi ci sono le diverse form e di finanziamento: a totale carico dello Stato, con il concorso o contributo dello Stato per i mutui reperiti sul mercato dei capitali, con contributi di categoria. Poi ancora altre differenze per il titolo d’uso (affitto o proprietà), per l’entità dei canoni e delle quote di ammortamento, per i tipi di alloggi. E queste gradazioni non seguono una logica armonica, ma si sovrappongono in maniera casuale così da dar luogo a grosse sperequazioni sociali. C’è chi ha una casa quasi in regalo e se la può rivendere quasi subito, c’è chi è più povero e paga di più di chi è meno povero, ci sono alloggi piccoli che costano all’utente più di quelli grandi; ci sono cooperative fatte con i soldi dello Stato per chi sarebbe benissimo1 in grado1 di comprarsi una casa di lusso per conto suo; ci sono categorie a cui nessuno ha pensato ed altre che hanno la scelta tra tutta una serie di provvidenze. Ci sono soldi per le case e non ci sono mai per i servizi, le attrezzature e le opere di urbanizzazione che devono dare la possibilità di vivere nelle ca se».9

Tabella 1. - Vani di abitazione costruiti in Italia

con investimenti privati e pubblici dal 1951 vani di abitazione

n. unità realizzate in % sul totale

anni totale privati pubblici privati pubblici

1951 543.893 356.186 187.707 65,5 34,5 1952 684.604 489.253 195.351 71,5 28,5 1953 889.269 631.715 257.554 71,0 29,0 1954 1.071.112 778.052 293.060 72,6 27,4 1955 1.295.983 1.018.786 277.197 78,6 21,4 1956 1.398.284 1.156.672 241.612 82,7 17,3 1957 1.655.743 1.441.524 214.219 87,1 12,9 1958 1.697.281 1.458.104 239.177 85,9 14,1 1959 1.818.578 1.434.404 384.174 78,9 21,1 1960 1.816.180 1.351.449 464.731 74,4 25,6 1961 1.977.025 1.591.163 385.862 80,5 19,5 1962 2.282.443 2.017.003 265.440 88,4 11,6 1963 2.615.625 2.439.941 175.684 y3,3 6,7 1964 2.876.930 2.717.711 159.219 94,5 5,5 1965 2.425.224 2.280.221 145.003 94,0 6,0 1966 1.910.657 1.740.851 169.806 91,1 8,9 1967 1.810.581 1.624.378 186.203 89,7 10,3 1968 1.911.327 1.735.627 175.700 90,8 9,2 1969 1.966.268 1.788.768 177.500 91,0 9,0 Totale 32.647.007 28.051.808 4.595.199 86,5 13,5 Media Fonte: IS T A T 1.718.262 1.476.410 241.852 86,5 13,5

Tabella 2. - Investimenti in abitazioni effettuati in Italia dal 1951 (va lori a prezzi correnti in miliardi di lire)

investimenti in abitazioni

valori in % sul totale

anni totale privati pubblici privati pubblici

1951 352 261 91 74,1 25,9 1952 442 338 104 76,5 23,5 1953 523 411 112 78,6 21,4 1954 647 541 106 83,6 16,4 1955 797 700 97 87,7 12,3 1956 907 817 90 90,1 9,9 1957 1.056 954 111 89,5 10,5 1958 1.088 928 160 85,3 14,7 1959 1.172 917 255 78,2 21,8 1960 1.221 1.009 212 82,6 17,4 1961 1.376 1.213 163 88,2 11,8 1962 1.711 1.593 118 93,1 6,9 1963 2.087 1.998 89 95,7 4,3 1964 2.453 2.349 104 95,8 4,2 1965 2.311 2.154 157 93,2 6,8 1966 2.303 2.141 162 93,0 7,0 1967 2.516 2.338 178 92,9 7,1 1968 2.901 2.693 208 92,3 7,7 1969 3.713 3.529 184 95,0 5,0 Totale 29.576 26.815 2.701 91,5 8,5 Media 1.556 1.414 142 91,5 8,5 Fonte: IS T A T

Il settore delle costruzioni è stato insamma manovrato come serbatoio di compensazione verso il quale sono «state dirottate indiscriminatamente la forza lavoro disoccupata e la maggiore quantità di risorse disponibili, ogni volta che si sono manifestati fenomeni di crisi e di ristagno .produttivo, indipen­ dentemente dagli esiti sociali e territoriali degli investimenti. Anche l ’alternarsi di periodi di boom e di periodi di crisi dell’attività edilizia sia pubblica ohe privata, perché fra loro rigidamente intrecciate — non è perciò dovuto ad oggettive situazioni « d i mercato » , ma è determinato, in primo luogo, dalla discontinuità delle commesse pubbliche. In altre parole il fatto che si sia proceduto con tante leggi di finanziamento, ciascuna della durata di pochi anni, diverse per caratteristiche ed entità degli investimenti, ha comportato una situazione perennemente instabile. « Ogni legge ha dato luogo ad^ un andamento parabolico della produzione: fase di avviamento, punta massima, fase decrescente. E di conseguenza l’attività produttiva legata all intervento pubblico ha proceduto a singhiozzo. Anche le leggi di più lungo respiro — i due piani settennali INA-Casa e il programma decennale GESCAL non sono riuscite a stabilire andamenti continui di produzione, ma hanno seguito diagrammi parabolici accentuati: e ne è prova il fatto ohe gli anni

di maggior consistenza dell’intervento pubblico (1959-60) corrisposero alla punta massima di attività del secondo piano settennale INA-Casa, mentre i tre anni di quota minima di intervento (dal 1963 al 1965) corrisposero alla eccessivamente lunga fase di avviamento del programma decennale GESCAL » . 10 (Si vedano le tabelle 1 e 2).

P iù case si fanno p iù ce ne vogliono

Sulla necessità del riordinamento delle leggi, dei metodi e degli enti di intervento, tutti i responsabili governativi sono sempre stati d’accordo — tutti d’accordo in particolare sulla -necessità di sviluppare notevolmente e di sta­ bilizzare l’intervento pubblico in funzione del fabbisogno di alloggi attraverso finanziamenti annuali costanti, con un impegno finanziario pubblico commi­ surato ai redditi dei destinatari.

Il prim o programma di sviluppo economico (1966-1970) determina il fab­ bisogno di abitazioni nella misura di 20 m ilioni di stanze e prevede di soddi­ sfarlo nel quinquennio per poco più di un terzo con un investimento complessivo di -abitazioni di 10.150 miliardi (lire 1963) — cioè 2.030 miliardi l ’anno. Secondo il programma economico, l’intervento pubblico — che si è progres­ sivamente ridotto dal 25,9% dell’investimento totale nel 1951 al 4,2% nel 1964 _ avrebbe dovuto coprire il 25% circa degli investimenti complessivi, articolandosi nelle forme dell’edilizia sovvenzionata e dell’edilizia conven­ zionata. L ’edilizia sovvenzionata è basata sull’intervento diretto dello stato che paga una parte — più o meno grande — del prezzo dell’alloggio e che opera con fondi propri o facendo ricorso al mercato dei capitali. L edilizia

convenzionata invece è quella realizzata dall’iniziativa privata e da singoli

risparmiatori ed incoraggiata dallo stato con agevolazioni fiscali e creditizie, in cambio dell’impegno delle imprese a costruire secondo certi metodi e a cedere le abitazioni a certi prezzi. I l programma economico prevedeva di affrontare con programmi di edilizia sovvenzionata i problemi delle categorie più disagiate e delle zone più povere, mentre l’edilizia convenzionata doveva tendere al contenimento dei costi ed a stimolare l’impiego dei risparmi familiari nell’attività edilizia. La revisione e la semplificazione delle norme, l’adegua­ mento ed il riordinamento delle strutture tecniche ed amministrative, l’auspicata unificazione degli enti pubblici operanti nel campo dell’edilizia, il massimo impegno pubblico per la standardizzazione ed il miglioramento del livello tecnologico, erano gli altri obiettivi del programma.

E’ noto il totale fallimento di queste previsioni. L ’incidenza dell’intervento pubblico sul complesso degli investimenti nel settore ha oscillato, nei primi

quattro anni di applicazione del programma, tra percentuali variabili fra il 5% e il 7,7%: in media meno di un quarto dell’obiettivo programmatico. Dal 1958 al 1969 (ultimo anno del quale sono disponibili dati ufficiali) l’inter­ vento pubblico è attestato su valori grosso modo costanti, mentre l ’iniziativa privata si è espansa vertiginosamente fino a superare i 3.500 miliardi di lire nel 1969 (vedi grafico). N e l complesso del quadriennio 1966-1969 l’edilizia

pri-Investimenti in abitazioni effettuati in Italia dal 1951 (va lori in miliardi di lire a prezzi correnti)

vaia ha quindi superato da sola l’obiettivo quinquennale degli investimenti che erano stati fissati dal programma economico nazionale per l ’intero settore delle abitazioni (pubbliche e private) nel quadro di un complessivo equilibrio delle risorse fra i vari settori di investimento. In una parola si sono costruite

molte più case (e quasi tutte da parte dei privati) di quante sarebbe stato ragionevole e necessario, mentre continua a crescere la domanda di alloggi a basso costo.

Non è la prima volta che si ha questo risultato apparentemente paradossale. Lo Schema d i sviluppo dell’occupazione e del reddito in Italia nel decennio

1955-1964 — il cosidetto schema V a n o n i11 — poneva come obiettivo per risol­

vere il problema della casa quello di realizzare 13 m ilioni di vani nel decennio considerato. L ’obiettivo è stato ampiamente superato: dal 1955 al 1964 si sono costruiti Oltre 19 milioni dì vani (ofr. tab. 1). Il problema della casa avrebbe dovuto quindi considerarsi risolto. Invece nello stesso anno 1964 il Progetto

di programma di sviluppo economico per il quinquennio 1965-1969 predisposto

dal Ministro Giolitti già prevedeva un « fabbisogno ottimale di abitazioni » d-i 20 milioni di stanze! 12

Perché allora nonostante la sovraproduzione esiste una così alta domanda di alloggi? Questo succede non solo perché la produzione privata è prevalen­ temente orientata verso le abitazioni di tipo borghese delle quali il mercato è saturo (a Roma ci sono 32 mila appartamenti sfitti e decine di migliaia di baraccati), ma principalmente perché si sono accentuati (e sono ormai incontrollabili) i fenomeni di migrazione interna dalle zone emarginate verso quelle di concentrazione dello sviluppo, determinando fenomeni di irrazionale congestione urbana cui corrisponde, nelle aree di esodo, l’abbandono di un enorme patrimonio di residenze e di attrezzature civili. In una parola le case

ci sarebbero per tutti solo che o costano troppo oppure sono lontane da dove ormai è costretta a vivere la maggioranza dei lavoratori. Con tutti i limiti

propri di ogni riferimento a dati non disaggregati (i limiti della statistica di Pulcinella) è comunque un fatto che nel 1968 c’erano in Italia circa 54 milioni di abitanti e 56 milioni di stanze, cioè più di una stanza per abitante.

Ma negli ultimi 15 anni hanno dovuto cambiare residenza 17 milioni di abitanti; nel solo Mezzogiorno negli ultimi dieci anni i posti di lavoro sono diminuiti di 600 mila unità. In questi dati sta la spiegazione del fatto ohe nonostante si produca più del previsto il fabbisogno di alloggi cresce vertigi­ nosamente innescando una spirale che sembra impossibile spezzare.13 La stessa attività edilizia gioca un ruolo oggettivo di autoesaltazione degli squilibri terri­ toriali nella misura in cui l’occupazione nel settore delle costruzioni (se occu­ pazione può chiamarsi la condizione lavorativa precaria e di disumano sfrutta­ mento della manovalanza generica dei cantieri edili in rapida crescita nelle aree

metropolitane) rappresenta il punto di passaggio obbligato per il flusso degli emigranti verso una occupazione più stabile e sicura. L ’attività edilizia quindi rallenta il processo di crescita della coscienza rivendicativa per una politica alternativa di investimenti produttivi (portare il lavoro dove c è la forza lavoro disponibile e non viceversa) e contemporaneamente contribuisce alla dilatazione di una domanda di alloggi a basso prezzo nelle aree di immigra­ zione, cui è impossibile far fronte.

In conclusione -la crisi dell’edilizia residenziale, ohe ciclicamente riaf­ fiora __ non è un fenomeno settoriale originato da cause contingenti, ma è una crisi di struttura ohe ha la sua origine incontestabile nello -sviluppo squi­ librato del territorio. Il problema quindi non è solo quello di far compiere uno1 scatto quantitativo e qualitativo all intervento pubblico; non è infatti possibile rivedere l’intera organizzazione edilizia per adeguarla alle esigenze del paese senza modificare il processo1 « spontaneo » di accumulazione capita­ listica che tende a concentrarsi sempre più vertiginosamente in poche aree « privilegiate » , lasciando ai margini della vita civile il resto del paese.

L a “ rifo rm a ” della casa

Questi temi sono stati al centro del dibattito politico -sviluppatosi intorno alla cosiddetta riforma della casa recentemente approvata. I responsabili della mag­ gioranza di governo ritengono con questo provvedimento -sia possibile avviare a soluzione tutti i problemi in un arco di tempo ragionevole. In effetti questo disegno di legge ha senz’altro -una portata ed una organicità non riscontrabile in alcuno dei tanti provvedimenti che hanno inflazionato la legislazione del settore. Riassumiamolo, molto brevemente. I l primo titolo riguarda la program­ mazione e il coordinamento dell’intervento pubblico. Dovranno essere le regioni

a localizzare e coordinare gli investimenti pubblici per l ’edilizia stabiliti dal governo sulla base di un «p ia n o di attribuzione» redatto in funzione dei fabbisogni regionali e -alimentato da tutte le risorse pubbliche nazionali desti­ nate al settore. Saranno le stesse regioni a sostituire (nel 1973) gli attuali enti per l’edilizia pubblica (G ESCAL, IN CIS, eoe.), finalmente destinati alla liqui­ dazione. I l secondo titolo del disegno di legge riguarda l ’esproprio per pubblica

utilità delle aree occorrenti per l ’edilizia economica e popolare, per le attrez­

zature pubbliche, per i parchi nazionali e per una porzione delle aree destinate dagli strumenti urbanistici ad espansioni residenziali ed industriali di inizia­ tiva privata. L ’indennità di espropriazione (a differenza delle leggi finora operanti in materia di esproprio ohe riconoscono il maggior valore acquisito dall’area per effetto dell'opera pubblica ohe vi si dovrà insediare) non dovrà

tener conto della nuova destinazione di piano e sarà commisurata in base all’utilizzazione (quasi sempre agricola) precedente. Tuttavia un complesso meccanismo di parametri di valutazione, variabili in funzione sia della ubica­ zione dell’area da espropriare rispetto al centro abitato che delTimportanza del comune, ripropone la tangente da pagare alla rendita di posizione. I l terzo

titolo rilancia la legge 167 che dà ai comuni la facolta di acquisire le aree

per l’edilizia economica e popolare sottraendole alla speculazione fondiaria. Risultano eliminati gran parte dei difetti che hanno impedito fino ad oggi il pieno funzionamento della 167 ma viene riconosciuto un regime di doppio mercato all’interno dei comparti di aree destinate all’edilizia economica e popolare: le aree e gli alloggi saranno per metà pubblici e per metà privati. Trascurando di soffermarci sul fatto ohe si continuerà così ad alimentare la proprietà privata di pochi privilegiati con danaro pubblico, ci interessa sotto­ lineare che la evidente difficoltà di porre in essere con equità norme così pesantemente discriminatorie, comporterà certamente ritardi e disfunzioni forse non meno gravi di quelli riscontrati fino ad oggi. I l quarto titolo riguarda

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