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Centro sociale A.18 n.100-102. La casa in Italia

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Academic year: 2021

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100*102

"Centro Sociale”

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Centro Sociale

Periodico bim estrale del Centro di Educazione Professionale per Assistenti Sociali (C E P A S ) - U n iversità di Rom a

Comitato scientifico

A. Ardirò, Istituto di Sociologia, Università di Bologna - G. Balandier, Sorbonne, Ecole Pratique des

Hautes Etudes, Paris - R. Bauer, Società Umanitaria, Milano - L . Benevolo, Facoltà di Architettura, Università di Venezia - M. Berry, International Federation o f Settlements, N ew Y ork - F. Botts, FAO , Roma - G. Calogero, Istituto di Filosofia, Università di Roma - M. Calogero Comandini, CEPAS, Roma - V. Casaro, Ministero Pubblica Istruzione, Roma - G. Cigliana, Istituto Sviluppo Edilizia Sociale. Roma - E. Clunies-Ross, Institute o f Education, University o f London - H. Desroche, Sorbonne, Ecole Pratique des Hautes Etudes, Paris - /. Dumazedier, Centre National de la Recherche Scientifique, Paris - A. Dunham, School o f Social W ork (Emeritus), University o f Michigan - AL Fichera, Fondazione « A. Olivetti » , Roma - E. Hytten, D iv. Social A ffairs, U N , Geneva - F. Lombardi, Istituto di Filosofia, Università di Roma - E. Lopes Cardozo, State University of Utrecht - A. Meister, Sorbonne, Ecole Pratique des Hautes Etudes, Paris - L . M iniclier, International Cooperation Administration, Washington - G. M olin o, Amministrazione Attività Assistenziali Italiane e Internazionali, Roma - G. Motta, Fondazione « A . Olivetti » , Ivrea - R. Nisbet, Dept. o f Sociology, University of California - C. Pellìzzi, Istituto di Sociologia, Università di Firenze - E. Pusic, Faculty o f Law , University o f Zagreb - L. Quaronl, Facoltà di Architettura, Università di Roma - M . G. Ross, University o f Toronto - Ai. Rossi-Doria, Osservatorio di Economia Agraria, Università di Napoli -

U. Serafini, Presidenza Consiglio Comuni d ’ Europa, Roma - Ai. Smith, London Council o f Social

Service - /. Spencer, Dept. o f Social W ork, University o f Edinburgh - A. Todisco, Fondazione « A . Olivetti » , Ivrea - A. Visalberghi, Istituto di Filosofia, Università di Roma - P. Volponi, Fondazione « A. Olivetti » , Ivrea - E. de Vries, Institute o f Social Studies (Emeritus), The Hague -

A. Zucconi, CEPAS, Roma.

Comitato di redazione

Adele Antonangeli Marino — Elisa Calzavara — Teresa C iolfi Ossicini — Egisto Fatarella — Velelia Massaccesi — Giuliana Milana Lisa — Laura Sasso Calogero.

D ir e t . r e s p o n s a b ile : A n n a M a r i a L e v i - S e g r e t. d i r e d a z io n e ! E r n e s ta R o g e r s V a e e a D ir e s . r e d a z, a m m in is tr a z . p ia z z a C a v a lie r i d i M a lt a , 2 - 00153 R o m a - t e i , 573.455

Abbonamento a 6 numeri annui L. 4.000 — estero L . 5.500 ($ 8,50) — un numero L . 800; arretrati il doppio — spedizione in abbonamento postale gruppo IV - c.c. postale n. 1/20100 — P r e z z o d i qu esto fa s c ic o lo l i . 2.400,

Una volta all’ anno C e n tr o S o c ia le pubblica un volume in edizione internazionale dedicato a pro­ blemi di sviluppo socio-economico dal titolo In t e r n a t io n a l R e w ie v o f C o m m u n ity D e v e lo p m e n t,

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Centro Sociale

scienze sociali - servizio sociale - educazione degli adulti

sviluppo di comunità

anno X V II, n. 100-102, dicembre 1971

F. Giovenale 1

Sommario

I l problem a della casa in Ita lia

L e case: co m e son o, co m e d o v r e b b e r o essere, co m e d e te r m in a r e l e s c e lte

Perché questo tema - Rapporto uomo-casa nel tempo: 1) Le case dei poveri nelle città; 2) Idee ed esperienze sociali per gli abitati operai - Iniziative di base per la casa e la città.

I. Insolera 47

e G. Marcialis

L 'a z i o n e p r iv a ta

L’espansione dell’edilizia privata - La struttura del settore immobiliare - I suoi meccanismi di funzionamento - Case in proprietà e case in affitto: il problema della rendita fondiaria - Il risparmio e il credito fondiario - Il modello di abitazione nell’edilizia privata.

V. E. De Lucia 65 L* a z io n e p u b b lic a

Da Luzzatti alla GESCAL - Più case si fanno e più ce ne vogliono - La « riforma » della casa.

A. Signorelli 77

D ’Ayala

L a c u lt u r a d e lla casa. C o n tr ib u to ad un ’ a n a lis i d e lla do m an d a d i a llo g g i in I t a l i a

Il problema - La cultura della casa in ambiente contadino - La cultura della casa in ambiente urbano - Nuovi orienta­ menti di valore.

B. Roscani 109 I s in d a c a ti e i l p r o b le m a d e lla casa

E. Rogers Vacca 117 11 P r o b le m a d o lla casa n e l la v o r o d e g li a s s is te n ti s o c ia li

Premessa - La funzione diagnostica delle notizie sulla casa e sull’ambiente - A chi servono i dati ■ La funzione pratica delle notizie sulla casa e sull’ambiente.

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129 R e c e n s io n i

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T. Ciolfi e M. Ferretti, La formazione degli operatori sociali (G. Tomassini); Encyclopedia of social Work 1971, a cura di R. Morris et al. (E. B. Hill); Il ruolo dell’assistente

sociale di fabbrica, a cura di L. Pagliarani (E. Rogers

Vacca); L. Trichaud, Education et Développement en Italie (M. Valli Mereghetti); R. L. Béais e H. Hoijer, Introdu­

zione all’antropologia culturale e Introduzione all’antro­ pologia fisica; G. Costanzo, La costruzione dell’uomo;

L. Mair, Introduzione all’antropologia sociale (E. Calzavara).

S e g n a la z io n i

A cura di E. Calzavara, P. Castello, I. Ciuffa, E. Rogers Vacca.

D o c u m e n ti

G. Riches, Problemi di tirocinio professionale nel lavoro

di comunità; K. D. Gangrade, Un caso di lavoro sociale con i profughi; T. Ciolfi Ossicini e E. Rogers Vacca, Tesi discusse al CEPAS dal luglio 1970 al marzo 1971.

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Il problema della casa in Italia

Quando si ebbero anche in Italia i prim i allarmi ecologici a livello divul­ gativo, cioè quando « Italia nostra » , quotidiani e periodici, cominciarono a dare l’allarme sui disastri in atto nel nostro paese, avevamo pensato di affrontare anche noi l’argomento, trattandolo come serie di contenuti da versare dentro i gusci teorici dell’educazione permanente. Avevamo cioè aperto un dossier, in cui andavamo di mano in mano infilando da una parte documenti di ampia portata deH’O N U , dell’OCDE, ecc., che andavano dalle distruzioni ambientali alla difesa del paesaggio, dall’inquinamento alla piani­ ficazione turistica; dall’altra, più modeste testimonianze periferiche di delitti ambientali e di iniziative per prevenirli. Ci sembrava di avere uno spazio caratteristico per affrontare il problema in termini educativi, cercando di fornire materiali a gruppi più o meno formali, di raggiungere associazioni e periodici locali, i sindaci di piccoli comuni, le Pro-Loco.

Abbiamo lasciato passare troppo tempo per documentarci, e intanto l’argo­ mento è diventato così enorme e terrificante da essere quasi inafferrabile, o meglio afferrabile su una scala che non è la nostra. Così abbiamo cercato di circoscriverlo, di ridurlo in una delle sue dimensioni, estratta dalla sua globalità forse elusiva di presagio apocalittico.

D i riduzione in riduzione, ci siamo fermati alla proposizione: il territorio

come risorsa. E di qui, volendo presentare alla discussione dei lettori un argo­

mento attuale che tocca tutto il nostro paese, siamo arrivati al problema

della casa in Italia.

Non pensiamo certo di aver affrontato il tema in tutti i suoi aspetti, di aver messo insieme un quadro definitivo: abbiamo soltanto cercato di spie­ gare meglio alcuni lati, di riandare una certa storia in modi utilizzabili.

Ci hanno aiutato in questo lavoro — prima che come autori, come colla­ boratori al piano del volume — degli architetti e urbanisti: Fabrizio Giove­ nale, Italo Insolera, Giusa Marcialis (che è consigliera regionale per il Lazio) e Vezio De Lucia; un’antropologa culturale, Amalia Signorelli D Ayala (docente all’Università di U rbino); un sindacalista, Bruno Roscani (della C G IL ); un assi­

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stente sociale, Ernesta Rogers Vacca (della nostra redazione). Come è chiaro dai loro contributi, lo sforzo è stato concentrato sulle due direttrici di fondo secondo le quali il problema può essere colto: quella culturale e quella operativa.

I l nostro intento infatti, avvicinandoci alla realtà italiana — dopo molti fascicoli dedicati piuttosto ad una informazione su fatti sociali in altri paesi — è che questo volume possa essere non soltanto letto, ma anche direttamente usato come fonte di documentazione, come presentazione di argomenti da dibattere fra operatori e base: le discussioni più fruttuose sono quelle in cui le parti dispongono di un fondo comune di conoscenze, e di una rassegna dei possibili punti di convergenza e divergenza, per mettere a confronto le loro idee, e quindi passare ad una azione.

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Le case: come sono, come dovrebbero essere,

come determinare le scelte

di Fabrizio Giovenale

Perché questo tema

Case'7operaie: chi le fa, come sono, perché le cose non" vanno, da dove ricominciare

Scelte possibili, preferenze, aspirazioni

Parlo con due operai giovani, con moglie e figli piccoli, che abitano lungo la Casilina a Roma. Remo sta in una casa della GESCAL a Torre Spaccata (sono palazzotti decorosi, con gli alberi tutto intorno). Mario è un « abusivo », uno che ha comprato il lotto in « zona agricola » e ci si è fatto la casa da sè.

Il primo appartiene a quella minuscola minoranza che ha avuto la fortuna di vincere la lotteria della « casa di stato » . Il secondo fa parte dell’enorme maggioranza — romani poveri, operai, immigrati (da 50.000 a 70.000 al­ l’anno) — per i quali la comunità non fa niente e che trovano l ’unica alternativa nella « legge fuori legge » dei lottizzatori abusivi: quelli che comprano all’ingrosso terre su cui non si dovrebbe costruir niente, e le riven­ dono a poveracci che ci si tirano su le case come possono, caricandosi le responsabilità' dell’« abuso ».

E’ chiaro che se i terreni di piano regolatore costano troppo, se i costruttori fanno prezzi troppo alti per chi vive di salario, se lo stato non fa case popolari, in definitiva se il sistema con le sue leggi non risolve i suoi problemi, Mario è costretto a rivolgersi all’unica legge che funziona sul serio, quella di Franeisci il lottizzatore della Casilina. Ma per me adesso il problema non è questo, c’è un’altra cosa che voglio capire.

Siamo abbastanza amici. Domando a Mario: « ma se tu potessi andare in una casa della GESCAL come quella di Remo, ci andresti? Preferisci la tua o la sua? ».

« Io in una casa della GESCAL? ma manco morto: a me me piace casa mia come me la so’ fatta io ». Questa è la risposta di Mario.

Controprova: « Remo, e tu dove pensi che staresti meglio: a casa tua o in quella di M a rio ?». Remo puntualmente risponde che preferirebbe farsi una casa da sé come quella di Mario, neanche a dirlo.

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Ecco, questo è il punto dove finora ci si è capito troppo poco, e mi sembra necessario sforzarci per capirne di più.

Da anni e anni sbattiamo la testa su questo problema della casa: se non altro per sentito dire ci sembra di saper tutto sulla speculazione delle aree fabbricabili, sulla struttura padronale e consumistica che determina la forma della città e il modo di abitare della gente, sugli inquinamenti e sulle distru­ zioni prodotte dall’« uso capitalista del territorio » , sull’incapacità e sulla scarsa volontà di risolvere questi problemi da parte di un apparato dirigente che dipende in forme troppo radicate dal potere economico.

Ora tutti questi sono problemi veri: politici, economici, di potere, di risorse, di quantità. Ma resta l ’altro fatto: che se per un miracolo domani mattina ci alzassimo e trovassimo tutto fatto — aree pubbliche e gratuite, piani regolatori, soldi in quantità per far case, tutti i poteri e le risorse in mano allo stato, lo stato in mano ai lavoratori — resterebbero sempre in piedi i problemi della qualità e dell’iniziativa: il fatto che Remo preferisce la casa che Mario s’è tirata su con le sue mani. Avremmo tutti tutti i mezzi per fare, ma non sapremmo come fare, che cosa fare.

Ci troveremmo ancora in mezzo ai guai: guai tanto più grossi perché se è vero che né poteri pubblici né iniziativa privata hanno dimostrato finora voglia e capacità di cambiare le cose, l’unica speranza di avere case e città migliori è che sia la gente a capire quello che è meglio per lei, a dirlo forte e a muoversi per averlo.

Ma per questo Remo e Mario e tutti gli altri come loro dovrebbero avere negli occhi l’immagine di una città diversa, di case diverse, di un modo di abitare — e quindi di vivere — diverso: e innamorarsi di questa immagine, tanto da battersi fianco a fianco per tradurla in realtà. E siccome Remo e Mario conoscono solo quello che vedono e sentono intorno a loro, e in più a frastornarli c’è la grande macchina dell’imbonimento pubblicitario (T V , stampa, cinema e via dicendo) ci vuole chi li aiuti: prima di tutto a non farsi incantare dagli specchietti per le allodole e poi a ragionare sul loro interesse comune, sul loro diritto a vivere come cittadini non inferiori a nessuno in una repubblica che si dice fondata sul lavoro, infine a costruirsi l’immagine di questo ambiente vitale riscattato dalle ipoteche padronali e fatto a misura dei loro bisogni, dei loro diritti e delle loro aspirazioni.

Casa e città come contenuti della « cultura alternativa di classe »

A questo punto sono chiamati in causa gli operatori culturali: storici, sociologi, economisti, urbanisti, architetti, tutto l’arco delle « scienze del­ l’uomo ». Perché queste « nuove immagini » prendano forma c’è un contributo di conoscenze, di informazioni, di elaborazione che loro possono fornire.

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Ma ci vuole gente capace di dire no alle comode tentazioni del sistema, di mortificare l’amor proprio semplificando il linguaggio, di dedicarsi comple­ tamente alla formazione di una « nuova cultura » del mondo del lavoro in totale contrapposizione a tutti i contenuti della cultura borghese tradizionale. Tutte cose, queste, di cui si parla molto e da tempo, e che è ora di cominciare a fare sul serio.

Per gli operatori culturali che se la sentono di imboccare questa strada si prepara un compito durissimo, ma affascinante e soprattutto utile, indi­ spensabile.

Compito duro perché c’è tutto da inventare. Oggi più che mai economisti, urbanisti, architetti e via dicendo lavorano esclusivamente per il sistema: sia consapevolmente razionalizzando con i loro piani l’avanzata degli interessi capitalistici sul territorio — quando non progettano industrie e « case per ricchi » — sia inconsapevolmente (ma non troppo) quando rivestono di inten­ zioni « sociali » visioni avveniristiche di aree metropolitane e megalopoli collettivizzate ipertecnicizzate e automatizzate, comode soprattutto per chi tiene le leve del comando. A l di là c’è il vuoto. Da dieci anni e più dei problemi « qualitativi » della casa, dell’ambiente residenziale, della città di oggi, nelle condizioni di oggi, per i lavoratori di oggi, qui da noi non se ne occupa sul serio quasi nessuno.

Compito indispensabile per il mondo del lavoro. Certo. Forse non ci siamo ancora resi conto fino in fondo che proprio questo è il punto-chiave per un paese povero di spazio e sovrapopolato come il nostro, che il nostro avvenire si gioca tutto proprio su questi fatti: uso del territorio, crescita delle città, problemi delle case. Sì, perché il sistema potrebbe far molto in teoria per diffondere il benessere, la piccola proprietà, gli incentivi all’emulazione sociale, fino ad accaparrarsi stabilmente la maggioranza dei consensi: è la linea maestra della democrazia cristiana da sempre. Ma in pratica non può fare niente di tutto questo perché dovrebbe rinunciare allo sfruttamento di rapina sul territorio e sulle città, mentre è proprio di questo sfruttamento che vive e si alimenta.

Automobili, raffinerie, petrolchimica, siderurgia, speculazione edilizio-fon- diaria, turismo: se cade lo sfruttamento del territorio (con tutto quel che comporta di squilibri sociali tra nord e sud, tra montagna e pianura, tra campagna e città oltre che di dissesti geologici, disboscamenti, erosioni, inqui­ namenti) il sistema crolla.

Perciò è inutile illuderci sulla giusta ripartizione dei benefici dello sviluppo in un sistema che trae la sua forza dalla ingiustizia nell’uso del territorio, tanto da avviarsi alla rapida e cieca distruzione dell’ambiente vitale. Già

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oggi serve a poco avere più soldi e comprarsi oggetti sempre nuovi .quando si è costretti a vivere o in campagne in abbandono o in città inabitabili, tra i rischi e le nevrosi del traffico, i cieli saturi di vapori mefitici e cancerogeni, con Tunica alternativa di cercar ristoro su monti disboscati o lungo le coste cosparse di rifiuti di mari coperti di nafta. E’ perciò che da noi la « svolta » è più necessaria che altrove, ed è perciò che la « via al socialismo » in Italia parte proprio da qui: territorio, città, case.

A vvìo della ricerca

La ricerca che segue vuole essere — limitatamente al problema-casa — un primo tentativo su questa via, per aiutare Mario e Remo a mettersi d’accordo.

Un punto di partenza l ’abbiamo. Remo che ha la casa GESCAL pre­ ferisce quella di Mario almeno per due motivi: primo perché il suo allog­ gio è uguale a quelli del piano di sopra, del piano di sotto, della porta accanto, secondo perché nessuno ha chiesto a lui come lo voleva, e perciò s’è dovuto adattare a modi di vivere pensati da gente che lui nemmeno conosce. Invece Mario ha una casa « personale », nei limiti delle sue possi­ bilità se Tè tirata su come serviva e piaceva a lui secondo le sue idee. Magari poi la casa di Remo avrà qualità migliori di quella di Mario, ma questo per loro conta meno. Quello che è certo è che né l ’uno né l ’altro ne sanno molto: non hanno idea di modi di vivere diversi.

Partiamo da qui e vediamo di avviare un discorso allargato, per comin­ ciare a capire:

— che cosa rappresenta oggi la casa per l’operaio, il « lavoratore dipen­ dente », il contadino venuto in città;

— quali sono i bisogni reali che la casa deve soddisfare;

— in che misura la gente si rende o non si rende conto di questi bisogni; — come mettere a disposizione della gente — senza mistificazioni né impo­ sizioni — i mezzi, le informazioni, le idee-guida, le immagini perché si possa rappresentare la casa che gli serve;

— da quali forme di collaborazione, di partecipazione dei singoli alle decisioni collettive può scaturire una immagine dell’abitato che risponda ai bisogni tanto dei singoli che delle comunità, così da mettere in moto una spinta rivendicativa consapevole.

Ecco, questo è il tipo di lavoro che vorremmo avviare con questo fascicolo, invitando a discuterne chi se la sente di portarlo avanti.

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Rapporto uomo-casa nel tempo

I. Le case dei poveri nelle città

Naturalmente si dovrebbe cominciare dalla storia: la storia dell’abitazione umana, del rapporto uomo-casa.

A farlo in forma completa ci vorrebbe un grosso studio. Qui ci dobbiamo contentare di una rassegna molto rapida e superficiale di notizie.

Facciamo scattare in successione rapida nella nostra memoria una serie di immagini — ricordi di scuola, libri, musei, fìlms, viaggi, esperienze vis­ sute — passando in rassegna i modi di abitare caratteristici delle diverse epoche: case greche e romane, castelli e fortezze, case artigiane medievali, masserie di campagna, ville e palazzi rinascimentali, barocchi, ottocenteschi e via via fino ai giorni nostri, ai quartieri di villette in periferia, alle « palaz­ zine » di città, ai grattacieli di appartamenti, ai blocchi di case popolari.

Tugurio, slum, bidonville

Adesso fissiamo l ’attenzione su questo fatto: sempre, da che mondo è mondo1, vicino alle abitazioni « caratteristiche » espressione della cultura di un’epoca (e cioè delle classi dominanti) si sono affastellati i tuguri dei poveri, della carne da lavoro da gettare nel crogiolo1 delle città per alimentarle: e questi tuguri non hanno mai espresso altra cultura che quella della miseria e della degradazione. Da che mondo è mondo, da quando i primi uomini impararono a tessere ripari di rami e ad accatastare pietra su pietra per difendersi da rischi e intemperie, le case dei poveri sono state sempre uguali: poco spazio coperto per sopravvivere.

E ancora oggi milioni e milioni di famiglie in tutto il mondo vivono nelle bidonvilles, favelas, baraccopoli, ghetti e coree di tante e tante periferie urbane — tra cui Roma, per fare un esempio — in condizioni probabilmente peggiori di quelle dei primitivi che almeno avevano l’aria pulita e il verde dei boschi, mentre le situazioni igieniche e di affollamento delle sterminate bidonvilles di oggi sono dovunque infami, anche dove su ogni abituro c’è l’antenna della TV .

Certo le cose non sono andate sempre nello stesso modo. Quando il contadino medioevale fuggiva dalla vita primitiva e incerta dei campi per farsi artigiano tra le mura di un libero comune, insieme alla cittadinanza gli era offerta la possibilità di fabbricarsi un’abitazione decorosa dove lavorare fianco a fianco, nella stessa strada, con gli altri cittadini suoi pari. Ma col crescere delle città sotto nuovi padroni nelle epoche successive, a maggiori ricchezze e poteri per le classi dominanti corrispose la formazione di un ceto sotto­

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proletario sempre più vasto, relegato in condizioni di degradazione, e contem­ poraneamente prese forza lo sfruttamento delle costruzioni urbane da parte di proprietari esosi ai danni di affittuari poveri e indifesi.

E’ ben noto come il nuovo potere industriale dell’ottocento, assunse come pilastro portante della sua impalcatura economica lo sfruttamento delle masse proletarie: attratte dalle campagne col miraggio del salario industriale, in eccesso rispetto al fabbisogno dell’industria per poter tenere basso il prezzo del lavoro, nelle condizioni di alloggio forse più infami che il mondo occi­ dentale abbia mai conosciuto.

Fu il periodo degli slums miserabili e sovraffollati impregnati di fumo, neri di carbone, fetidi di rifiuti umani non rimossi e di miasmi industriali, ove allo sfruttamento del lavoro in fabbrica si aggiungeva lo sfruttamento del padrone di casa con i suoi fìtti alti e gli sfratti inesorabili. E c’era sempre chi stava ancora peggio: chi non trovava nemmeno alloggio negli slums e doveva adattarsi nei tuguri.

Molto tempo è passato, ma molte condizioni dell’età paleotecnica soprav­ vivono. E’ cessata la tratta ottocentesca degli schiavi ma sopravvive lo sfrut­ tamento colonialista e quello della forza-lavoro sottratta alle campagne: ed ancora oggi in quasi tutte le grandi città del « mondo civile » sopravvivono affiancati lo slum operaio e la bidonville come rifugio per le moltitudini di espulsi dalle campagne che non trovano inserimento nel meccanismo emulativo della città neocapitalista.

A processi di crescita di questo tipo si deve ancora in gran parte l ’espan­ sione delle nostre città.

Ghetti nelle vecchie città

Evochiamo ora altre immagini: non di espansioni urbane, ma di vecchie parti di città fatiscenti.

Le città crescono nel tempo strato su strato, le case sopravvivono alle generazioni che le hanno innalzate, sono abitate da generazioni diverse, ne influenzano in qualche misura il costume: rappresentano un fattore di conti­ nuità storica nella dinamica dei mutamenti sociali.

Ma ci sono parti di città, un tempo nobili e pregiate, che invecchiando decadono o restano soffocate dai nuovi quartieri che crescono intorno. Chi ci abitava va via, si sposta in parti nuove della città. Allora i « gusci vuoti » vengono occupati dai ceti diseredati che ci si affollano dentro, che si adattano alla peggio tra mura non fatte per loro: mura che tra l ’altro hanno sempre un padrone che cerca di cavarne più che può, e perciò si affanna a stiparci dentro inquilini, e certo non ha interesse a spender soldi per mantenerle in buono stato. Ne nasce una spirale di reciproca degradazione tra case e

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abitanti, che tocca il fondo solo quanto una iniziativa « ricca » di speculazione caccia via i poveri, abbatte, « risana » e ricostruisce per nuovi residenti ricchi.

Dai vichi e dai bassi delle nostre città meridionali ad Harlem e ai ghetti negri di Washington e Detroit questa vicenda si ripete.

Perciò, da sempre, l ’alternativa per i poveri nella città è quella di abitare, come larve, in mura che appartennero a generazioni sepolte, o di accamparsi nei ricoveri ammassati nelle periferie.

Meccanismi di esclusione dei poveri nella città

Guardiamo ad altri aspetti del problema. Da un lato l’eterna aspirazione del povero e del reietto a cambiare il suo stato, a somigliare a chi sta meglio di lui, ad assumere in casa e fuori i comportamenti e i modelli di costume copiati dalle classi dominanti, nel patetico e inutile tentativo di sentirsi parte del tessuto sociale « attivo » della città. D ’altro lato i « padroni della città » ben contenti di stimolare questa disposizione al conformismo che garantisce la subordinazione degli emarginati, ma altrettanto fermamente decisi a rifiu­ tare il loro inserimento, a lesinar loro i diritti civili, a relegarli nella condi­ zione servile di forza-lavoro assoggettata e sempre disponibile.

Oltre a salari di fame, fitti alti, disoccupazione e sfratto sempre incom­ benti, sovraffollamento in alloggi inumani, la « città dei padroni » ha ancora altri mezzi per relegare ai suoi margini le classi diseredate.

Contadini e artigiani basavano la loro vita su due fattori di stabilità: famiglia patriarcale nella « casa avita » e lavoro fra le stesse mura della abitazione. La città industriale distrugge l’uno e l’altro: il neo-proletario passa indifeso da un ambiente noto e protettivo, fitto di relazioni e di solida­ rietà, a un ambiente incomprensibile e ostile che lo isola e lo inaridisce. Ora per lui la casa è solo il ricovero per buttarsi a dormire nelle pause troppo brevi del lavoro o dove ripararsi per sopravvivere alla disoccupazione: e fuori casa non c’è niente che possa sentire suo.

E più crescono le dimensioni delle città più cresce il disorientamento degli inurbati, forzandoli a rifugiarsi nei loro squallidi quartieri residenziali entro orizzonti ancora più ristretti di quelli dei loro vecchi villaggi.

Ancora. Le « grandi strutture urbane » — dai palazzi fastosi dei principi rinascimentali alle « grandi ristrutturazioni » barocche e ottocentesche (piazze d’armi e grandi viali tagliati nel vivo di vecchi quartieri popolari, progettati apposta per controllare i moti di piazza a suon di cannonate e di cariche di cavalleria) e via via fino ai gelidi giganteschi « templi del denaro » dei giorni nostri — trasmettono sempre lo stesso messaggio: gloria al potere e a chi ce l’ha, e i poveri se ne stiano alla larga.

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omogenei, compresi e accettati da tutti, le grandi strutture urbane delle.epoche successive espressero e glorificarono valori sempre più estranei e ostili alle masse, intesi ad ispirare reverente timore e soggezione. Si giunse per gradi al completo isolamento culturale delle classi soggette, a dar loro il senso di una distanza irraggiungibile dal « mondo dei padroni » attraverso il raf­ fronto tra i fasti della « città padronale » e lo squallore dei loro ghetti, resi deprimenti e monotoni fino all’ossessione da una speculazione edilizia alleata nello sfruttamento al nuovo padronato industriale.

Può essere interessante paragonare la storia delle case operaie con quella dell’istruzione. I poveri sono rimasti per secoli analfabeti — in condizioni di inferiorità tanto maggiore quanto più la cultura dominante si veniva attrez­ zando sul piano scientifico e legalitario — e l ’istruzione che infine si decise di dar loro fu accuratamente utilizzata o modellata secondo gli interessi padro­ nali (dio-patria-famiglia e virtù civiche ieri, emulazione sociale e consumismo oggi). A llo stesso modo fino a ieri per i poveri c’era il tugurio, oggi qua e là si cominciano a offrire loro condizioni apparentemente decenti di inseri­ mento nella città, ma a prezzo della loro integrazione nel sistema.

C ’è da dire che — soprattutto dalla metà dell’ottocento in poi — la crescita dei nuovi ceti subalterni medio e piccolo-borghesi determina largamente i caratteri delle espansioni urbane. La speculazione fondiaria ed edilizia, anche essa sempre più forte e organizzata, offre a questi ceti (già portati per il loro stesso ruolo nel contesto1 socio-economico alla subordinazione e all’imitazione delle classi alte) case ed ambienti residenziali tutti improntati alla farisaica enfatizzazione del « focolare » e delle virtù domestiche, che hanno per effetto di distruggere definitivamente le ultime tracce di collegialità, di vita di rela­ zione negli spazi residenziali sopravvissute all’habitat medievale. Alloggi che trasudano conformismo e apparente decoro anche se sono appena decenti e se, il più delle volte, sono costretti in tessuti edilizi monotoni, banali e addensati al punto di far mancare aria e luce. Questo genere di alloggi e di vita residenziale da allora in poi è il miraggio, il « premio all’integrazione » fatto balenare agli occhi delle famiglie operaie.

Così per le classi lavoratrici nasce la scelta tra emarginazione e scimmiesca imitazione della mini-borghesia. Ma è una scelta soltanto1 apparente. Subordi­ nazione o no, l’emarginazione rimane. Infatti la città seguita a crescere e a gonfiarsi, crescono affitti e prezzi delle case, così che per chi vive di puro salario, costretto alla lotta per la sopravvivenza giorno per giorno (che toglie tempo, mezzi, energie per la presa di coscienza e la solidarietà) c’è ancora soltanto l ’estrema periferia degradata, il vecchio quartiere fatiscente o la bidonville. Niente verde, niente spazio tranquillo per i bambini e per i vecchi, ancora e sempre soltanto isolamento disorientamento1 e frustrazione: e in più l ’oppressione della marea di cemento che cresce intorno sempre più

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fitta e più alta, l’aria inquinata, i rumori, i pericoli, la congestione del traffico motorizzato, fino ai limiti della sopravvivenza.

Si, perché c ’è anche il fatto che la nuova città cresce in funzione dell’auto privata. Chi non ce l’ha è un paria, chi non ne ha due condanna moglie, figli e vecchi a starsene negli squallidi dintorni di casa salvo la rituale immer­ sione collettiva nel mare di latta fetida rumorosa e micidiale del week-end. E lo « spazio sotto casa » è tolto alle persone e dato alle macchine.

Così la casa, per cattiva che sia, resta l’unico rifugio contro il mondo ostile: e questo va egregiamente bene per chi teme la « politicizzazione delle masse » : anche perché lì, tra le pareti domestiche, c ’è la panacea universale, la scatola magica sempre pronta a dispensare abilmente a tutti la dose quoti­ diana di rassicuranti scempiaggini.

Di fronte a queste situazioni di segregazione classista e di sfruttamento dello spazio urbano a suo danno, fino a ieri la classe operaia in Italia è stata inconsapevole e impotente. S’è vista crescere intorno la selva di cemento ostile con la stessa rassegnazione fatalistica con cui si subiscono le catastrofi naturali. I detentori del potere hanno fatto di tutto — e con pieno successo — per togliere dalla testa dei lavoratori e delle loro rappresentanze politiche l’idea stessa di avere qualche diritto, di poter influire in qualche modo sulla crescita della città.

Solo da pochissimo tempo « qualcosa si muove ». Perciò crediamo che sia questo1 il momento giusto per applicare il discorso sulla « cultura alternativa di classe » ai temi della città.

Ma ogni sistema sviluppa i suoi anticorpi, le forze destinate a soppiantarlo. Così anche la civiltà industriale ha visto sorgere nel suo corso idee e inizia­ tive volte a superare lo sfruttamento privato della città, ad umanizzarla, a risolvere il problema delle « case dei poveri ». Può essere utile per il nostro orientamento percorrere una rapida panoramica di queste iniziative. II.

II. Idee ed esperienze sociali per gli abitati operai

O rigini diverse delle abitazioni europee

Nel passare in rapidissima rassegna — in forma del tutto sommaria — cento- cinquant’anni di teorie ed esperimenti di intervento pubblico per le case e gli ambienti residenziali delle « classi povere », diamo necessariamente per scontato un minimo di conoscenza delle condizioni sociali economiche e poli­ tiche dei diversi periodi e dei diversi paesi di cui si parla, a partire dallo sfruttamento operaio dell’età paleoteonica fino ai livellamenti (o

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pseudo-livellamenti) emulativi e consumistici dei paesi altamente industrializzati di oggi: così da poter concentrare il discorso sui problemi dello spazio senza stemperarlo in riferimenti storici oltre lo strettissimo indispensabile.

Ma perché siano più chiari certi sviluppi tipici dell’organizzazione spaziale per l’abitazione dobbiamo, per un momento solo, tornare ancora più indietro nel tempo.

Già dal primo medioevo nel sud-europa mediterraneo resti di antiche strut­ ture civili, incursioni dal mare, natura assolata e pietrosa hanno portato a serrare e sovrapporre gli alloggi, mentre clima caldo e fatti di storia e di costume (segregazione della donna) hanno favorito la tendenza a comporli ove possibile di spazi piuttosto ampi e ben divisi uno dall’altro. In questi paesi ad industrializzazione ritardata e limitata lo slum paleotecnico si è concretato anzitutto nel sovraffollamento di vecchie strutture urbane, e poi — appunto — nella costruzione di palazzoni-alveari addensati.

Invece l ’archetipo della casa nel nord freddo e boscoso è l ’izba di un solo locale, facile da scaldare. Dal clima, dal diverso rapporto con la natura, dal ruolo della donna nella vita familiare si forma la tradizione della casa « isolata », incentrata su un ambiente per la vita diurna che dà accesso ad altri spazi minori. Anche i peggiori slums paleotecnici inglesi hanno rispet­ tato questa tradizione.

L ’Ottocento: utopie, marxismo, inizi della disciplina urbana

Con gli alimenti ideologici dell’illuminismo e della rivoluzione francese, con la coscienza in moralistica rivolta contro le aberrazioni della città industriale nascente, con l ’immaginazione accesa dalle grandi avventure delPindipendenza e della « corsa all’ovest » nordamericane, nascono agli inizi dell’età paleo­ tecnica le « utopie moderne » sull’abitato. Portano i nomi di Robert Owen, Charles Fourier, Etienne Cabet, e tutte più o meno configurano comunità ristrette di lavoratori, collettivizzazione dei servizi di interesse comune, educa­ zione pubblica dei giovani, ripartizione del lavoro individuale tra attività industriali agricole e corvées per il servizio della comunità, vita a contatto con l ’ambiente salubre della campagna.

Con i loro disegni — troppo schematici e astratti per avere applicazione pratica (i pochi tentativi di realizzarli ebbero vita stentata e breve) — gli utopisti mostrarono di essersi resi ben conto dei tragici effetti della nuova condizione proletaria, ma non delle cause reali. Marx ed Engels pur ricono­ scendo loro le « buone intenzioni » ed il merito di aver posto avanti agli occhi della classe operaia le prime raffigurazioni di un nuovo modo di vivere basato sull’uguaglianza, denunciarono apertamente la pretesa di risolvere il problema modificando le « manifestazioni secondarie » del male, e concentra­ rono la loro azione appunto sulla analisi serrata delle cause e cioè dei mec­

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canismi dello sfruttamento capitalista, subordinando le soluzioni specifiche alla eliminazione delle cause stesse attraverso la lotta senza quartiere degli sfruttati contro gli sfruttatori.

Predicazione degli utopisti e paure per il risveglio operaio in chiave marxista (insieme alla ragionevole constatazione che smog e miasmi degli slums, sorci e pidocchi, tifo e colera infettano e uccidono i ricchi come i poveri) portarono i paesi europei all’applicazione dei primi regolamenti edilizi e di igiene urbana ed alla realizzazione di acquedotti e fognature anche per i « quartieri dei poveri ». Si avviò il processo di « disciplina della crescita urbana » che nella seconda metà del secolo produsse i primi piani regolatori e le prime leggi per l’espropriazione di aree.1

L ’apporto di idee degli utopisti per la « residenza salubre » ebbe applicazioni utili in questi primi provvedimenti pubblici e contribuì molto a diffondere certi elementi di umanizzazione nei nuovi quartieri: specialmente in Inghil­ terra ove si realizzarono molto presto villaggi operai nel verde ad opera di industriali e di iniziative filantropiche, mentre la costruzione di case popolari prese a svilupparsi poi in Germania ad opera di movimenti cooperativistici ed in Italia ad opera degli enti locali (la legge Luzzatti per l’edilizia popolare è del 1903).

Va da sé che queste ultime iniziative non si ponevano grandi problemi: si limitavano ad inserire nella crescita « spontanea » della città gruppi di case appena un po’ più decenti degli slums, mascherandone lo squallore con fronzoli stilistici conformi al decoro urbano borghese, col duplice scopo di favorire l’integrazione dei « meno poveri tra i poveri » e di non offendere con lo spettacolo della miseria sgradevole l’occhio e lo stomaco delicato dei benestanti.

Esse comunque non rappresentavano che una goccia nella marea montante dell’inurbamento che moltiplicava le masse dei disadattati e gli alloggi di fortuna.

Ventesimo secolo: la città-giardino

Col nuovo secolo l’avvio ai rinnovamenti viene ancora dall’Inghilterra e prende il nome di Ebenezer Howard e della « città-giardino ». Già da decenni Ruskin prima e poi Morris sulla scia di Robert Owen avevano predicato il recupero dei valori umanistici e individualistici dell’artigianato e delle arti figurative nella produzione industriale. Howard si riallaccia ai « punti utopici » di Owen per un altro « recupero » — quello della « vita nella natura » — e li traduce in realtà. Ma mentre Owen mirava ad una struttura socialista- comunitaria Howard vuole soltanto « umanizzare » l’abitato borghese e orga­ nizza per la costruzione e la gestione delle città-giardino forme cooperative

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Le città-giardino segnano una grossa svolta nella storia dell’abitazione. Quelle fondate da Howard — Letchworth e Welwyn — dopo inizi stentati vivono e prosperano. L ’occupazione agricola prevista è rimasta lettera morta, la gestione cooperativa è durata poco, ma nel secondo dopoguerra sono1 state impiantate nei loro pressi grosse industrie e la popolazione — composta in origine di professionisti-intellettuali attratti dal « modo di vivere nuovo » — si è arricchita di tecnici e operai specializzati. Alberi e parchi, campi da gioco e giardini, strade sinuose e tranquille, traffico regolato, aria buona. Le abitazioni unifamiliari del tipo nordico-tradizionale « evoluto » (ambienti diurni a piano terra affacciati sul giardino, camere da letto al piano superiore e nelle mansarde) sono disposte nello spazio in funzione della privacy familiare, della organizzazione per la vita infantile (cioè della rete di asili e scuole, della loro capienza, dei percorsi per raggiungerli), del rapporto di vicinato (gruppi di famiglie che hanno occasioni quotidiane di incontro).2 Queste case rappresen­ tano un modello ancora tra i più validi.

Certo, anche questo* filone di esperienze — che prosegue fin o alle « New- Towns » e oltre — ha i suoi limiti: mancano vivacità, scelte e interessi della « città storica », gli alloggi sono alla portata dei redditi medi più che dei poveri, finteresse accentrato sulla casa e la « vita sotto gli occhi dei vicini » favoriscono abitudini conformiste. Anche in questo caso la logica borghese dell’integrazione funziona: al punto che le società immobiliari americane hanno poi fatto dei sobborghi residenziali, modellati sulla città-giardino, meccanismi perfetti di selezione classista (oltre che razziale) e delle loro case il bene di consumo emulativo per eccellenza: ogni sobborgo ha case di diverso prezzo, così da stimolare nella famiglia americana media l’aspirazione a traslochi con­ tinui verso sobborghi e alloggi più costosi, testimonianza e simbolo dell’ascesa nello status sociale.

Ma se tutto questo è vero, resta vero anche che i vantaggi della città- giardino — vita salubre, quiete, autonomia, personalizzazione delfalloggio — sono ancora oggi insuperati.

M oti di rinnovamento nell’Europa continentale fino alla seconda guerra

Prende avvio l ’era del telefono, dell’auto, dell’aereo.

Fiorisce a Parigi la rivoluzione delle arti figurative. In Germania moti di rinnovamento — Deutscher Werkbund, poi Bauhaus — riprendono la lotta di Ruskin e Morris per fare di artisti e artigiani i creatori dei prototipi per la produzione industriale. Strutture in ferro e cemento armato liberano le costru­ zioni dal vincolo del peso: è possibile realizzare volumi sospesi e grandi pareti vetrate. L ’ipocrisia degli ecclettismi e delle architetture accademiche tradizionali è demistificata e rinnegata. Viene il momento della purificazione delle forme

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architettoniche, della ritrovata aderenza struttura-funzione-espressione, della ricchezza di invenzioni spaziali legate a nomi come Dudok, Mendelsohn, Mies Van Der Rohe, Gropius, Le Corbusier, Frank Lloyd Wright.

Non ci si è mai occupati tanto della casa e del quartiere operaio:

— gli olandesi inseriscono nelle loro strutturazioni urbanistiche d’avan­ guardia quartieri di case lineari multipiani, ricchi di spazio e di verde ma organizzati in struttura compatta di consistenza « urbana », in convincente alternativa ai caratteri paesano-rurali della città-giardino;

— in Francia Toni Garnier, dopo aver anticipato nel 1913 princìpi di zonizzazione e attrezzatura urbana ancora validi nel suo « progetto di città industriale », li applica a Lione subito dopo la guerra realizzando una ricca dotazione di edifici civici e un quartiere operaio di « palazzine » a più alloggi su viali alberati: dà vita, insieme al sindaco Herriot, ad uno dei primi esempi di politica urbanistica comunale dichiaratamente socialista;

— sempre in Francia l’astro nascente Le Corbusier proclama il verbo della nuova architettura — « volumi puri sotto la luce », edifici sospesi, lunghe finestre orizzontali, « tetti-giardino » , casa come machine à habiter — e lo applica contemporaneamente a progetti di case operaie da produrre in serie ed a progetti di nuovissime metropoli su grandi tracciati ortogonali, col traffico automobilistico su strade pensili e quello ferroviario interrato, così che il terreno — libero al 90% — resti a disposizione dei pedoni: il « cuore della città » è una scacchiera di grattacieli cruciformi di abitazione uguali e regolar­ mente spaziati, intorno residenze lineari articolate nel verde, intorno ancora una corona di città-giardino;

— in Germania i maestri della Bauhaus — Gropius, Klein, Soharoun — analizzano e sperimentano scientificamente il quartiere e l’alloggio operaio, fissano orientamenti, distanze e altezze ottimali degli edifici, distribuzione e funzione di spazi, ambienti, arredi e percorsi nell’alloggio, e propongono attrezzature comuni di quartiere (asili, ristoranti, lavanderie, sale comuni) per ridurre le fatiche della donna lavoratrice e sviluppare la vita associata; — in Austria e Cecoslovacchia sorgono per iniziativa pubblica le « Sied- lungen », quartieri operai di fabbricati lineari disposti in serie o attorno a vaste corti.

I l nuovo « spazio operaio »

Certo, quella tra le due guerre fu una grande fioritura di conquiste reali e positive. Però, se guardiamo bene i risultati, ci viene spontanea una domanda: ma dove sono andate a finire tutte le « invenzioni spaziali » — fluenze, com­ penetrazioni, inserimenti nella natura — che i grandi maestri del rinnovamento

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architettonico sapevano applicare così bene alle « case dei ricchi »? Salvo che in qualche proposta lecorbusieriana, nei loro alloggi operai non ce n e traccia.

Furono gli imperatori cinesi, sembra, a scoprire che vivere in stanzette cubiche dipinte di bianco fa diventare pazzi e ad usare questa forma di tortura per i criminali più efferati. A voler essere cattivi si direbbe che i « maestri del razionalismo » mostrarono di ritenere questo tipo di cura controin­ dicato per la borghesia, ma del tutto sopportabile dalla classe operaia. La loro preoccupazione principale appare quella di economizzare al massimo lo spazio nell’alloggio e — una volta trovata una soluzione — di ripeterla monotona­ mente all’infinito.

Ci sono case di Oiid a Rotterdam del 1925 dove la stanza da letto per due persone è meno di sei metri quadrati (non ci si può mettere il letto matrimoniale, ma è nata la moda di considerarlo « non igienico » ) , quella ad un sol letto meno di quattro metri, gli armadi a muro sono larghi 60 centi- metri e profondi 30. Gamier a Lione fa stanze a due letti di otto metri quadrati. Dei tipi di alloggio « nordico » e « mediterraneo » si prendono gli elementi più sfavorevoli all’abitante (e più comodi per il costruttore) : appar­ tamenti in « blocchi » e stanze non disimpegnate. Si entra e di fronte c’è il gabinetto (di bagni ancora non se ne parla), di là si va nel pranzo-soggiorno che serve da passaggio per il cucinino e le camere da letto. In più, per risparmiare scale, ci sono i ballatoi, così chi sta in casa ha la gente che passa e gli guarda nelle finestre.

Dopo il ’30 le cose migliorano: gli studi dimensionali-distributivi della Bauhaus portano a soluzione il problema dello « spazio minimo indispensa­ bile ». Nasce il disimpegno per rendere autonomi i diversi ambienti, c’è il posto giusto per l’arredo necessario, nella casa operaia fa il suo ingresso la vasca da bagno, c’è il balconcino, ci si muove meglio, si sa dove mettere la roba, anche se non c’è nemmeno un metro quadrato in più. Ma i « princìpi sull’orientamento ottimale » della Bauhaus applicati al quartiere operaio por­ tano sì aria spazio sole e verde, ma in compenso esasperano fino agli estremi limiti la monotonia e l’anonimato tradizionale degli slums attraverso la ripeti­ zione ossessiva di file parallele di case uguali (per riconoscere la propria abitazione bisogna ricorrere a lettere e numeri come per le caselle della battaglia navale) : ed i « servizi comunitari », se pure ci sono, restano situati ai margini del quartiere.

Effetti e cause

Vengono spontanee altre due domande:

— come vivono le famiglie operaie in queste case e in questi quartieri? — perché sono stati fatti così?

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Mentre la letteratura inglese ad esempio è ricca di rappresentazioni di « vita nelle case » — dall’esistenza miserabile nei ghetti urbani ottocenteschi alla lotta disperata della famiglia operaia per conservare fierezza e rispetto di sé nello squallore dello slum, alla quiete idillica e sonnolenta della città- giardino — sono più scarse e meno note le testimonianze letterarie sulle case operaie europee tra le due guerre. Ma non c’è bisogno di molta immaginazione per rappresentarci l’avvilimento della lotta incessante e vana contro la penuria di spazio in una casa degli anni 20 dove non ci si rigira, non c’è posto per le cose essenziali e tanto meno per un nuovo bambino. E se col salto qualitativo degli schemi Bauhaus lo spazio dell’alloggio è sempre ristretto, ma non pone più problemi « esistenziali », resta la costrizione psicologica dello « spazio scatolare » e più ancora quella della monotonia del quartiere. Anche se tutte le previsioni di progetto sono realizzate — verde, asili, giochi — e l ’ambiente esterno è salubre e gradevole, resta sempre la « spersonalizzazione della casa » e la sensazione dell’anonimato, il sentirsi numeri, come polli nelle stie.

Perché questo? Motivi ce n’erano. Le difficoltà economiche dei paesi europei nel primo dopoguerra, la loro ripresa stroncata sul nascere dalla grande crisi del 1929-30, l’afflusso crescente di inurbati senza tetto: era logico cercare di fare più case possibili con la minor spesa e quindi col massimo di economia e standardizzazione.

Motivi ideologico-culturali? Li potremmo sintetizzare così: identificazione schematica del socialismo « scientifico » con la collettivizzazione generalizzata, con l’aggiunta di raffigurazioni da arcadia moderna della vita operaia come « fatto corale », da parte di movimenti intellettuali élitarì benintenzionati ma legati alla loro estrazione sociale e culturale borghese.

L ’« ipotesi sociale » di Gropius per l’abitato operaio (limitazione delle na­ scite, lavoro femminile generalizzato, riduzione al minimo del « lavoro per la casa », attrezzature collettive di quartiere complementari all’alloggio) a distanza di tempo ci appare singolarmente ignara della situazione reale. Ragiona come se il socialismo fosse già cosa fatta e non è; fa dell’occupazione un dato certo e la grande crisi pensa subito a smentirlo; il padronato non è affatto propenso a spender soldi per dare attrezzature sociali agli operai, e se lo fa se ne serve per « tenerseli sotto ».

Durava allora tra gli architetti — e del resto dura ancora — l’illusione utopistico-demiurgica che una certa organizzazione spaziale possa generare automaticamente la realtà socio-politica corrispondente: mentre da che mondo è mondo non è lo strumento ma il suonatore che fa la musica.

Soprattutto — per dirla brutalmente — si continuava a pensare agli operai come a un’altra razza. Per la gente colta le « raffinatezze spaziali », per gli operai « condizioni igieniche » (sole, aria, verde) e spazio necessario, appunto come per i polli all’ingrasso: e naturalmente quel che va bene per uno va bene

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per tutti, e di qui la ripetizione in serie e la monotonia dei quartieri: confor­ mismo anonimo, isolamento. Non solo non passò mai in mente ai maestri del razionalismo di calarsi tra gli operai, di discutere con loro per aiutarli a decidere essi stessi come vivere, ma le loro proposte razionalizzatrici e livellatrici — legate al concetto di produzione industriale in serie — finivano per risolversi a vantaggio sia del vecchio sistema padronale di segregazione classista, sia dei costruttori che certo non pensavano al socialismo ma agli affari loro.

Sia chiaro che igiene, verde, requisiti civili dell’alloggio non sono conquiste da sottovalutare. Rispetto agli slums, ai ghetti urbani, alle condizioni offerte dal mercato edilizio privato il progresso era grande. E non si deve dimenticare che l ’esperienza tra le due guerre fu breve, travagliata dai dissesti economici nazionali e bruscamente interrotta a metà degli anni trenta dal dilagare della reazione nazifascista (con le sue abbiette politiche di segregazione dei lavoratori in squallide borgate suburbane o in aggregati rurali ben controllabili) prima di aver avuto tempo e possibilità di maturare e di evolversi — come Gropius aveva preannunciato — da criteri di standardizzazione verso criteri di flessi­ bilità più sensibili al valore delle diversità nella condizione umana.

Secondo dopoguerra: l ’Unité d’habitation di Marsiglia

Valori e limiti dell’esperienza razionalista sono quintessenziati in questo grande prisma sospeso di Le Corbusier, realizzato nell’immediato dopoguerra come elemento-campione per un «n u o v o modo di abitare». 1.634 abitanti (come nel « falansterio » dell’utopista Fourier); cellule-alloggio inserite nella struttura come in una cassettiera; l ’alloggio è uno spazio continuo arti­ colato (servizi sotto, letti sopra si affacciano sul soggiorno a doppia altezza); spazi verdi attrezzati intorno, asilo-nido sul tetto, foresteria. Negozi e servizi comuni per le necessità quotidiane previsti in progetto, non sono stati realizzati.

Il limite dello « spazio scatolare » è superato di slancio, ma si esaspera quello della « minima dimensione ». Spazi notturni e servizi sono alti quanto un uomo a braccio alzato e larghi quanto un uomo a braccia aperte: impos­ sibile sedersi attorno al letto di un malato. Le famiglie operaie rifiutano 1’« Unité », ci abitano borghesi-intellettuali attratti dal « fascino dell’espe­ rienza »: con un certo imbarazzo per il flusso ininterrotto di ammirati visitatori. Da quest’opera escono rafforzate certe conclusioni molto pedestri ma molto chiare sui limiti dell’esperienza razionalista. La casa non è affatto una machine, appartiene a un ordine di valori tutto diverso. Tanto meno è un vestito su misura: anche « lo spazio superfluo è necessario ». E’ meglio avere libertà di scelta che doversi servire per forza degli stessi negozi, asili, ecc. A ll’alloggio in serie ci si abitua, ma solo per necessità e con disagio psicologico.

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New-Towns e quartieri satelliti scandinavi

I « grandi fatti nuovi » del secondo dopoguerra sono le New-Towns inglesi e le « città satelliti » scandinave. L ’esperienza inglese — una corona di città di 50-80.000 abitanti intorno a Londra — resta il più interessante esempio mondiale di urbanistica programmata. Si sono seguiti i criteri delle città- gardino per l ’articolazione delle zone residenziali, le dotazioni di scuole e di verde, i rapporti residenza-lavoro (ogni New-Town ha la sua zona industriale), ma cresce la dimensione, si separano percorsi per auto, cicli e pedoni, l’attrez­ zatura civica-commerciale è articolata in vere e proprie strutture di centro urbano, con i loro parcheggi e le loro aree pedonali. In Svezia si realizzano esperienze di analogo impegno qualitativo, che si differenziano per aderenza alle diverse condizioni e per sensibilità ambientale.

Ma il grande passo avanti è che, per la prima volta, in queste realizzazioni di governi socialisti occidentali, cade ogni distinzione tra casa borghese e

casa operaia. Certo la « fusione » pende verso il modello borghese. Certo

non tutto è risolto: le New-Towns non bastano a decongestionare Londra, seguitano i traumi delTinuribamento, ci sono ostacoli alle nuove realizzazioni, quando vanno al potere i conservatori tutto rallenta. Ma il passo avanti resta: nelle New-Towns e nei quartieri scandinavi caratteri e qualità degli alloggi sono omogenei. Le differenze (case unifamiliari o in blocchi, piccole o grandi, alte o basse, centrali o periferiche, in affitto o in proprietà) sono studiate e dosate in base ad esigenze sociali — per famiglie numerose, coppie giovani o anziane, individui singoli — e non a criteri classisti.

Nei nuovi tessuti si compongono i caratteri delle città-giardino (con alloggi di taglio nordico-tradizionale) con gli edifici lineari ed a blocco: si accentua la caratterizzazione, scompaiono o si attenuano monotonia e anonimato. Lo spazio-alloggio è ancora dosato con parsimonia, negli edifici-torre i servizi hanno aria e luce artificiale, ma c ’è una forte tendenza a dare superfici sempre più ampie.

E tuttavia anche questi abitati stentano a « diventare città » . C ’è ancora aria di dormitorio, incomunicabilità, povertà di interessi specie per i giovani. In Inghilterra si fa di tutto per migliorarli, si scopre che i parchi isolano le residenze dal centro e si applicano modelli più compatti, si arricchisce l ’attrez­ zatura civica. In Svezia si ricorre all’ « architettura pubblicitaria » per attrarre la gente nei centri commerciali di quartiere. Ma Londra e Stoccolma « tirano di più » , e la sera i nuovi abitati si vuotano.

Certo è impossibile che un piccolo centro competa con le attrattive di una capitale. Ma va detto anche ohe nessuno è ancora mai riuscito a dar© ad una città programmata la stessa vitalità di quelle che si sono formate spontaneamente nei secoli e che — anche se invecchiate, sclerotiche, semi­

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paralizzate — funzionano ancora come organismi viventi. Ancora il program­ matore urbanista — come osserva Jane Jacobs3 — somiglia troppo a un creatore di macchine e troppo poco a uno scienziato esperto nell’innestare e avviare processi di crescita organica.

Ma c’è anche il fatto che queste esperienze sono — ancora una volta — calate dall’alto, ideate per il popolo ma senza la partecipazione del popolo. E, nonostante il crescere delle difficoltà con la dimensione crescente dei feno­ meni sociali-urbani, si va sempre più rafforzando la convinzione che proprio e soltanto da forme sempre più allargate e articolate di « progettazione corale », di costruzione e gestione collettiva, possano scaturire finalmente i modi per dar vita alle nuove città.

La vecchia città cresceva come edificio collettivo risultante da una molti­ tudine di apporti individuali. Anche oggi in una creazione collettiva si può determinare la « gara delle idee » , delle invenzioni, delle immagini. Ma a patto che i singoli siano stimolati realmente a concorrere con contributi personali e che alla omogeneità culturale dei tempi antichi si sostituisca una omogeneità culturale di tipo diverso, che tragga motivo da obbiettivi comuni concreti, politici. Appunto questo può essere il senso della « cultura alternativa di classe » per la città.

USA, Spagna, Francia

Paragoniamo l’apertura sociale di queste esperienze nord-europee a quel che avviene nell’America degli anni cinquanta. Là si demoliscono vecchi quartieri poveri, si tirano su complessi di enormi casermoni uguali di 15 piani e ci si affastellano dentro negri e portoricani, a molte migliaia in ogni edificio. A d ogni piano interminabili corridoi con innumerevoli porte sui due lati: ogni porta un alloggio, senza preoccupazioni di orientamento o ventilazione. L ’importante è ohe ogni casermone abbia un solo ingresso così che un uomo armato possa tenere a bada migliaia di negri: dentro poi facciano quel che vogliono.

Se ne parla poco e con ragione: c’è 'da vergognarsi. Non sono argomento di cultura urbanistica, ma di letteratura gialla e cronaca nera. Jane Jacobs ci testimonia della spirale di violenze e crimini negli ascensori e nei « bracci » di questi nuovi lager della segregazione razziale. Le lotte tra gangs di giovani per l ’uso dei loro campi di gioco hanno ispirato un musical, « West Side Story ».

Faremmo male a sottovalutare questa componente reazionaria che si sviluppa contemporaneamente alle aperture democratiche sui problemi dell’abitazione operaia, e che riflette la vera natura dei diversi sistemi, quale che sia l ’etichetta. Anche se la punta massima negativa è toccata — e non a caso — dal paese­ guida del capitalismo mondiale — lo stesso che ci ha regalato la sociologia di fabbrica e la guerra nel Vietnam — campanelli d’allarme ci giungono dalla

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Spagna e dalla Francia, ove i programmi « sociali » di alloggi sono stati affidati all’industria edilizia privata: in Spagna con sovvenzioni dirette, in Francia con un sistema di integrazioni statali sugli affìtti pagate ai costruttori. In Spagna ne derivano addensamenti edilizi ove anche le più elementari con­ quiste civili del razionalismo sono ignorate. I grands ensembles gollisti della cinta periferica parigina con i loro grappoli di grattacieli prefabbricati4 ripro­ pongono in forme aride il dormitorio e l ’anonimato: i loro abitanti sono sempre più invischiati nella spirale di un « consumismo dell’arredo domestico » fine a sé stesso.

Paesi socialisti

Ricordiamo i grattacieli dei prefabbricatori parigini: ce li vedremo piombare in Italia negli anni sessanta. E accenniamo appena di sfuggita, in questa rassegna veramente troppo' frettolosa e sommaria, ai paesi socialisti: solo per ricordare che, prima degli anni cinquanta, l ’URSS, per una dichiarata scelta politica, ha affontato il problema degli alloggi operai soprattutto con l’applica­ zione della formula engelsiana di « dare ai poveri le case dei ricchi », mentre la popolazione agricola e gran parte di quella delle periferie urbane seguitava a farsi le tradizionali izbe col tetto di paglia. Pochi esempi di case urbane nuove (le esperienze « costruttiviste » ben presto interrotte) e anche qui poco spazio e controllo. Soltanto dopo risolti i problemi prioritari delle ferrovie, dell’elettrificazione, della scuola, dell'industrializzazione, in questo dopoguerra è stata affrontata massicciamente una politica generale di passaggio dall’izba alla casa moderna: e la sterminata vastità del fabbisogno insieme alla realtà della nuova struttura industriale hanno portato alla scelta della prefabbri­ cazione « pesante » come metodo generalizzato, applicato ormai da due decenni su tipi edilizi standardizzati. Un grosso passo avanti per le famiglie russe rispetto alle arretratissime condizioni precedenti: niente di molto nuovo per noi. E niente di molto sensazionale ci viene nemmeno dagli altri paesi socialisti europei che per lo più hanno adattato alle loro condizioni criteri e modelli occidentali, anche se in qualche caso — Jugoslavia, Polonia, Ungheria, Ceco­ slovacchia — con risultati di grande interesse.

Ma non va dimenticato che la conquista fondamentale dell’appropriazione della terra alla comunità ha dato all’URSS e agli altri paesi socialisti l’enorme vantaggio di poter disciplinare la crescita urbana e creare reti complete ed efficienti di spazi e attrezzature civiche e sociali — strutture scolastiche, culturali, sanitarie, ricreative, parchi — che cominciano a dare una caratteriz­ zazione particolare, un embrione di « volto socialista » alle loro città.

Per finire, un inciso: da un po’ di tempo in Russia quelli che possono — gli « alti salari » — si vanno facendo la « dacia » , la casetta individuale

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in periferia, e ne sta nascendo un paesaggio suburbano dall’aria molto capita­ lista, ohe crea problemi sconcertanti per i politici e gli urbanisti sovietici, tanto più se si pensa che lo spazio domestico pro-capite « ufficiale » si aggira ancora oggi sui 6 metri quadrati. Prova in più di una involuzione, rifiuto — anche lì — dell’« alloggio in serie »? Comunque un tema inquietante da approfondire.

Germania Federale

Un altro esempio di corrispondenza puntuale tra programmi abitativi per la classe operaia e vera natura dei sistemi dominanti ci viene dalla Germania di Bonn, che, dopo aver ceduto su tutta la linea agli interessi fondiari privati nella ricostruzione postbellica delle sue città, ha intrapreso — più tardi del resto d’Europa e perciò facendo tesoro delle esperienze altrui — una politica di grosse realizzazioni in questo campo.

Dosaggio di tipi edilizi, alloggi confortevoli, arredo urbano ben curato hanno concorso qui a formare complessi equilibrati senza eccessi di monotonia, per lo più rispettosi della dimensione umana e dei valori di un’antica tradi­ zione civica. Ma sono — dichiaratamente — abitati operai. Ecco la differenza politica, sottile ma determinante: non si è seguita la via inglese-scandinava di eliminazione della distinzione classista, ma si è fatto tutto il possibile — certo più e meglio che altrove — per integrare e borghesizzare l’operaio attraverso il suo ambiente abitativo, mantenendo sostanzialmente il criterio di segregazione.

L ’Italia postbellica: anni ’50

In altra parte del fascicolo si parla delle istituzioni edilizie italiane del dopoguerra. Qui diamo un’occhiata alila « qualità » di quel che ¡si è fatto. Dopo i primi provvedimenti in chiave di stabilizzazione conservatrice (finan­ ziamenti pubblici per la costruzione di case a cooperative borghesi-impiega­ tizie) venne il piano INA-Casa, finanziato da contributi sui salari a carico di lavoratori e datori di lavoro, per ridurre la disoccupazione operaia costruendo case per le miriadi di lavoratori Che fascismo e guerra avevano ridotto in condizioni di alloggio subumane.

Di questa esperienza, nata in un momento ancora precario della ripresa postbellica, c’è molto da dire: di male e di bene. L ’impostazione fu pater­ nalistica nei metodi (un ente centrale decideva tutto) e settoriale nei contenuti. Ili primo fatto negativo fu che né questo piano, né altri successivi a favore dei « senza tetto » e dei « -ceti medi », furono accompagnati da finanziamenti per le opere necessarie ad inserire civilmente i nuovi alloggi nei contesti

Riferimenti

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