• Non ci sono risultati.

L E AZIONI DI RISOLUZIONE E DI RISARCIMENTO DEL DANNO DA INADEMPIMENTO

8. L A SENTENZA DELLE S EZIONI U NITE N 13533/2001.

8.4 L E AZIONI DI RISOLUZIONE E DI RISARCIMENTO DEL DANNO DA INADEMPIMENTO

È alle azioni di risoluzione e di risarcimento del danno da inadempimento che la sentenza in esame dedica maggior spazio.

Dichiarando espressamente di aderire all’indirizzo minoritario in giurisprudenza, le Sezioni Unite affermano che anche in tali giudizi la parte attrice non è gravata dalla prova dell’inadempimento, configurando quest’ultimo quale fatto estintivo della pretesa.

Il risultato che ne scaturisce è quello di una semplificazione nella disciplina dell’onere probatorio, data da un’omogeneizzazione della regola di ripartizione con riferimento a tutti i rimedi contro l’inadempimento. Se si eccettua il caso delle obbligazioni negative, per i motivi sopra esposti, l’inadempimento riveste sempre, secondo la Corte, natura estintiva, onde il giudice, mancando la prova di esso, dovrà accogliere le richieste della parte attrice.

In dottrina è risalente nel tempo l’affermazione secondo cui qualora si chieda la risoluzione del contratto o il risarcimento del danno per inadempimento, fatti costitutivi da provarsi dall’attore sono la fonte dell’obbligazione, l’esigibilità del credito e lo stesso inadempimento. La diversa struttura della pretesa fa sì che l’inadempimento, fatto estintivo nelle domande di adempimento, sia in tali ipotesi

considerato fatto costitutivo, indipendentemente dalla sua natura positiva o negativa e quindi dalle difficoltà della prova in cui potrebbe imbattersi il creditore. Solo una volta che quest’ultimo abbia dimostrato la mancata esecuzione della prestazione, spetterà al convenuto l’onere di provare l’assenza di colpa.

Analoghe considerazioni si ritrovano in giurisprudenza, ove è frequente la massima secondo cui se si domanda la risoluzione del contratto e/o il risarcimento del danno l’attore è tenuto a provare anche il fatto che legittima la pretesa, ossia l’inadempimento.

La sentenza in commento respinge tutti questi argomenti. La ratio decidendi di essa va vista nell’affermazione che l’inadempimento costituisce il medesimo presupposto delle tre domande, le quali servono tutte a far statuire che il debitore non ha adempiuto, mentre le ulteriori pronunce sono solo consequenziali.

Di notevole interesse sono le motivazioni addotte a sostegno di tale orientamento. I giudici non cercano alcun appiglio al disposto dell’art. 2697 c.c., rinunciano ad ogni indagine sul significato di tale disposizione e sui concetti di fatto costitutivo e fatto estintivo, ma si richiamano a criteri di giustizia sostanziale, quali la ragionevolezza, la vicinanza della prova, l’omogeneità e la semplificazione della disciplina e ad esigenze di ordine pratico.

Ammessa a livello dogmatico la distinzione delle tre differenti situazioni (domanda di adempimento, domanda di risoluzione e risarcimento del danno), prevale, secondo la Corte, la necessità di uniformità, non solo tra le sentenze (e le massime) della Cassazione, ma anche per la regolazione delle fattispecie in relazione all’art. 3 Cost., rappresentante una delle chiavi di lettura fornite dalla Corte al problema.

Il criterio di ragionevolezza non informa più, quindi, per quanto riguarda il diritto positivo, solo la materia costituzionale, bensì l’intero ordinamento giuridico. Dalla sentenza oggetto di queste riflessioni si può dedurre che il principio possa (e debba) trovare “cittadinanza” anche nel sistema privatistico e processuale se non addirittura nel quadro generale dell’ordinamento giuridico, essendo assai difficile, per

vero, ammetterne la contrarietà ai precetti costituzionali cui necessariamente la teoria della ragionevolezza si ispira137.

Appare innegabile che il contratto, modo di acquisto della proprietà a titolo derivativo nonché fonte di obbligazioni, meriti la massima tutela che l’ordinamento gli possa apprestare, il che si può tradurre in un favor creditoris138.

La sentenza in esame, inoltre, potrebbe apparire un esempio di “economia giudiziale”: con una sentenza unica le Sezioni Unite affrontano e risolvono tre distinti problemi; e lo fanno semplicemente perché in realtà il problema è unico. Come unica deve essere la soluzione.

Del pari non si può negare che, pur ammettendo che in realtà si tratti di un contrasto più nominale che reale, nondimeno l’intervento delle Sezioni Unite appare quanto mai opportuno attesa la funzione nomofilattica della Corte stessa e, non da ultimo, attesa la prassi di limitarsi all’uso e al richiamo delle massime senza verificarne l’aderenza al caso di specie affrontato ovvero la coerenza con quanto in realtà stabilito nel decisum.

Per quanto concerne il diritto al risarcimento del danno, ci si sarebbe potuti attendere una riflessione più approfondita sulla fattispecie costitutiva di tale diritto, visto che la controversia cui si riferisce la sentenza delle Sezioni Unite non concerneva un problema probatorio nell’ambito di un giudizio promosso dal creditore al fine di ottenere la risoluzione del contratto, ma era, appunto, relativa alla pretesa di ottenere il pagamento della penale per l’inadempimento.

La Cassazione si è limitata ad evidenziare l’identità del presupposto costitutivo del diritto al risarcimento del danno rispetto ai diritti all’adempimento e alla

137

V. TUOZZO, Inadempimento ed onere della prova. Intervengono, finalmente, le Sezioni Unite, in

Contratto e impresa, 2002, p. 547 ss.

138

Ritiene ROPPO, Istituzioni di diritto privato, Bologna, 1996, p. 393, che in tema di imputabilità dell’inadempimento, l’art. 1218 rappresenti una deroga al principio generale ex art. 2697 e stabilisca un’inversione dell’onere della prova stante il fatto che “l’inadempimento si produce prevalentemente nella sfera del debitore”, tale da giustificare una disciplina dell’obbligazione ove viene data “prevalente considerazione all’interesse del creditore”. Mentre in relazione all’art. 1453 c.c. non sempre è facile individuare “il creditore”: trattandosi di contratti a prestazioni corrispettive, sottolinea MARICONDA, Inadempimento e onere della prova, op. cit., p. 1581, la difficoltà di individuare quale parte sia creditrice e quale debitrice, atteso che, in questo tipo di contratti vi siano “prima che un creditore e un debitore, contraenti ciascuno dei quali titolare di contrapposti e interdipendenti crediti e debiti”. Si può, astrattamente, individuare il creditore nella parte che abbia già adempiuto e che agisca per la risoluzione del contratto, rimedio che secondo ROPPO, op. ult. cit., p. 556, mira a “proteggere l’interesse particolare di uno dei contraenti” quale conseguenza del difetto funzionale del sinallagma per causa imputabile all’altro contraente”.

risoluzione per inadempimento e questa affermazione, ai fini del caso di specie, era sufficiente dal momento che non veniva in considerazione l’ostacolo che incontra colui che intende proporre la domanda di condanna al risarcimento del danno in via autonoma: ostacolo costituito dalla priorità dell’adempimento in natura che comporta che nel nostro sistema, fin quando la prestazione è possibile, il creditore non può chiedere una somma di denaro in luogo della prestazione inadempiuta. Se infatti l’attore lamenta l’inadempimento definitivo conseguente all’intervenuta impossibilità della prestazione, può apparire plausibile che sia il creditore a dover provare l’impossibilità sopravvenuta: il principio dell’adempimento in natura impone infatti al creditore di chiedere l’esecuzione della prestazione finché essa sia possibile a meno che egli non proponga domanda di risoluzione giudiziale ovvero non si verifichi una delle fattispecie di risoluzione stragiudiziale139. Pare evidente però, che, in molti casi, la pretesa ad ottenere l’equivalente pecuniario della prestazione inadempiuta prescinda dalla prova dell’impossibilità sopravvenuta della prestazione originaria.

Resta però da chiarire sulla base di quale percorso argomentativo sia possibile superare il principio della priorità dell’adempimento in natura anche se sono evidenti le ragioni di carattere sostanziale che indirizzano verso la possibilità di conversione della prestazione in natura in prestazione per equivalente pecuniario.

Sta di fatto che su questi temi la pronuncia delle Sezioni Unite in esame nulla aggiunge ai precedenti giurisprudenziali della Cassazione stessa.