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Capitolo II: Il nuovo accordo di Basilea

2.2 Basilea I e le ragioni della riforma

Il Comitato di Basilea, istituito alla fine del 1974, è l’organismo attraverso il quale vengono concordati principi comuni per l’esercizio della funzione di controllo sulle banche; è formato dai rappresentanti delle Banche Centrali e delle autorità di vigilanza dei paesi del G-10: Belgio, Canada, Francia, Germania, Italia, Giappone, Olanda, Svezia, Regno Unito e Stati Uniti, nonché Svizzera e Lussemburgo. E’ l’organismo che ha introdotto per la prima volta un sistema di requisiti di capitale uniformi e correlati alla rischiosità delle attività delle banche attive a livello internazionale, finora ratificato da circa 140 paesi.

Prima dell’adozione di quest’accordo, ogni paese regolava secondo propri criteri l’adeguatezza del capitale del sistema bancario30 e queste differenze, spesso notevoli, consentivano la creazione di vantaggi competitivi da parte di alcune banche senza alcuna giustificazione economica, soprattutto, a causa del verificarsi negli anni ottanta di una crescente competizione internazionale fra le banche. E’ fondamentalmente per questi motivi che le autorità di vigilanza, le banche centrali ed i mercati, hanno deciso di esercitare forti pressioni affinché ci si concentrasse maggiormente su due concetti basilari, quali il capitale ed il rischio, e soprattutto si creassero regole generali applicabili da tutti.

L’Accordo di Basilea del 1988, per la prima volta, ha stabilito dei requisiti patrimoniali che legano gli stessi ai rischi creditizi delle banche. Gli obiettivi che ci si proponeva di raggiungere con tale accordo principalmente erano quattro:

29 L’innovazione finanziaria ha reso più articolata la gamma di rischi che gli intermediari fronteggiano.

30 Ad esempio, in Italia nel 1987 furono introdotti due coefficienti patrimoniali minimi obbligatori, riferiti uno alla

50  riportare al centro dell’attività bancaria l’attenzione sul ruolo del capitale, come fulcro dell’impianto di controllo sugli intermediari;

favorire l’effettiva creazione di un level playing field, ossia un “campo neutrale di gioco” nei mercati internazionali, che permettesse alla concorrenza di operare;

 introdurre una regolamentazione in grado di salvaguardare le condizioni di solvibilità delle istituzioni bancarie attraverso la relazione diretta tra dotazione di capitale e rischi assunti;

 favorire lo sviluppo di forme di vigilanza su base consolidata, garantendo la solvibilità non solo delle banche nazionali ma anche dei soggetti controllati da gruppi bancari esteri.

Il Comitato ha strutturato i requisiti di capitale per le istituzioni bancarie attraverso la definizione di tre elementi:

a. il capitale di vigilanza, ossia le poste destinate a copertura delle perdite ai fini prudenziali;

b. il rischio, attraverso la creazione di una serie di ponderazioni relative al rischio di credito delle controparti;

c. il rapporto minimo tra capitale e rischio.

L’accordo ha suddiviso tale capitale in due componenti, caratterizzate da diverse qualità: il patrimonio di base o Tier 1 e quello supplementare o Tier 231. Il primo comprende il capitale sociale, gli utili non distribuiti e le riserve palesi, mentre il secondo, che non può superare il 50% di quello complessivo, è composto dalle riserve occulte, dal debito subordinato, dai fondi rischi e dagli strumenti ibridi di capitale e debito.

Il rischio delle varie esposizioni creditizie è stato quantificato in base a quattro classi di ponderazione: 0% per le attività considerate a rischio nullo; 20% per le attività a rischio minimo; 50% per quello a rischio medio; 100% per quelle a più alto rischio. La discriminazione delle classi è avvenuta sulla base della considerazione che, a fronte di attività più rischiose, sia necessaria una quantità maggiore di capitale per coprire le eventuali perdite attese. Le esposizioni a rischio delle banche venivano dunque classificate in diverse categorie, in base alla natura ed all’area geografica di appartenenza della controparte, e poi venivano associate alle classi di ponderazione.

Basilea I prevede che le banche detengano capitale in misura almeno pari all’8% delle attività ponderate per il rischio32. Il Risk Asset Ratio (RAR), che nella normativa italiana è noto come coefficiente di solvibilità, è definito dalla seguente espressione:

𝑅𝐴𝑅𝐵𝑎𝑠𝑒𝑙 𝐼 = 𝑃𝑉 𝐴𝑛𝑖 𝑖𝑃𝑖

≥ 8%

31 Nel 1996, in seguito alla revisione dell’accordo ed all’introduzione della normativa sui rischi di mercato è stato

aggiunto il cosiddetto Tier 3. Quest’ultimo entra a far parte del patrimonio di vigilanza solo per il computo dei requisiti patrimoniali a copertura del rischio di mercato.

32 Come si vedrà in seguito, Basilea II non ha modificato il livello minimo di capitale che le banche devono detenere

51 in cui PV è il patrimonio di vigilanza; 𝐴𝑖 sono le attività; 𝑃𝑖 sono i coefficienti di ponderazione per i rischi delle classi di attività.

Inizialmente l’accordo era diretto solo alle banche appartenenti all’area G10 ma, la sua semplicità concettuale e l’utilizzo di una misura di solidità patrimoniale valida a livello internazionale, ne hanno favorito l’applicazione in oltre cento paesi. Inoltre, nel tempo è divenuto un valido indicatore monitorato dalle banche, operatori di mercato33 e autorità di vigilanza al fine di valutare la solidità di una banca. Infatti, molti operatori di mercato hanno iniziato a considerare i coefficienti patrimoniali validi indicatori della robustezza di una banca.

Il sistema di adeguatezza patrimoniale del 1988 ha funzionato per un periodo molto lungo contribuendo alla transizione del nostro sistema bancario verso un maggior orientamento al mercato. Il progresso della tecnologia, lo sviluppo di nuovi prodotti finanziari e la globalizzazione dei mercati, modificando l’operatività degli intermediari hanno contribuito a rendere le regole di Basilea I inadeguate a cogliere i nuovi profili di rischio. I limiti più evidenti dell’accordo del 1988, che si è cercato di superare con l’introduzione del nuovo sistema di requisiti sono:

 la scarsa sensibilità al rischio delle esposizioni creditizie. L’assenza di una misura di rischio specifica delle controparti e l’utilizzo di classi di ponderazione ripartite in funzione della loro natura non permetteva di tener conto che, all’interno di una stessa categoria potessero esistere soggetti caratterizzati da profili di rischio assai eterogenei.

 l’eccessiva concentrazione dell’attenzione sul rischio di credito. L’accordo, infatti, aveva introdotto l’obbligo per le banche di calcolare i requisiti allo scopo di coprire una sola fonte di rischio senza considerare una miriade di altri rischi che gli intermediari fronteggiano;

 lo scarso peso dato alla durata del prestito e al valore delle garanzie accessorie. A differenza di quanto suggerito dalla teoria e dalla prassi bancaria, la scadenza dei prestiti non era considerata tra i fattori determinanti del rischio di credito;

 il mancato riconoscimento dei vari strumenti di gestione del rischio di credito. Nell’accordo non si teneva conto dei benefici derivanti dalla diversificazione del portafoglio, basata sulla correlazione tra i singoli assets. Sostanzialmente un prestito di 1000 euro erogato ad un soggetto era considerato, in termini di requisiti, uguale a 1000 prestiti da un euro ciascuno. E’ evidente che ciò, oltre a creare un disallineamento tra capitale regolamentare e capitale economico, generava fenomeni di elusione regolamentare. Le banche attraverso le cartolarizzazioni, cedevano all’esterno la parte meno rischiosa del proprio attivo, per le quali il capitale a rischio era inferiore a quello regolamentare, concedendo credito ai

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Infatti, molti operatori di mercato hanno iniziato a considerare i coefficienti patrimoniali validi indicatori della robustezza di una banca. Ad esempio, le agenzie di rating utilizzano il Tier 1ratio per assegnare il giudizio ai singoli intermediari.

52 prenditori più rischiosi, quindi più remunerativi, per i quali veniva richiesto un capitale regolamentare più basso rispetto a quello economico34;

 infine, la staticità del requisito rispetto alle fasi congiunturali. In un regime di ponderazioni come quello di Basilea I, indipendenti dal grado di rischiosità, non ci sarà alcun impatto sull’attivo ponderato per il rischio. Infatti, la ciclicità35

riguarda il capitale e non il requisito e può essere conseguenza dell’aumento delle perdite oltre il livello coperto dai profitti36

.

La presenza di questi problemi ha indotto il Comitato a rivedere l’accordo. L’emendamento apportato nel 1996 (Basel Committee on Banking Supervision, 1996) al documento in esame ha esteso l’applicazione dei requisiti di capitale anche al rischio di mercato per le poste di negoziazione del portafoglio delle banche. Inoltre si dava la possibilità alle banche di utilizzare propri modelli interni per il calcolo dei requisiti patrimoniali a fronte dei rischi di mercato. Nelle regole approvate a giugno 2004 questi principi sono stati estesi anche al rischio di credito e a quelli operativi e costituiscono i cardini della nuova regolamentazione. Nel resto del capitolo discuteremo le linee essenziali del nuovo accordo analizzando l’architettura complessiva della disciplina, le tipologie di rischio contemplate e le metodologie di calcolo utilizzabili.