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4. L’opera di Rosso dopo il 1918

4.2 La Bella Addormentata e l’ultimo teatro

Dopo il successo di Marionette, che passione!, vengono portate in scena Per fare

l’alba e Amara, opere scritte da Rosso tra gli il 1913 e il 1917 che testimoniano già, come

abbiamo visto, il suo sperimentalismo. In questi due «climi di tragedia», come li definì l’autore stesso, le atmosfere, mai lucide e razionali, si trasferiscono anche nel linguaggio che comincia ad essere più allusivo, simbolico e irrazionale. È evidente come questi lavori anticipino il dramma del 1918 e la loro chiave interpretativa continua ad essere ti tipo espressionista, così come nel dramma del 1919, La Bella Addormentata.

107 Con La Bella Addormentata, portata in scena per la prima volta il 15 agosto del 1919 all’Olimpia di Milano dalla compagnia di Virgilio Talli, lo stile di Rosso giunge ad un’altra svolta. La protagonista torna ad essere una donna, come nella maggior parte delle opere teatrali di questo periodo, ma qui i moduli tipici del teatro espressionista iniziano ad emergere con più forza, capaci di dare consistenza espressiva ad una favola che di favola ormai non ha più nulla.

La storia della protagonista, Carmelina, chiamata da tutti significativamente «la Bella», sembra cominciare nel momento in cui finisce la favola omonima, in quanto nel primo atto la Bella Addormentata si risveglia e riprende a vivere; tutto quello che è accaduto prima del momento in cui la protagonista appare sul palcoscenico emergerà a tratti durante tutta l’azione. Carmelina è una ragazza del sottoproletariato siciliano che ha lavorato come serva in casa di un notabile del paese il quale a un certo punto la seduce. Si tratta di un borghese senza scrupoli: il Notaro Tremulo. Da questo momento la ragazza si aliena da tutto e soprattutto da una società che la condanna e che al contrario protegge senza sforzi il suo seduttore. La violenza che la Bella subisce è quindi doppia, proviene dal singolo, Il Notaro, e allo stesso tempo dalla società che la emargina. Il suo dunque è un destino che appare già segnato, in quanto ella si trova dalla parte delle ‘vittime’ che non possono fare altro che subire violenze dai loro ‘sfruttatori’ e carnefici: la ragazza si è ormai trasformata in «donna-oggetto».

Leggendo la vicenda in chiave sociologica, la Bella non è altro che la vittima di quella classe sociale che nel primo Novecento adopera il suo potere in maniera arrogante e crudele. Chiaramente l’autore vuole mettere in risalto questo aspetto della società italiana e non per nulla a violentare la Bella è uno degli esponenti della borghesia novecentesca, un notaio appunto. In seguito la giovane donna finisce sotto la cinica Padrona Guanceblù, e inizia a guadagnarsi da vivere vendendo il proprio corpo. Dal destino della Bella risulta come l’umanità dei personaggi di Rosso sia ormai degradata e condizionata da una società senza scrupoli. Con la figura della Bella emerge ancora una volta la figura della donna sansecondiana capace di provocare nell’uomo quel continuo contrasto tra passione e ragione. In quest’opera in particolare la figura femminile viene presentata come donna- bambola, cioè senza una vera consapevolezza del proprio stato.

Carmelina inizia così la sua vicenda drammatica, la sua «avventura colorata», nel presente del palcoscenico. Essa subisce la propria condizione in quanto compie il

108 ‘peccato’ da incosciente, perché ormai morta dentro; vive come in sogno, come un fantasma. Il suo è un tormentato cammino di purificazione che si concluderà solo alla fine con un doppio riscatto, umano e sociale: alla fine rimane incinta e il notaio sarà obbligato ad assumersi la paternità del bambino, prima della tragica decisione di togliersi la vita. La colpa di questa gravidanza infatti non può essere attribuita all’ultimo amante della ragazza, ma a colui che con l’insensibilità e l’arroganza del padrone senza scrupoli l’ha violentata per primo senza pensare alle conseguenze. La Bella non è esempio di dissoluzione bensì «vittima di un sistema che l’annienta», come suggerisce Anna Barsotti234, per questo non subisce alcuna condanna da parte dell’autore: ella fa disporre gli uomini di sé tollerando passivamente ogni abuso solo perché incosciente e trova rifugio in quella dimensione sonnambolica cui nessun altro può accedere. Per questo motivo, alla fine, pur portando con sé il germe della corruzione, grazie alla maternità riesce ad affrancarsi ottenendo nuovamente un’identità sociale e spirituale235. La Bella rinasce grazie al suo essere madre e trova così la forza di ribellarsi al proprio destino insieme poi al Nero della Zolfara, altra figura emblematica del dramma.

Il Nero infatti, dopo aver incontrato la Bella, e venuto a conoscenza della maternità della donna, si assume il compito di salvarne la dignità e conduce la ragazza dal notaio affinché costui riconosca la responsabilità di quel figlio anche se non è lui il vero padre. Le spiegazioni che il Nero porta a sostegno della sua causa di certo non sono quelle di uno zolfataro, ma quelle di «un’anima che trascende il proprio mestiere».

IL NERO […] Vostra Eccellenza ha conosciuto Carmelina, ed ora vede «la Bella Addormentata». Carmelina era asciutta e diritta; la Bella Addormentata si è un poco ingrassata; ha il rossetto sulla faccia, ride, e veste di rosa e di verde. Chi è stato a farla così? Il notaro. […] Perché, infatti, non corre acqua in un letto di fiume se non c’è sorgente di dove si parte. Succede che la Zolfara s’allarga, senza sapere il come e il perché: poi, però, quando figli di mamma son morti in quantità, si ritrova che da una sola picconata uscì la sorgente della strage. (Breve pausa. Indicando la Bella Addormentata) Guardatela in faccia; pare serenità di cielo con qualche pennellata di sole tramontato: e quello (indica il

notaro), invece, è verde e tremulo come la canna della palude sotto la notte… Vostra

Eccellenza non creda a me, creda al linguaggio di queste due facce236.

234 Cfr. A. BARSOTTI, Rosso di San Secondo, cit., p. 65.

235 Cfr. L. CANNAVACCIUOLO, Nord e Sud. Simbolo e allegoria nella drammaturgia di Rosso di San

Secondo, cit., p. 15.

109 Dietro la voce del Nero, torna l’io sansecondiano. Dietro questi colori che oltre ad arricchire i dialoghi, compaiono spesso nelle didascalie, c’è il marchio «procurato dalla società capitalistica sempre pronta a trasformare l’umanità in oggetto, dopo averla sfruttata», come suggerisce Andrea Bisicchia: basta ripulire con dell’acqua tutti quei colori sul viso della Bella, basta toglierle i vestiti e lasciarla in bianco perché questa diventi «la Madonna immacolata» come dice Il Nero237.

La figura del Nero della Zolfara è quella dell’eroe che suscita ammirazione nel pubblico e allo stesso tempo conduce alla riflessione sulla vita e sulla società tramite le situazioni che egli affronta durante il suo cammino. Gli eroi di Rosso devono sottostare a un destino che appare segnato fin dalla nascita e pagare comunque un riscatto per le loro precedenti colpe prima di giungere al loro felice epilogo. Qui in particolare il Nero dovrà patteggiare e scendere a compromessi con quella stessa borghesia che ha ricoperto di disprezzo e di ridicolo; egli pagherà con la galera la sua libertà. Il Nero della Zolfara è colui che assume il ruolo del cavaliere, ma in realtà è disinteressato alla Bella, dunque non l’aiuta perché spinto da un qualche particolare sentimento; egli si riduce solo a una proiezione lirica dell'Autore stesso. Sentimentale e passionale, divenuto scettico e ironico («sono tutto una cicatrice, simpatia!», dice), egli guarda la vita con uno sguardo distaccato e spregiudicato, burlesco e, in fondo, amaro. A colpirlo è la situazione tragica in cui si trova la Bella che gli fa intraprendere una nuova «avventura», come egli la definisce: «ecco quel che mi piace: una cosa che nasce senza averla voluta seminare».

IL NERO Va bene! Il Nero della Zolfara s’è messo in avventure di peggio! Avanti! Tutta la vita è un'avventura colorata: giallo è lo zolfo colato, ma sotto terra è cupo, come la galera; il cielo è turchino, bianche le nuvole o grigie; i paesi, sopra le montagne, paiono greggi quando c'è verde all'intorno, ma spesso non ce n'è, sembrano bruciati e ferrigni. Si va e si viene, si gira: qua è fiera, e là carestia; la servitù umana non trova modo di liberarsi. La libertà è la Bella Addormentata pregna, che passa con il Nero della Zolfara. Ecco lo scialle e andiamo238.

E alla fine il Nero porta a termine l'avventura obbligando il Notaro tremulo a sposare la sua vittima: sfrutta la debolezza del Notaro, l'odio della Vecchia per il nipote, e inizia

237 Cfr. A. BISICCHIA, Invito alla lettura di Rosso di San Secondo, cit., p. 69.

110 a parlare «di giustizia e di morale con una serietà pronta a prorompere in una risata» ed è quello che accade, quando il Nero sente pronunciare al Notaio: «uomo sono!».

Anche in quest’opera al sistema dei rapporti del vivere quotidiano in cui consiste la normalità della vita, Rosso nega ogni consistenza, ma non dissolvendolo in un gioco di forze anonime e impersonali, come abbiamo visto in Marionette, bensì guardandolo dal di fuori, in maniera distaccata e con lirica superiorità. «La vita qui gli appare qualcosa d'inconsistente e d'irreale come una vicenda di nuvole o un gioco di luci in uno specchio: un’‘avventura colorata’»239. I personaggi perdono anche qui ogni concretezza e materialità: si riducono a macchie di colore, – Guanceblù, Nasoviola, i due Grassi di velluto, il Nero della Zolfara, – o a gesti cristallizzati, – la Vecchia disperata, la Zitella angosciata, il Notaro tremulo. Nell’opera vi è un continuo intreccio di piani, dal fiabesco al realistico, di cui il nome del Nero della Zolfara è la realizzazione più concreta: egli mitologicamente irrompe sulla scena come Mefistofele richiamando allo stesso tempo la propria realtà isolana, è il Principe Azzurro che si tinge però dei colori acri della propria terra, la Sicilia240.

La scelta dell’archetipo fiabesco permette a Rosso di elaborare un vero e proprio modello drammaturgico influenzato dalle suggestioni europee. Il motivo-chiave è nuovamente quel conflitto tra razionalità e istinto del quale gli uomini sono incapaci di raggiungere un qualsiasi compromesso. Solo la dimensione favolistica può permettere, infatti, a certi passaggi narrativi, poco verosimili, di apparire del tutto logici: la prostituta si sveglia e fugge con il Nero della Zolfara; costui la consegna a chi l’ha corrotta, per un matrimonio riparatore; la ragazza d’improvviso si trasforma da prostituta a moglie e madre. Solo il gesto del notaio cede alle leggi della realtà e alla fine si uccide241.

Se la maternità induce la Bella a rifiutare di mercificare ulteriormente il suo corpo e ritornare dal Notaro tremulo non è per un rimorso di coscienza morale, ma solo perché

239 Cfr. A. TILGHER, Rosso di San Secondo e il superamento del dramma borghese, cit., p. 158. 240 Cfr. A. GUIDOTTI, Spazio scenico come “camera oscura” nel teatro di Rosso di San Secondo, in

Storia della Sicilia, Pensiero e cultura letteraria dell'Ottocento e del Novecento, cit., p. 216.

241 La morte del Notaro Tremulo sulla scena non piacque molto al pubblico e alla critica; per questo nel

’23 il testo subisce un rifacimento da parte dell’autore che attribuisce alla fiaba una connotazione negativa, spostandola verso il «dramma naturalista»: la fanciulla che muore di parto come una sorta di espiazione per i suoi errori passati. Cfr. A. GUIDOTTI, Il teatro dal 1918 al 1931, in F. DI LEGAMI, A. GUIDOTTI, N. TEDESCO, La figura e l’opera, Pier Maria Rosso di San Secondo, cit., p. 63.

111 sente nascere dentro di lei una nuova vita della quale bisogna salvare la purezza; essa non può pentirsi perché non ha mai peccato: «io dormivo», dice.

Il distacco dalla realtà è confermato ancora una volta nel terzo atto quando la Bella dichiara: «Non dormo, mi sogno». Questa affermazione segna il passaggio della donna da prostituta a madre, dall’incoscienza del sonno alla coscienza onirica, dove il sogno le permette di prendere le distanze, ancora più del sonno, da un’umanità di cui fa parte solo in apparenza242. Di struggente poesia la chiusa dell’opera che vede la Bella in espressioni e pose sognanti, protesa a catturare una manciata di stelle da gettare in strada al Nero della Zolfara, di cui si percepisce la presenza solo tramite il suono del suo scacciapensieri. Il «sonno» iniziale e il «sogno» finale della Bella, appaiono espedienti per eludere l’intreccio in quanto la situazione umana e sociale viene trasposta in un clima sonnambolico e fiabesco.

La Bella Addormentata messa in scena da Corrado Pavolini con la compagnia dell’Accademia nel

1919, riportata da Luigi Ferrante in Rosso di San Secondo, Rocca San Casciano, Cappelli, 1959.

La regia di Virgilio Talli, alla prima del 15 agosto 1919, si concentra su una rappresentazione in chiave naturalistico-grottesca, accentuando troppo il piano realistico e non permettendo all’originalità dell’opera di essere apprezzata pienamente dal pubblico;

112 ma soprattutto la chiave grottesca con la quale il Talli rappresenta l’opera non coglie la forza caratteriale del movimento tedesco: è indubbio infatti che La Bella Addormentata è un’opera espressionista. Quest’opera è l’emblema dell’espressionismo «fantastico- regionale» di Rosso, nel quale ancora una volta l’autore fonde tradizione mediterranea e regionale con esperienze e suggestioni europee. Certo il regista doveva anche fare i conti con il pubblico italiano che raramente accettava forme innovative a teatro. La direzione del Talli comunque non giovò al successo dell’opera che trovò invece la sua chiave ideale nella rappresentazione del 1927, a Düsseldorf, ovvero quella del teatro espressionista, capace di dare consistenza espressiva ad una favola che di favolistico non ha più nulla. I personaggi sulla scena devono apparire infatti come «marionette caricaturali»; le personalità di queste «marionette» sono frantumate e i valori di questi «randagi della vita» sono ormai mortificati dagli pseudo-valori della classe borghese. Se i protagonisti di

Marionette, che passione! sono marionette ‘umane’, in carne e ossa, la Bella, il Nero,

sono ormai «proiezioni metafisiche» di quelle marionette: la crisi del personaggio è completa.

La Bella Addormentata portata in scena a Parigi al Théâtre de la Grénelle nel 1927, riportata da Luigi

Ferrante in Rosso di San Secondo, Rocca San Casciano, Cappelli, 1959.

Con la figura della Bella, ma già con quella tormentata di Amara, Rosso ci fornisce lo spunto per esplorare un’ulteriore declinazione dei suoi personaggi femminili, ovvero il ruolo materno. Nella successiva produzione teatrale infatti (La scala, Tra vestiti che

ballano, Una cosa di carne) la maternità occupa un posto privilegiato a discapito di ogni

113 questa […] trasforma la bestialità dell’amore carnale nel mistero dell’incarnazione, genera l’antagonismo tra materia e spirito a vantaggio di quest’ultimo»243.

Nella maggior parte delle opere degli anni ’20 le creature animate dalla passione si riducono a una vita larvale che manda in frantumi l’ossatura drammatica del testo. Il tema dominante è quello dello smarrimento portato all’estremo e della conseguente aspirazione dell’individuo ad una libertà fondata sulla naturalezza dei sentimenti. Sulla stessa linea di pacificazione troveremo anche le ultime opere narrative e teatrali come Banda

municipale e Il ratto di Proserpina244.

Intanto tra il 1919 e il 1923 Rosso ha visto rappresentate tre sue commedie: L’ospite

desiderato (1921), La danza su di un piede (1922), La roccia e i monumenti (1923). Con

questi tre lavori l’esperienza di Rosso oscilla tra simbolismo ed estetismo, anche se elementi espressionistici possono essere ancora rintracciati soprattutto nelle prime due. Ci troviamo all’interno di atmosfere allucinate, di sogno, che nascono più da stati di incubo che da situazioni reali. Questa trilogia è molto particolare perché vede Rosso avvicinarsi e quasi sottomettersi alla moda del tempo. Egli la scrive infatti per Maria Melato, dopo che quest’ultima aveva portato con successo sulla scena La Bella

Addormentata. Questa trilogia è legata, per personaggi ed ambienti, agli anni Venti, al

tempo del Teatro degli Indipendenti di Bragaglia245. Si tratta di una trilogia particolare che nasce da considerazioni pratiche, essendo scritta appositamente per un’attrice, Maria Melato appunto: anche se rimangono evidenti la sua poetica e il suo gusto della rappresentazione irreale, Rosso si mostra senz’altro più condizionato dalla moda del tempo, ed è per questo che la critica teatrale gli è al momento più favorevole; ma tutto questo non durerà a lungo. Rosso tornerà presto al clima della sperimentazione e dell’invenzione espressionista con un’altra trilogia246.

Nonostante questo momentaneo adeguarsi al gusto del tempo, l’autore continua a mettere sulla scena la lotta interiore dell’uomo tra ragione e istinto, senza riuscire a risolverla in nessun modo. Ad esempio, tutti i dialoghi de La danza su di un piede sono

243A. BISICCHIA, Invito alla lettura di Rosso di San Secondo, cit., p. 101. 244 Cfr. R. JACOBBI, Teatro da ieri a domani, cit., pp. 85-86.

245 Si tratta del teatro d’avanguardia fondato a Roma nel 1922 da A.G. Bragaglia. Fu attivo fino al 1931

mettendo in scena un vasto repertorio sperimentale. Porta in scena nel 1929 L’opera da tre soldi di Bertolt Brecht portandola poi in tournée. Il Teatro Sperimentale degli Indipendenti diviene un punto di riferimento per le Avanguardie italiane, mettendo in scena il meglio della drammaturgia internazionale contemporanea.

114 percorsi dal tema della passione e il mondo degli animali fa da riflesso ad esso. Il comportamento degli insetti che studia Ester, come l’uccisione del compagno da parte della femmina dello scorpione dopo l’amore, viene indicato come l’unica via d’uscita possibile per l’uomo che tenta di dominare ancora una volta i propri istinti. Paolo e Ludovico, infatti, i due rivali innamorati di Ester, sono destinati a soccombere proprio come lo scorpione:

«Il male è che fingendo di parlar d’altro, continueremo a pensare alla stessa cosa!… Ecco qual è il martirio… Non si vive che per metà!... […] Si vive una specie di stato sonnambolico per tutte le altre cose che non siano quella! Non si è desti che per quella cosa!... […] come nei sogni tormentosi non si riesce a liberarsi dell’incubo, lo sforzo si rivela immane, ci accorgiamo che non siamo giunti nemmeno a spostare d’un millimetro l’asse della nostra esistenza, rimasta lì inchiodata al suo tormento; […] è la dichiarazione della nostra disfatta; in questo modo noi abbiamo rinunciato alla passione!... Siamo in sua balìa»247.

Il dramma si complica anche attraverso il personaggio di Ester, donna forte che vive in solitudine senza alcuna debolezza o amore che la turbi, illusa di poter scampare al contagio della passione. Ma alla fine si accorge anch’essa di essere stata travolta dal vortice passionale e dopo la morte tragica di Ludovico esclama: «Nessuno… Nessuno… nemmeno il morto ho amato!... ma mi avete uccisa con l’amore».

La linea compositiva seguita, che inaugura i due filoni espressionisti principali di Rosso, quello «metropolitano» con Marionette, che passione! e quello «regionalistico» con La Bella Addormentata, procede nelle opere che vanno dal 1920 al 1925, inaugurando un altro filone di Espressionismo, quello «lirico-fantastico», in particolar modo con la trilogia composta da: Lazzarina tra i coltelli (1923), Una cosa di carne (1924), Il delirio

dell’oste Bassà (1925).

Rosso torna al clima della sperimentazione e dell’invenzione espressionista, sia per quanto riguarda la struttura e i toni, sia per quanto riguarda la costruzione del personaggio. L’analisi che l’autore compie sulla condizione umana si fa sempre più drammatica, in quanto rispecchia quel clima di crisi che l’Italia attraversa negli anni precedenti il Ventennio, e nel quale la potente e prepotente borghesia mortifica e mercifica le classi

115 più basse della popolazione. È questo che maggiormente colpisce Rosso, e la lacerazione che l’autore prova viene trasferita sui suoi personaggi ma sempre in maniera indiretta,

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