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La ricerca del Paradiso perduto: Il ratto di Proserpina

4. L’opera di Rosso dopo il 1918

4.4 La ricerca del Paradiso perduto: Il ratto di Proserpina

Sembra che a partire dagli anni Trenta l’inquietudine interiore che aveva animato l’avventura spirituale e conoscitiva dello scrittore si sposti verso il polo regressivo della nostalgia e della serenità in cui placare le ansie irrisolte della propria esistenza. Alle immagini di uno spirito in continuo e frenetico movimento, mai appagato e ricco di

pathos, subentrano le immagini di una natura proiettata verso l’alto, rasserenante e ricca

di una spiritualità intensa. L’inquieto viandante, sempre in fuga verso l’ignoto, cede adesso il posto all’uomo volto alla riscoperta dei valori spirituali ed umani.

Negli anni dell’affermazione del Fascismo, Rosso, incapace di approfondire ulteriormente il rapporto dialettico con il reale, orienta la propria ricerca verso la ricostruzione e la riconciliazione dell’Umanità intera. Sotto l’influsso di riviste come «La Ronda» e «Il Novecento» lo scrittore punta all’accentuazione del fantastico, del mitico, con cui filtrare la realtà. È come se, negli anni del Fascismo dominante, Rosso mettesse a tacere ogni interrogativo sulla realtà, egli che aveva toccato le note più drammatiche dell’alienazione, della solitudine e delle angosce dell’uomo moderno. In quegli anni è pronto a legarsi a un ritorno all’ordine sollecitato dall’influenza del regime. Quanto di tormentato, lacerante e contraddittorio contrassegna la sua produzione narrativa e teatrale

138 fino agli anni Trenta, cede il posto ad opere più composte, caratterizzate da una rifondazione di valori con i quali instaurare nuovi rapporti con la realtà del tempo274.

Nelle opere sinora scritte da Rosso si vede come il contrasto tra Nord e Sud e l’eterno dissidio interiore tra ragione e passione continua a rimanere irrisolto: sia la dimensione fiabesca, che quella onirica o l’aldilà, non riescono a conciliare definitivamente questi due poli opposti, se non tramite un gesto tragico e definitivo come la morte; ma anche in questo caso la risoluzione rimane sempre incerta. Solo attraverso il mito l’autore tenta la realizzazione di un lieto fine che riesca a conciliare definitivamente il dissidio interiore all’uomo. La vita reale continua infatti ad esigere la tragedia che si consuma nel buio dell’attesa e della rassegnazione (Lo spirito della morte), mentre Il ratto di Proserpina sembra l’estremo tentativo di trovare nel mito quest’impossibile risoluzione275.

Rosso si dedica ormai a opere più svincolate dalle esigenze della sperimentazione o dalle problematiche esistenziali che fino ad allora hanno caratterizzato i suoi lavori. In

Mercoledì luna piena, dramma scritto tra il 1941 e il 1942 il tema è quello della vecchia

generazione, rappresentata dalla Preminente, che deve fare i conti con la nuova. La donna è da sempre ritenuta la più bella del paese, ma ora è minacciata dall’emergere della bellezza della giovane Micheletta, che rappresenta appunto la nuova generazione, alla quale la Preminente è costretta a cedere il posto. Lo stesso concetto verrà espresso dal Prometeo de Il ratto di Proserpina: «E la vita va avanti: l’umanità deve progredire. O s’immaginava che l’idillio di Pergusa dovesse durare per tutti i secoli?». È questa la legge alla quale devono sottostare i protagonisti delle due opere ma alla quale soprattutto sembra piegarsi l’autore stesso. Il suo cammino, faticoso e tortuoso, come quello delle sue marionette, cerca ormai la risoluzione finale. Anche Rosso cede il posto alla nuova generazione lasciandole quasi un testamento di grande valenza teatrale.

Negli ultimi testi Rosso sembra dunque cedere le armi una volta per tutte, accettando, con un velo d’ironia, il mondo nelle sue contraddizioni276. Emblematico come nell’atto

unico Il nuovo teatro la prima attrice, Frida Dietrich, si sfoga a proposito della sua condanna a camuffarsi sempre sul palcoscenico al punto da non avere più una vita: «Fuori

274 Cfr. F. DI LEGAMI, Uno scrittore della soggettività, in F. DI LEGAMI, A. GUIDOTTI, N.

TEDESCO, La figura e l’opera, Pier Maria Rosso di San Secondo, cit., p. 34.

275 Cfr. A. GUIDOTTI, Spazio scenico come “camera oscura” nel teatro di Rosso di San Secondo, in

Storia della Sicilia, Pensiero e cultura letteraria dell'Ottocento e del Novecento, cit., p. 218.

139 dell’arte mia, io non ho una vita. È qui tutto». Questa idea è confermata dalle parole del regista, Kurt Sigrid, che deve rappresentare il dramma nel teatro del titolo:

«Ma come può andare il teatro… se tutta la vita è sbandata, se nessuno sa dove si va? Allora lei, o rappresenta qualcosa che è assolutamente fuori della vita e perciò deve camuffarsi, o cerca di rappresentare la vita bruta e grezza com’è ora, e deve camuffarsi doppiamente per fissarla e determinarla, mentr’essa è assolutamente mobile e indeterminata! »277.

Quest’opera esprime in maniera significativa il passaggio di Rosso dalla demistificazione dell’età moderna alla ricerca di nuovi spunti di speranza per l’umanità reificata e la sua finale tendenza a conciliare libertà e ribellione. L’opera, apparsa per la prima volta nel 1937 su «Circoli» andrà a dare poi il titolo a una raccolta di composizioni drammatiche, brevi ma di genere composito, «atti unici» o «monologhi», alcune legate ancora alle tematiche espressioniste, altre che anticipano già l’idillio o la «paesanità» dell’ultimo Rosso. In quest’opera l’ambiente berlinese diventa luogo emblematico del contrasto tra le due opposte concezioni di vita dell’autore, borghese e moderna una, utopistica e naturistica l’altra: al centro de Il nuovo teatro l’immagine dell’apocalittica tempesta autunnale che distrugge, anche materialmente, l’impalcatura del teatro e manda in frantumi tutte le vetrate dell’edificio, è evidente simbolo di ribellione delle forze naturali ma anche atto di purificazione che sarà possibile raggiungere solo attraverso un violento ritorno alla primitività. Il motivo polemico dell’alienazione meccanica dunque si intreccia con quello della degenerazione del teatro, costretto a rappresentare una realtà che di per sé è già finzione278.

L’attrice protagonista de Il nuovo teatro, comunque, pur attraversando questa crisi di insoddisfazione e credendo nell’incompiutezza della propria arte rivendica alla fine il vero valore e il profondo significato dell’arte stessa:

«Su queste tavole ci ho lasciato la vita… Io ho fatto sul serio, ho dato il sangue alle parole degli autori, i personaggi che si sono mossi con me sul palcoscenico hanno avuto un pezzo della mia esistenza ciascuno. La storia di me stessa posso raccontarla con le date delle mie interpretazioni, come una donna dice a diciotto anni mi fidanzai, a venti mi sposai,

277P. M. ROSSO DI SAN SECONDO, Il nuovo teatro, in ID., Teatro, Roma, Bulzoni, 1976, vol. III,

p. 246.

140 poi mi accadde questo e poi quest’altro. Fuori dell’arte mia, io non ho una vita. È qui tutto! E volete che io stenda questo mio tutto come un tappeto sul pavimento sputacchiato della boria dei mestieranti, perch’essi ci passino sopra, sghangherandosi dalle risa? Preferisco andarmene, fuggire, crepare. Buffoni! Buffoni! Buffoni!»279.

La soluzione alla quale giunge l’attrice matura esemplarmente nella figura di un’altra donna sansecondiana, la protagonista del breve testo Inaugurazione, nel quale in una sorta di monologo con la statua del proprio marito, celebre scrittore ora defunto, lo accusa dei continui tradimenti e del suo egoismo. Tutto questo ha portato alla sofferenza quelli a lui vicino, le loro vite sono infatti servite allo scrittore solo per la creazione delle sue novelle e tragedie. Eppure, in tutto questo c’è un merito: l’arte e la creazione che rimangono necessarie. Per l’autore questa continua angoscia dell’esistenza rimane, dunque, indispensabile agli uomini. È a questo concetto che Rosso sembra affidare le sue ultime illusioni280.

Il punto di partenza di questa polemica mossa da Rosso può essere rintracciata su personali esperienze e ricordi dell’autore appartenenti all’intensa stagione teatrale da lui vissuta nella Berlino degli anni ’28-’30. Non si tratta solo del dualismo vita-forma o arte- vita di pirandelliana memoria: ad essere investito dall’alienazione fredda e priva di vitalità, è anche il teatro che ha perso la sua funzione di ordinare e sublimare la vita, ridottosi ormai a pura forma e ad artificio meccanico, bisogna dunque ricominciare da capo. Ed è quello che Rosso tenta di fare con la sua ultima opera, il Ratto di Proserpina appunto.

Rosso rappresenta ormai un’umanità divenuta insensibile ai sintomi della sua stessa «malattia» in quanto ha venduto la sua anima come oggetto di consumo. In questo modo l’autore prefigura (a causa dell’arretratezza italiana per quanto riguarda la civiltà del consumo rispetto ad esempio alla Germania) il mondo capitalistico di là da venire in Italia, ma che già altrove stava mostrando i suoi effetti. Da questo mondo Rosso intende uscire attraverso nuove utopie, come quella di un ritorno alla verginità primordiale o al mito, forme che tuttavia erano già emerse con opere come La Bella Addormentata o

L’avventura terrestre.

279P. M. ROSSO DI SAN SECONDO, Il nuovo teatro, in ID., Teatro, cit., p. 249.

280 Cfr. A. GUIDOTTI, Spazio scenico come “camera oscura” nel teatro di Rosso di San Secondo, in

141 Tutto l’ultimo teatro sansecondiano tenta di abolire il palcoscenico come luogo canonico della rappresentazione; nelle opere posteriori agli anni ’30 gli «interni» convenzionali si aprono verso spazi e dimensioni insolite. Gli scenari mutano continuamente, anche nel giro di poche battute; a sostituire le stanze della commedia «di costume» o del dramma borghese sono sentieri montani, casolari rustici in mezzo alle montagne (La fidanzata dell’albero verde), un giardino pubblico con statue (Inaugurazione) o grandi terrazze, sino al ponte di una nave, per raggiungere con il Ratto

di Proserpina la rappresentazione di nove scenari diversi impossibili da realizzare su un

palcoscenico tradizionale.

Il ritorno all’antica e sempre utopica «patria celeste» coincide anche con il dato biografico dell’autore che, dopo l’ultimo viaggio in Germania si stabilisce definitivamente in Italia, determinando in un certo senso la fine di ogni attrazione nordica. Ad assurgere a simbolo di questo paradiso perduto non poteva essere qualsiasi luogo dell’Italia, e nemmeno i campi e il mare della Toscana dove egli si stabilisce fino alla morte, solo la sua terra natale può configurarsi ancora come luogo mitico e verginale. I paesaggi toscani aiutano l’autore a riscoprire quella «vena» paesana che gli veniva dal ricordo della sua terra d’origine, e fungono allo stesso tempo da filtri per far riemergere il paesaggio siciliano nella sua memoria in maniera meno violenta. La Sicilia diventa una terra più mite e benigna e dunque più consona al suo nuovo stato d’animo.

L’isola è la protagonista principale, ma si tratta di una terra ormai mitica, che nella memoria di Rosso si materializza come tutta-natura, tutta-istinto, serenità e soprattutto luogo di evasione dalla Storia, una Sicilia che sembra essere ricostruita sui testi classici e mitologici. Questa terra si configura dunque come il sogno di un poeta nostalgico, che si rifiuta quasi di fare i conti con la realtà e cerca anzi una mediazione fra i due termini, realtà contemporanea industrializzata e mito che nell’opera si configurano con l’attivismo industrialista di Plutone da una parte e la tradizione agricola-idillica rappresentata da Cerere dall’altra. Questa mediazione si materializza nella figura di Prometeo, alter-ego dell’autore. La sua soluzione finale, che tenta di conciliare Cerere e Plutone nella lotta per il possesso di Proserpina, sembra non smentire che in realtà questa unione tra l’antico e il moderno, tra la terra idillica e passionale e la fredda metropoli, è pura illusione: Proserpina andrà infatti a mettere alla prova se stessa nella metropoli caotica e industrializzata, ma ogni estate finirà per tornare a riposare tra i campi e i pascoli della

142 sua nativa Sicilia. I due mondi dunque, pur convivendo nella figura di Proserpina, rimangono separati, sempre incompleti l’uno rispetto all’altro.

Questa operazione etica ed estetica compiuta da Rosso, sarebbe risultata impossibile se l’autore avesse rappresentato la sua terra veristicamente, evidenziandone, come nelle

Sintesi, l’aspetto di microcosmo esistenziale che della Storia contemporanea più di tutti

condensava conflitti e contrasti. Solo dimenticandosi della realtà l’autore può conferire alla sua terra d’origine una simbolicità di idillica purezza. Questo salto nel passato, che egli compie grazie al mito, gli è d’altronde possibile perché in Sicilia ormai Rosso non tornava da tempo: il mito sansecondiano della terra-infanzia, di quel paradiso perduto, che fin dalle sue prime opere si configura con la meta ultima dell’incessante ricerca dell’uomo e dell’autore stesso, ha perso tutta l’ansia e l’inquietudine di cui si era nutrito fino ad allora, e si trasforma in un colorito paradiso terrestre.

Ne Il ratto di Proserpina l’autore si rivolge ancora a temi fantastici, collocati stavolta tra il mito e la fiaba contemporanea. Durante questa fase in Rosso, tramite un rinnovato amore per l’umile reale quotidiano e un ritorno alla natura, avviene quello che Jacobbi definisce un «trapasso fondamentale»: dal buio e dal gelo de Lo spirito della morte si passa a quel clima arioso e solare del Ratto di Proserpina. A quest’opera viene inoltre attribuita enorme creatività di ambientazioni, non tanto perché nelle opere precedenti essa fosse assente, ma perché si trattava ancora di luoghi nei quali le vicende si trasfigurano nel quotidiano e anche quando cercano di superarlo tendono a fissarsi in un circolo chiuso. Qui invece Rosso mescola una metropoli come New York a città siciliane come Palermo, Caltanissetta e l’Atene antica tramite il riferimento al mito ennese; all’interno della stessa Sicilia inoltre si contrappongono atmosfere idilliche e pastorali, cittadine e feudali e notturne e stregonesche insieme. A queste atmosfere Rosso unisce anche le sue memorie del Nord italiano e germanico281.

Oltre all’audacia dell’impianto coreografico, grazie all’invenzione di nuovi spazi scenici, e grazie all’impiego di molti attori, comparse, danzatori e musicanti, l’opera risulta complessa specialmente per i molteplici sensi che vi si possono cogliere, oltre al motivo-chiave più evidente, della conciliazione tra l’uomo in sintonia con la natura da

143 una parte e la civiltà industrializzata dall’altra, simboleggiata quest’ultima dal moderno «inferno» di Plutone, divenuto magnate dell’industria americana.

Emblematico l’incontrarsi in quest’ultimo lavoro del mito classico con la tecnologia del moderno, che permette all’autore di intervenire sulle tematiche più attuali: il rapporto generazionale, quello tra mondo industriale e mondo agricolo, tra capitalismo e sottoproletariato. Grazie a questa satira più serena de Il ratto di Proserpina, la fantasia di Rosso torna ad essere più libera ed idillica. Quello di Rosso è un ritorno definitivo ad una dimensione semplice e quotidiana dell’esistenza, tramite un paesaggio naturale, ideale e astorico che egli vede probabilmente come l’ultimo approdo della sua incessante «fuga». L’eroina mitologica diviene una moderna fanciulla travolta dai cambiamenti portati dal progresso tecnologico, coi quali deve fare i conti.

La Sicilia si trasforma finalmente in quel paradiso terreste ove sembrano convivere in armonia mitologia e saggezza, furore dionisiaco e incantesimi di ogni sorta, e dove le divinità si mescolano con gli uomini, perché anch’esse sono state sedotte dalle illusioni della terra. Gli dei dell’Olimpo infatti sono divenuti emblema di valori degenerati, di ipocrisia e viltà. Sulla terra invece gli uomini si sono risolti a vivere «la vera vita […] che aderisce alla natura e ne segue il ritmo». Dall’altra parte dell’Oceano c’è New York, la metropoli del progresso dove è emigrato il mediterraneo Plutone che vive a ritmo della contemporaneità. Egli è però intenzionato a cercare moglie nella sua terra d’origine, convinto che solo una donna siciliana possa rappresentare «il fiore della sua razza, del suo sangue, del suo mediterraneo natale».

Emblematico è il modo in cui Plutone cerca di ingraziarsi gli zolfatari e i contadini del posto, convincendoli che la metropoli industrializzata non ha cambiato il suo amore per la terra natale.

Io non sono diventato americano. Sono rimasto perfettamente mediterraneo, greco, romano, e siciliano. Tant’è vero, che […], volendo prender moglie, invece di rivolgermi ad una miliardaria di New York […] sono venuto in Sicilia e voglio una campagnola casta e onesta di linguaggio nostro, di quello che non si tarla, dovunque lo metti, dovunque lo porti!282

144 Plutone spera di riuscire a convincere la giovane Proserpina a seguirlo, ma la ragazza non cede facilmente ai tentativi dell’uomo perché vuole scegliere la sua strada con coscienza. A questo punto Prometeo diventa il deus ex machina della vicenda: induce infatti Proserpina a prendere per la prima volta una decisione autonoma per il suo avvenire, decisione che già da tempo è maturata nell’ animo della ragazza. Proserpina sceglierà così di seguire Plutone ma ad un patto: «Io dovrò essere qualcuno per me stessa, e non soltanto la signora Plutone!».

Quando Prometeo riesce a consolare Cerere e a farle accettare la perdita della figlia, in realtà la conciliazione tra i due mondi è già avvenuta, grazie alla scelta autonoma fatta da Proserpina stessa. Quelli di Prometeo allora rimangono discorsi superflui e il suo ruolo si fossilizza in quello unico di profeta283.

L’autore sembra rimanere scisso tra i due poli di ragione e passione. Il testamento di Rosso risulta quindi ambiguo; se il linguaggio e le atmosfere esprimono la nuova visione del mondo a cui l’autore vuole approdare a dalla quale vuole cancellare ogni angoscioso pessimismo; se il tragico umorismo di un tempo è divenuto pacifica ironia e la dissoluzione di tutti i miti non porta più ad una critica amara e sconvolgente della società e della storia, ma ad una accomodante accettazione delle sue leggi, tuttavia un segno dell’antico furore resta nei personaggi di Prometeo e Proserpina e soprattutto nel «tentare la vita» da parte della ragazza in una nuova realtà, lasciando così intatta la possibilità di ignorare la storia per vivere ancora di sogni e di illusioni in un mondo primitivo e atemporale attraverso l’eterno mito della Sicilia-infanzia284.

Il ratto di Proserpina ha avuto una lunga gestazione, come riporta la nota informativa

all’opera curata da Ruggero Jacobbi285. Il periodo della stesura dell’opera coincide con

quello in cui la cultura ufficiale, condizionata dalla pubblicità del regime, esalta i valori della terra e dell’agricoltura. Di certo il mito di Proserpina si presenta in sintonia con essa.

283 Cfr. R. JACOBBI, Teatro da ieri a domani, cit., pp. 93-94. 284 Cfr. A. BARSOTTI, Rosso di San Secondo, cit., p. 182.

285 Le prime notizie sull’elaborazione dell’opera risalgono al 1933, durante un’intervista di Rosso edita su

«L’Ambrosiano», mentre nel 1954 l’editore palermitano Flaccovio ne pubblica in volume una vecchia versione, senza riportare le modifiche del 1953 avvenute durante la regia radiofonica a cura di Alberto Casella, su «Radiocorriere»; dopo la morte di Rosso il testo definitivo è pubblicato da Ruggero Jacobbi nel 1965 su «Ridotto», in occasione del decimo anniversario della scomparsa dell’autore.

145 In una lettera scritta da Rosso nel novembre del 1956 e riprodotta nel volume di Giovanni Calendoli, l’autore dichiara di aver trovato con quest’opera, grazie al mito, il modo definitivo per chiarire i suoi dissidi interiori:

«Il ratto di Proserpina è lo specchio del mio mondo quale si è serenamente costituito alla conclusione di un ciclo. In questo mio mondo non è essenziale il contrasto fra Nord e Sud, i quali appaiono come i termini opposti di una perenne insoddisfazione»286.

Nell’ultima fase dell’attività letteraria di Rosso la narrativa sembra prevalere quantitativamente sul teatro; le sue raccolte di prosa e di novelle, tra le quali Luce del

nostro cuore (1932) e Banda municipale (1954) e gli ultimi romanzi come Ignazio Trappa

(1943) ed Incontri di uomini e di angeli (1946) sembrano riflettere il cambiamento di rotta dell’autore: il linguaggio si allontana man mano da un timbro acceso e violento o caratterizzato da funebre simbolicità, che era stato uno dei segni più evidenti del suo periodo espressionista, per farsi lieve e disteso, semplice ed evanescente. Risulta evidente la rinuncia di Rosso, agli aspetti più sconvolgenti della vita e dunque alla contemporaneità per soffermarsi piuttosto su un’esistenzialità banale e a-storica tramite delicati toni di

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