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La morte in scena: La scala e Lo spirito della morte

4. L’opera di Rosso dopo il 1918

4.3 La morte in scena: La scala e Lo spirito della morte

La prima rappresentazione de La scala ebbe luogo al Teatro Olimpia di Milano il 16 novembre del 1925, con interpreti Tatiana Pavlova e Renato Cialente. Rispetto alle due commedie precedenti l’opera incontrò meno approvazione da parte della critica: la commedia presentava un contenuto più ricco sia a livello sociale che introspettivo, oltre al dramma di una donna il pubblico è messo di fronte a quello di una madre consumata dal senso di colpa per aver abbandonato la figlia. La scala viene ripresa trent’anni dopo a Venezia al «Festival Internazionale della prosa», il 20 luglio 1955, con la regia di Luigi Squarzina: il passare degli anni permette alla commedia di ottenne un notevole successo rispetto alla sua prima, in quanto la sensibilità del pubblico e della critica era notevolmente cambiata.

124 Anche il dramma La scala fu scritto per l’attrice russa Tatiana Pavlova, ma stavolta il personaggio che l’attrice deve interpretare è una donna italiana, e non straniera come nei precedenti Tra vestiti che ballano e L’avventura terrestre. Rosso deve allora inventare un espediente per far coincidere l’accento russo dell’attrice con la storia della protagonista. In quest’opera torna lo spettro della prostituzione in quanto l’unione tra marito e moglie è frutto di un rapporto imposto, privo di sentimenti. Clotilde fugge in America con un giovane artista, Manuel Barritos, dopo sette anni di matrimonio con un marito che non ama, l’avvocato Terpi; la donna abbandona anche la figlia Maria. Passano nove anni e si risveglia nella donna l’istinto materno: Clotilde decide così di ritornare dalla figlia. Ecco allora la soluzione per la Pavlova: nove anni in America bastano a giustificare un accento non completamente italiano; l’autore per conferire il massimo della verosimiglianza alla protagonista, cerca inoltre di ridurre al minimo le battute affidate all’attrice.

Rientrata in città Clotilde non si mette subito alla ricerca della figlia; diventa prima sciantosa in un caffè concerto e poi prostituta. Solo per caso il marito la incontra e la riporta con sé nel suo appartamento, dove la donna è costretta a subire l’umiliazione di vivere in casa propria, sotto falso nome (verrà infatti chiamata Ines), come una mantenuta, nella speranza di poter rivedere un giorno la figlia. Alla fine scoprirà di aver amato per tutto il tempo solo il «ricordo» di un’«ombra», ricordo che rimarrà anche, come vedremo, l’unico legame possibile tra i due genitori.

La vicenda si svolge in un palazzo dove l’elemento chiave diventa «la scala», luogo in cui la collettività, rappresentata dalla piccola borghesia del tempo, si intromette fino a invadere completamente l’intimità altrui. Quest’opera è l’unico caso in cui l’attenzione dell’autore si focalizza su un elemento architettonico diverso dal tipico salotto borghese: l’ambientazione si apre ad una realtà più varia, quella della casa-formicaio, rappresentata appunto dalla scala di un condominio.

Torna in quest’opera quel procedimento tipico di Rosso per il quale la coralità del primo atto prepara all’intimità sempre maggiore degli altri due: la scena si sposta dalla scala al salotto della casa dei due coniugi che finiranno per consumare lì il loro dramma262. L’oggetto principale dei pettegolezzi degli inquilini del palazzo, sempre pronti a godere delle disgrazie altrui, è la misteriosa «signora del terzo piano» che vive

262

Cfr. A. GUIDOTTI, Il teatro dal 1918 al 1931, in F. DI LEGAMI, A. GUIDOTTI, N. TEDESCO, La figura e l’opera, Pier Maria Rosso di San Secondo, cit., p. 49.

125 senza far nulla e che si mormora sia «mantenuta» dal Terpi, suscitando così l’indignazione della gente «onesta».

In questo dramma entra anche la Storia: Rosso si fa ancora interprete dei suoi tempi, quelli oscuri del Fascismo che limita ogni tipo di libertà, l’unica difesa per l’uomo è quella di ridurre la storia stessa a pura apparenza. Questo compito è assunto dall’avvocato Terpi: egli riduce ogni sentimento a pura finzione, rimanendo vittima della vita e della storia, in quanto recita anche lui la sua parte, incatenato alla sua maschera come a una condanna, al punto da costruirsi artificialmente un’intimità familiare che non gli appartiene.

Solo nel secondo atto si ha la rivelazione della vera identità di Clotilde, in presenza di tre testimoni, come se la vicenda prendesse le sembianze di un giallo. Infine la seconda rivelazione avverrà alla fine del terzo atto, quando verremo a conoscenza delle sorti della figlia. Il dramma si conclude quando, per una serie di circostanze, l’avvocato Terpi è costretto a svelarle la verità: la loro figlia è morta. Il risveglio della maternità perduta aveva portato Clotilde ad accettare di tutto: la clausura nella casa del marito, il concedersi a lui senza amore, il vivere come una mantenuta. Con la rivelazione della morte della figlia, Clotilde a questo punto potrebbe decidere di andarsene nuovamente di casa e riprendere la sua vecchia vita con l’amante, ma la tragica notizia porta la donna ad accettare quella condanna come giusta punizione al suo vecchio errore. Del resto l’unica cosa che la spinge a rimanere con il marito è proprio la morte della figlia. L’unica soluzione rimane un sentimento di «pietà» reciproca tra i due coniugi. Il motivo della «memoria» che tenta di far rivivere i morti appare svuotato di ogni significazione positiva:

TERPI ecco, vedi… un certo legame tra noi esiste ancora…

CLOTILDE Morta…

TERPI Già, la morta…è il legame!... […]

CLOTILDE Perciò ti ho odiato! La sola carne ti legava a me!...

TERPI Dalla carne nascono le ombre! […] Non l’avevamo creata di carne?... Di carne era! Ed ora…

CLOTILDE (rizzandosi) Ombra!... Ombra!...

TERPI Ed ombre anche noi! Ah! ah! ah! Ecco la nostra intimità!

126

TERPI (dopo una pausa) Pietà!263

La figlia mai vista e disperatamente ricercata è dunque presenza spettrale: sin dall’inizio questo «non-personaggio» si presenta per lo spettatore come la materializzazione dell’angoscia dei due protagonisti. Il senso di colpa di Clotilde è così forte da spingerla a un rapporto masochista con il marito, solo con l’espiazione di questa pena la donna può lenire le sue colpe. L’incubo della morte è il leitmotiv di questo dramma privo di consolazione. Più tardi ne Lo spirito della morte, lo stesso motivo del «ricordo» aiuterà a far rivivere come in un limbo i protagonisti «assenti», ma al contrario del dramma del ‘25, ne Lo spirito della morte il «ricordo» dei morti sarà sostenuto da sentimenti diversi, come l’amore vero e la solidarietà, che invece mancano ne La scala. Ecco perché qui l’elemento della scala si trasfigura in un luogo completamente dominato da un senso di morte.

La scala diventa l’unico esterno possibile per la vita futura di Clotilde, «piena di muffa, buia e sudicia», grigia e monotona, esatto contrario della solare atmosfera delle terre del Sud che hanno attratto la donna al momento del suo abbandono del tetto coniugale264. Tutta la vicenda viene osservata dalla prospettiva della scala, a partire dalla

narrazione di Clotilde quando parla del motivo per il quale ha abbandonato il marito: durante tutto il suo racconto ogni volta che la donna deve fare riferimento alla casa parla sempre di «scala». L’elemento materiale della scala si configura per la donna come metafora di un percorso tortuoso da un passato di colpe ad un ipotetico futuro di riscatto. Tra i due coniugi e gli altri protagonisti del dramma vi è un notevole divario nei modi in cui si esprimono: l’uniformità del pettegolezzo «naturalista» delle cameriere, delle inquiline e degli amici dell’avvocato si sgretola a contatto con le battute della coppia; il racconto di Clotilde ad esempio è costruito sulla ripetizione, sull’ossessivo uso del passato prossimo e dei puntini di sospensione che fanno da pendant al racconto del marito.

Il 1926 è un anno importante per il teatro di Rosso: a Milano vengono rappresentate, rispettivamente al Teatro Olimpia e al Teatro Manzoni, L’illusione dei giorni e delle notti e Tra vestiti che ballano; a Venezia, al Teatro Goldoni viene portata in scena Febbre ed ancora a Milano Le esperienze di Giovanni Arce, filosofo, commedia satirica e umoristica

263P. M. ROSSO DI SAN SECONDO, La scala, in ID., Teatro, cit., p. 596.

264 Cfr. A. GUIDOTTI, Il teatro dal 1918 al 1931, in F. DI LEGAMI, A. GUIDOTTI, N.

127 scritta dall’autore per il comico Ettore Petrolini, pienamente adattata alle sue doti sarcastiche e alla sua fantasia comica.

Lo spirito della morte viene composto nel 1930 e viene rappresentato all’Eliseo di

Roma l’anno successivo. Rosso inserisce l’opera, nel 1931, all’interno di un volume insieme alle già citate Per fare l’alba e Amara sotto il titolo Climi di tragedia a cui aggiunge uno scritto teorico, Pensieri sulla tragedia, col quale l’autore esprime la crisi del suo tempo che è personale e universale:

«Gli uomini hanno preteso di abolire la morte. Hanno veduto cadere a milioni i fratelli sulle trincee, e la realtà insanguinata ha disincantato ai loro deboli occhi la morte d’ogni fascino. Allora hanno detto: la vita è nella vita, la morte non è nulla. Se avviene naturalmente, è roba da ospedale; se per violenza, un episodio da macello. Noi non vogliamo più occuparci della morte. Vogliamo soltanto vivere.

[…] Volendo uccidere la morte, hanno ucciso la vita: volendo sgravare l’individuo del fardello della coscienza individuale per assegnargliene una collettiva, gli hanno dato il passaporto per il delitto. Non solo, ma mirando ad una società piatta e livellata, hanno dimostrato tutto il contrario di quello che volevano dimostrare: cioè che una società meccanica non può esistere, perché gli uomini sono uomini e non congegni»265.

Tra il 1926 e il 1932 Rosso compie frequenti viaggi in Germania. L’atmosfera artistica e sociale dello stato tedesco, con i suoi molteplici spunti di ribellione e con la sua pregnanza culturale, suscita in Rosso l’urto tra la nostalgia di un passato glorioso di fronte a un presente che opprime e aliena la personalità dell’uomo medio del tempo. Queste impressioni vengono riportate dall’autore nel volume di novelle Luce del nostro cuore (1932). Così la Germania, la Berlino degli anni ‘20-’30 potremmo dire, dà vita alle marionette non solo di Rosso, ma anche di Pirandello in Questa sera si recita a soggetto del 1929 o di Brecht ne L’Opera da tre soldi del 1928.

Ritroviamo ne Lo spirito della morte quei luoghi anonimi tipici della quotidianità borghese: carceri, manicomi, ospedali, bar, palazzi, ristoranti, ma inedita è la luce che li illumina o li mette in ombra e che vi piomba sopra a rivelarne le smodate fattezze e gli sconvenienti dettagli; è una luce ben diversa dai chiaroscuri crepuscolari, fredda, affilata, tanto da tagliare i contorni e sconvolgere le geometrie di quella monotona topografia urbana. Sono luoghi che caratterizzano per di più i primi atti di tutte e tre le opere,

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Marionette, che passione!, La scala e Lo spirito della morte: l’ufficio telegrafico e le

stanze della Cantante del primo e secondo atto di Marionette, «la scala» e i vari pianerottoli del primo atto nell’omonima opera, il bar e le strade dove ancora una volta gli «sbandati» si incontrano per caso e si riconoscono, ne Lo spirito della morte. C’è però una variazione negli ultimi due drammi rispetto a Marionette: in entrambi il terzo atto itera l’ambientazione del secondo, con un clima isolato e intimo, tanto che la divisione tra i due atti sembra superflua, mentre in Marionette il terzo atto ha un’autonomia a se stante. Rimane comunque lo spostamento da luoghi palesemente corali e pubblici, verso luoghi che acquistano man mano più intimità, anche se in misure differenti.

Nonostante il procedimento che l’autore adotta per queste opere sia simile, con Lo

spirito della morte qualcosa è cambiato: le psicologie ormai contano poco, la pietas si fa

sempre più dura, come lo sguardo dell’autore che diventa sempre più disincantato e freddo, una freddezza e un’oscurità che avvolge man mano anche i volti e i gesti dei personaggi. Lo spirito della morte è l’opera che segna la maturità dell’autore, quella in cui Rosso porta a completo compimento il suo espressionismo. In quest’opera la presenza della morte e l’abbandono di ogni speranza sono lo specchio dell’imminente conflitto mondiale di là da venire.

Con Lo spirito della morte Rosso ripropone la linea stilistica già presentata con

Marionette, che passione!, si tratta ancora di «espressionismo metropolitano». Il

linguaggio torna ad essere lucido, sintetico e altamente espressivo; il dialogo brutale ed essenziale. Pur recuperando il nucleo di Marionette, che passione! però, ai tre «randagi della vita», ancora alla ricerca di una soluzione ai loro dissidi interiori, si contrappongono tre creature affrante che non hanno più alcuna possibilità e volontà di sfuggire al proprio dramma. Si continua a denunciare la tragedia dell’esistenza contro cui è inutile ribellarsi266.

La vicenda comincia in un caffè di periferia, al crepuscolo, dove il tempo viene scandito dal tintinnio dei bicchieri o dal tonfo delle palle da biliardo. Sembra proprio che l’autore abbia voluto riprendere le atmosfere e la tecnica del suo dramma più famoso. Sono passati ormai tredici anni, ma vi scorgiamo molti punti di contatto, anche nel successivo svolgimento della vicenda, come nel passaggio che avviene da un locale

266 Cfr. A. GUIDOTTI, Spazio scenico come “camera oscura” nel teatro di Rosso di San Secondo, in

129 pubblico, che pullula della presenza di molti personaggi, alle quattro pareti entro le quali si svolge l’atto finale, con la sola presenza dei personaggi essenziali, e dove alla fine si consuma il dramma. Ritroviamo inoltre un quasi identico nucleo di personaggi, si tratta infatti di due donne e un uomo, e non, come in Marionette, di due uomini e una donna, con altrettanti «assenti». Alla base della tragedia dei protagonisti vi è un’enquête stavolta ancora più disperata e impossibile da compiersi poiché coloro che dovrebbero ritornare, gli «assenti», sono già morti267.

Lena e Rosetta percorrono ogni giorno le stesse strade e frequentano gli stessi luoghi, perché entrambe attendono l’illusorio ritorno di Carlo Bredi, fratello di Lena e fidanzato di Rosetta, il quale in realtà è morto tragicamente. È quasi un rito che si ripete tra bugie e incontri sempre uguali che si configurano come momentanei frammenti di realtà, mentre tutto il resto è e sarà sempre finzione. Il rito che porta avanti Lena, nelle vesti di un regista, come lo era il Signore in grigio, fa sì che l’illusione dell’attesa di Rosetta, nelle vesti di ‘bella addormentata’, ridestata ogni giorno tramite quel sortilegio, continui incessantemente.

Uno di questi incontri si rivela però fatale: le due donne incontreranno infatti Camorengo, uomo torturato dalla delusione che il tradimento della moglie gli ha provocato, e dalla successiva tragica morte di lei, egli è ormai rassegnato della perdita della donna. Mentre l’attesa di Lena e Rosetta è attiva e vibrante, al contrario quella di Camorengo è passiva: egli si rifiuta di piegarsi al crudele gioco della pietà-finzione ed è ormai rassegnato al suicidio. L’incontro con Lena lo porterà a rimandare ulteriormente il suo appuntamento con la morte; in questo frangente di tempo egli cerca di imporre la sua voce gridando con violenza contro gli altri e contro se stesso: vuole che Lena guardi in faccia il vero e cessi di vivere nella vana speranza del ritorno del fratello. Lena non è intenzionata a cedere, ma nonostante la forza di volontà che cerca di mantenere, ella stessa subisce inconsciamente la forza di quel flusso infinito dell’attesa che si snoda tra la vita e la morte, perdendo definitivamente la sua vecchia identità: la donna non è più quella di prima e a confessarlo è lei stessa. Tra le vittime sansecondiane della passione la più avvilita risulta comunque Camorengo.

267A. GUIDOTTI, Il teatro dal 1918 al 1931, in F. DI LEGAMI, A. GUIDOTTI, N. TEDESCO,

130 Il secondo e il terzo atto si svolgono in un clima più raccolto rispetto al primo. Ci troviamo adesso all’interno di una «stanzaccia disadorna e grigia di una casa decrepita»; estrema la continuità con l’atto precedente, sia per quanto riguarda il luogo, che per quanto riguarda il clima drammatico. In questi due atti incontriamo altri personaggi, Romita e Dommelli, quest’ultimo innamorato di Lena, il cui amore è simile a quello di Camorengo per Adele Renzis, forte e impossibile.

Camorengo passa la notte a casa di Lena, assistendo insieme alle due donne alla strana «felicità dell’attesa» di Rosetta, e allo stesso tempo alla disperazione di Dommelli, quando scopre che la donna che ama non esiste più. Ed è da questa atmosfera senza alcun futuro, che finalmente Camorengo troverà il coraggio necessario per porre fine alla sua vita. Lena gli ha fatto capire la verità delle cose: la presenza dello «Spirito della morte» è ovunque. Ecco come Lena saluta così ogni nuovo giorno:

«Aspetto che goccioli il tempo. La giornata incomincia. La giornata passerà. Verrà la notte… Secondo le ore, Rosetta piangerà, sarà felice, piangerà di nuovo. Usciremo, gireremo, rientreremo, torneremo ad uscire […].

Romita torna a strascicare le sue ciabatte per la casa. Udite? A quest’ora la luce del giorno penetra in tutte le case, desta quelli che dormono, penetra anche negli ospedali, nelle carceri, nei lupanari. Ricominciano sonnacchiosi i sentimenti: poi, man mano che i corpi si sgranchiscono, si snodano anche le passioni; grida, risse, lamenti, odii, rancori. A mezzodì sarà tutto un rimescolìo, un andirivieni, un affaccendìo turbinoso, fino a sera, fino a notte, finché non saranno di nuovo tutti stanchi e non s’abbatteranno a dormire. Ma negli ospedali, nei manicomi, nelle carceri, nei lupanari, qualcuno continuerà a urlare, e quell’urlo forse sarà la verità, dopo il chiasso illusorio del giorno»268.

L’ultima battuta del dramma proietta tutta la vicenda in uno spazio metafisico, che già il linguaggio aveva da tempo raggiunto, pur mantenendo una parvenza di verosimiglianza. Una porta si apre d’improvviso, Romita sussulta e domanda atterrita: «Chi è? Chi è?». E su questa domanda cala il sipario. Lo spettatore, come anche i personaggi, vengono abbandonati nella morsa del dubbio. Quale dei morti avrà bussato alla porta? Carlo Bredi? Camorengo? Lo «spirito della morte?». Questo epilogo sembra dare all’opera una struttura apparentemente aperta, in realtà fissa nella categoria dell’attesa i protagonisti «prigionieri della loro stessa volontà di cogliere l’essenza della

131 vita e della morte, in uno spazio e in un tempo che trova nella ripetizione la sua cifra distintiva»269.

L’urlo che aleggia sulla scena finale, quel «Chi è? Chi è?» che esplode con sgomento e che riapre la comunicazione tra i due mondi, quello dei vivi e quello dei morti, è la sola autentica espressione della coscienza umana e del male di vivere contemporaneo, ma questo tentativo di comunicazione rimane fine a se stesso perché non offre nessuna via d’uscita in alternativa alla pena che l’uomo è costretto a subire.

Con l’amore che prova Lena per il fratello, per il quale si è completamente annullata, Rosso cerca di risolvere l’eterno dissidio tra la carne e lo spirito, e lo fa assimilando l’amore fraterno di Lena a quello passionale di Rosetta. Le due donne hanno saputo rendere reale un’illusione e così facendo si estraniano dalla realtà, rifiutano la vita e si chiudono in un continuo cerchio di ricordi che proiettano in un futuro inesistente. Soltanto nei fantasmi, per i quali hanno deciso di vivere, Lena e Rosetta trovano la forza di sopportare la loro pena. Camorengo al contrario non riesce né a credere né a fingere di credere a questi fantasmi e, come il Signore in grigio, finirà per «risolvere». Ma qui,

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