• Non ci sono risultati.

“Molti scrittori e pittori hanno dimostrato che riflettere a lungo su cosa è o dovrebbe essere l’arte13 annulla la capacità di scrivere e dipingere!”.14 Tuttavia, siamo del parere che una coscienza estetica vi-gile sia necessaria alla responsabilità dell’artista in quanto tale in fase di creazione e alla sensibilità del soggetto che tenta un avvici-namento all’opera. Così come riteniamo il “bello” un termine inevitabi-le proprio ora che, nell’ estensione smisurata delinevitabi-le sue accezioni, ri-schia di diventare una parola antiquata e destinata all’oblio. L’inten-to di queste riflessioni non pretende di spingersi fino ad una rico-struzione esaustiva dei vari orientamenti o delle maggiori tematiche dell’estetica (che peraltro è una disciplina relativamente giovane, ma problematica di per sé), ma è un tentativo di porre questioni rispetto a cui l’estetica si ponga quale redditizio terreno di crescita.

13 Con il termine “arte” ci riferiremo in tutto il paragrafo anche allo specifico della fotografia di moda, per snellire la trattazione e nella consapevolezza che è alla condizione di arte che si avvicina lo statuto dell’immagine di moda che stiamo costruendo.

14 Adams Robert, La bellezza in fotografia. Saggi in difesa dei valori tradizionali, Bollati Boringhieri, Torino 1995, pag. 121.

Abbiamo quindi definito quest’attenzione all’aspetto estetico “por-tamento”, con un’evidente analogia terminologica con il campo della mo-da, intendendo con ciò un attitudine di fondo (un portamento appunto, ma interiorizzato) che tende all’esperienza estetica, indipendentemente dalla maggiore o minore intensità e purezza dell’opera, quale sintesi suprema di un approccio sensibile e teorico. Difatti, un’opera avvici-nata con un “incedere” estetico autentico è un qualcosa che ci avviene (per usare la già citata espressione di Barthes) sia attraverso i sensi come illuminazione e scuotimento, sia successivamente come riflessione teorico/concettuale, per confermarsi nell’insieme come atto di cono-scenza. E’ qui che le acute riflessioni di Hans-Georg Gadamer (non a caso altro pensatore che come Simmel15 ha ricoperto tutto il ‘900) in-tervengono, seducenti ed autorevoli, sulle complesse questioni di este-tica ed ermeneueste-tica in oggetto e ci offrono nuovi sviluppi d’analisi.16 Innanzitutto, è d’obbligo sottolineare che tutte le considerazioni fat-te sul coinvolgimento emotivo, sull’impulso che punge al di là di ogni apprendimento culturale e sull’opera che mi “avviene” luminosa e spon-tanea, non debbano mai separarsi dalla ferma convinzione che l’arte sia una particolare conoscenza di se stessi e del mondo, anche se siamo co-stretti ad intuire lo splendore che porta con sé a partire dal riflesso

15 Cfr. paragrafo 3.1.

16 La tradizione filosofica a cui Gadamer si ricollega e che tenta di rivitalizzare è prevalentemente quella che fa capo ad Heidegger ed He-gel.

frammentario che deposita sui nostri oggetti quotidiani.17 Come afferma Gadamer (e contrariamente a tutta l’eredità estetica kantiana che vede nell’arte solo la produzione di un sentimento senza verità): “L’arte non ha davvero nulla a che fare con la conoscenza? Non c’è nell’espe-rienza dell’arte una rivendicazione di verità, diversa certo da quella della scienza, ma altrettanto certamente non subordinabile ad essa? E il compito dell’estetica non è proprio quello di fondare teoricamente il fatto che l’esperienza dell’arte è un modo di conoscenza ‘sui gene-ris’, diversa beninteso da quella conoscenza sensibile che fornisce al-la scienza i dati sulal-la cui base essa costruisce al-la conoscenza delal-la natura, diversa altresì da ogni conoscenza morale della ragione e in generale da ogni conoscenza concettuale, ma pur sempre conoscenza, cioè partecipazione di verità?”.18 Quindi l’arte è un modo di auto ed etero comprensione ed è proprio nell’autenticità estetica, che tanto stiamo rimarcando, che risiede la sua possibilità di salvarsi/ci dalle devia-zioni dell’attuale società ipertecnologica, consumistica e mass media-tica.19 Da quei rischi, insomma, che fanno dell’arte un “di più”, un su-perfluo paralizzato, un surrogato di se stessa in cui la sua intensità

17 Nel suo saggio Fenomenologia dell’esperienza estetica, Lerici, Roma 1969, Michel Dufrenne descrive l’opera d’arte come un “quasi soggetto”, ossia un oggetto che si incontra nel mondo, ma che non si lascia trattare come un puro oggetto; una visione sul mondo, ma non un pezzo di mondo.

18 Gadamer Hans-Georg, Verità e metodo. Lineamenti di un’ermeneutica filosofica, Bompiani, Milano 1983, parte I – Il trascendimento della dimensione estetica, pag. 79.

19 Cfr. paragrafo 5.1.

leggera evapora nella frammentarietà dello svago distratto.20 In un’ot-tica del genere la rivelazione del “bello” non è più tale: ossia il bello non può più essere inteso come un qualcosa che si offre alla no-stra contemplazione, ma diviene un principio produttivo, una lettura costruttiva di forma e senso che naturalmente non tende al raggiungmento di nessuno scopo particolare, ma che è il fare entro cui si i-scrive ogni scopo particolare. Ma che cos’è questo “bello” di cui tanto ci sporchiamo le labbra? Scovare una definizione universale di bello sarebbe come cercare di definire un colore e pertanto ci sembra uno sforzo inutile oltre che complicato. Tuttavia sappiamo che esiste, che accompagnerà sempre l’uomo e possiamo coglierne i riflessi e le sfuma-ture. Da questi deduciamo innanzitutto che la realtà che ci si avvicina con il bello “solleva inequivocabilmente la pretesa di non essere vale-vole soltanto soggettivamente”21 e quindi, anche se sappiamo che non si tratta di un’universalità assimilabile a quella scientifico-concettua- le, possiamo comunque sottrarre il nostro discorso estetico da qualsia-si arbitrarietà. Ciò non qualsia-significa rendere assoluta ed incondizionata la bellezza, ma vedervi piuttosto una garanzia d’incontro dell’ideale nell’individuale dell’opera e nella vicinanza gioiosa di chi la offre e di chi la accoglie. Significa “che anche in ciò che apparentemente è

20 In fondo l’arte è sempre “militante”, non nel senso di un impegno politico-ideologico o del risveglio della coscienza sociale, ma perché partecipa attivamente alla natura della vita e delle cose.

21 Gadamer Hans-Georg, L’attualità del bello, cit., pag. 19.

solo la particolarità dell’esperienza sensibile, e che siamo soliti rapportare sempre ad un universale, d’improvviso, in considerazione del bello, qualcosa ci trattiene, e ci costringe ad indugiare in ciò che appare individualmente”.22

Nel nostro caso quest’indugio da un lato cozza con la velocità di consumo della moda, ma dall’altro è favorito dal fatto che alla foto-grafia,23 in quanto saldo relitto, applichiamo più facilmente un orien-tamento estetico di quanto non siamo in grado di fare con il processo transitorio di un pezzo teatrale o musicale. Ad ogni modo è in questo indugiare l’essenza estetica del bello: da questa pausa produttiva na-sce “una tensione tra la pura spettacolarità della vista e dell’aspetto […] ed il significato che noi intendiamo intuitivamente nell’opera d’arte, e che riconosciamo dal peso che un tale incontro con l’arte ha per noi”.24 Questo peso sarà tanto maggiore quanto più l’indicibile che è proprio dell’arte ci verrà incontro in un libero gioco di conoscenza e quanto più essa concretizzerà nell’opera la sua meravigliosa facoltà di “poter creare qualcosa di esemplare senza produrre qualcosa di vera-mente regolare”.25 Quest’ultimo aggettivo ci permette a questo punto di agganciarci ad un’altra questione del bello che lambiremo più volte in

22 Gadamer Hans Georg, L’attualità del bello, cit., pag. 18.

23 E’ singolare e suggestivo notare il fatto che il nome con cui Fox Talbot brevettò la fotografia nel 1841 era “calotipo”, dal greco kalós, che significa appunto bello!

24 Ibidem, pag. 22.

25 Ibidem, pag. 23.

altri spazi di questo lavoro: quella riguardante i suoi confini oggi tutt’altro che regolari e dunque la straordinaria, progressiva esten-sione che essi hanno subito a partire dall’inizio del XX secolo. Cre-diamo si tratti, in fondo, di evitare facili estremismi assumendo una posizione equilibrata di relativismo tollerante. L’arte, e in maniera ancor più esasperata la fotografia, nell’assoluta convinzione che ci sia bellezza in ogni oggetto, condizione, processo e manifestazione della vita, ha enormemente ampliato la gamma di fenomeni degni di una considerazione estetica. Così ad esempio il brutto ha iniziato a diven-tare un presupposto rilevante per innalzare il tasso di bellezza e ri-scattare lo splendore che è nei pianti del mondo contro l’arte pacifi-cata, cellofanata e cementificata (si pensi a “Guernica” di Picasso o alle violente dissonanze dell’ultimo Beethoven). In tal senso l’opera d’arte è ritenuta tanto più bella quanto maggiori sono stati i germi di negativo, di brutto che ha dovuto vincere. Ma d’altra parte quest’in-clinazione ha prodotto anche innumerevoli ripieghi ed impostori che hanno svalutato l’arte alterandola in mid-cult e camp,26 oltre che ac-centuandone la distanza rispetto ai canoni delle grandi produzioni del passato. In definitiva, crediamo che, per superare questa doppia impas-se estetica sulla qualità intrinimpas-seca dell’arte odierna e sui suoi

26 Mid-cult è l’appellativo con cui molti autori americani si riferiscono alla pseudo arte di mezza tacca diffusa presso il grande pubblico e che riceve spazio sui media e riconoscimenti. Il Camp, invece, non è altro che il kitsch redento anch’esso in pseudo arte per il solo fatto di esser stato ripulito ed inserito in un contesto raffinato da qualche artista affermato.

porti con l’arte classica del passato, il principio a cui ispirarsi sia che le cose non valgono perché sono belle, autentiche e appassionanti, ma sono belle, autentiche e appassionanti perché valgono. Anche in que-sto caso le penetranti e condivisibili riflessioni di Gadamer ci vengo-no in aiuto. Egli infatti, nelle sue osservazioni estetiche, parte pro-prio dal superamento della distanza tra passato e presente e dalla statazione del fatto che “la questione che ci pone l’arte di oggi con-tiene in sé, […], il compito di mettere insieme ciò che si va separan-do, e che si trova in un rapporto di mutua tensione: da un lato l’apparenza storicistica, e dall’altro l’apparenza progressistica”.27 Viene scavalcata così la doppia e limitante illusione di chi vede come significativo solo ciò che proviene dalla tradizione e di chi, al con-trario, pretende ingenuamente di potersela lasciare alle spalle e di partire dallo zero immaginario di un presente che nasce dal nulla. Ed è in tal modo che si scopre che “il vero e proprio enigma che il tema dell’arte ci pone è proprio la contemporaneità del passato e del pre-sente. Niente è puro e semplice preliminare, e niente è pura e semplice degenerazione”.28 Anche in questo risiede il compito ultimo del porta-mento estetico che proponiamo rispetto al tema del bello: nell’equili-brio che riesce a non vincolare il bello ad una semplice determinazione

27 Gadamer Hans-Georg, L’attualità del bello, cit., pag. 49.

28 Ibidem, pag. 50.

formalistica e classicistica e allo stesso tempo lo tutela dall’ebbrez-za di certi avvilenti degradi pseudo-artistici. Siamo in presendall’ebbrez-za di un compito non certo semplice, ma l’arte in genere (e ancor più l’arte rintracciabile nella fotografia di moda) non potrà mai essere un qual-cosa di unilaterale e sempre ci accompagnerà come oggetto filosofica-mente bifronte: al cospetto degli ossimori e dello scompiglio che crea, tra gli estremi del kitsch e dello snobismo estetico, tutto deve essere degno d’interesse estetico.

Sviscerato, almeno in linea di massima, il bello e la sua natura, ci resta adesso da chiarire come esso comunichi con noi attraverso l’opera d’arte. Per farne uno dei baluardi della fotografia di moda, ora che il panorama artistico si è fratturato in una miriade di schegge che ci investono e che a stento sappiamo ricondurre ad un’unità di fon-do, è necessario correggere la mira di un interrogativo di fondo: dal

“cos’è l’arte?” al “quando è l’arte?”.29 Vale a dire: come ci comunica il bello nell’arte? Quand’è che ci tocca e ci accresce nell’avventura di un’esperienza artistica piena? E’ precisamente nel concetto di gioco che si crea quella straordinaria comunione che ricompone tutta la vita-lità dei soggetti e delle pulsioni che fanno dell’arte un’energia tota-le.

29 Goodmann Nelson, Vedere e capire il mondo, Laterza, Bari 1988, pagg. 57-60.

Tav. 1 – Il gioco dell'arte

In effetti il gioco, quale primordiale funzione dell’uomo, si caratte-rizza come un incessante movimento i cui estremi non sono mai mete in cui esso possa riposare, riuscendo tuttavia a coinvolgere la ragione.

In altri termini il gioco ci si presenta, in modo alquanto bizzarro, come un libero automovimento in cui si fa strada una razionalità priva di scopi. In quanto tale esso non potrà mai essere stasi ma sempre e solo mutamento (difatti la sua ripetibilità non è mai ripetitività) o

AUTORE FRUITORE

meglio, per usare la definizione di Gadamer, “trasmutazione in forma”.

Con ciò s’intende il fatto che, nel suo incessante mutamento e nella sua continua rappresentazione, il gioco si delinea come una totalità che si dà in forme sempre nuove e che coinvolge ogni aspetto del suo essere precedente, dei giocatori e della loro identità, trasformandoli.

E in questo si compie l’automanifestazione più evidente e più piena dell’essere: nel mutamento, infatti, si apre la reale comprensione di ciò che si era, attraverso la mediazione di ciò che si è diventati. Nel gioco dell’arte, la trasmutazione risplende al massimo grado, non come incantesimo illusorio, ma come liberazione e accrescimento di se stes-si.30 Per di più l’attività del gioco è fortemente comunicativa, nel senso che è sempre indirizzata ad un qualcosa (nel nostro caso, ad e-sempio, verso l’autore dell’opera, l’opera stessa o un altro “giocato-re”) così da richiedere sempre un giocare insieme che non conosce di-stinzione alcuna tra soggetto e oggetto dell’azione: giocare non è solo un’azione che si compie, ma è anche un evento che si subisce: il gioco è giocare ed esser giocati. In questa libera cooperazione l’opera d’arte ci pone di fronte, senza nessuna distanza, la propria identità

30 Difatti, in Gadamer è centrale l’idea di esperienza come Erfahrung, termine tedesco che ha a che fare con il viaggiare (fahren) ed impli-ca un mutamento. Si può portare l’esempio di un individuo che ha viaggiato molto e che, di ritorno a impli-casa, non può più essere esattamente lo stesso perché ha visto ed assimilato cose che fanno ormai parte del suo essere.

incontaminata31 e non definitiva e ci invita a considerarla in fieri e ad assumerci come compito la sua continua ri/costruzione.

Il gioco dell’arte, in definitiva, dà una forma sempre mutevole ed ariosa alla mediazione di passato e presente, tra l’opera che non è mai evento chiuso e rivive di volta in volta e chi avvicinandola accresce se stesso. Perché nel gioco dell’arte non c’è solo l’oblio di un sogno, ma anzi “il gioco dell’arte è piuttosto uno specchio riaffiorante sem-pre di nuovo dinanzi a noi attraverso i millenni nel quale, spesso in modo sorprendente e spesso in modo estraneo, ravvisiamo noi stessi”.32

31 Nel senso che l’opera ci parla prima di tutto solo e soltanto come opera, al di là dei messaggi a cui può anche rimandare e dei contesti mediati (il museo piuttosto che la rivista) attraverso cui veniamo in contatto con essa.

32 Gadamer Hans-Georg, L’attualità del bello, cit., pag. 184.

Capitolo 2

Documenti correlati