2.1 – Cornici: il senso della rivoluzione fotografica
Moholy-Nagy, uno degli esponenti più autorevoli e per certi versi meno conosciuti delle avanguardie d’inizio ‘900, osservò come “la natu-ra, vista attraverso la macchina fotografica, è diversa dalla natura vista dall’occhio umano. La macchina fotografica influenza la nostra capacità di vedere e crea una ‘nuova visione’”.33 Oggi, di fronte allo straripante dilagare di una fotografia che ha compiuto ormai più di un secolo e mezzo di vita, e di fronte ai suoi stimoli differenziati ed alle sue suggestioni, è quanto mai pressante l’esigenza di una profonda riflessione. Non intendiamo qui tracciare un’ulteriore storia della fo-tografia, quanto indagarne il senso proprio alla luce della sua storia.
I primi sviluppi della fotografia, dopo la sua sconvolgente sco-perta, si limitarono in modo abbastanza modesto a fare di questo lin-guaggio un semplice mezzo di autorappresentazione, confinato soprattut-to nell’angussoprattut-to campo della ritrattistica per arissoprattut-tocratici. Ben pressoprattut-to tuttavia, attraverso la progressiva presa di coscienza delle proprie potenzialità espressive e le aspirazioni a costituirsi come linguaggio
33 Moholy-Nagy Lazlo, Pittura. Fotografia. Film, Einaudi, Torino 1987, pag. 84.
artistico autonomo, la fotografia riconobbe la propria portata rivolu-zionaria. Il percorso di quest’evoluzione non fu lineare, ma pieno di ostacoli: anzi, si può tranquillamente sostenere che queste difficoltà furono direttamente proporzionali all’energia innovatrice che la foto-grafia emanava. Già la chiesa assunse in principio una posizione molto ostile nei confronti dell’apparecchio fotografico, sostenendo che “vo-ler fissare visioni fuggitive […] confina con il sacrilegio. Dio ha creato l’uomo a propria immagine e nessuna macchina umana può fissare l’immagine di Dio”.34 Inoltre la fotografia suscitò reazioni sfavorevo-li, di origine più o meno disinteressata, anche da parte di moltissimi artisti contemporanei che le negavano qualsiasi valore d’arte (basti pensare ai giudizi fortemente negativi di artisti quali Baudelaire o Delacroix). Per non parlare dell’estenuante, quanto improduttivo scon-tro con la pittura, nei confronti della quale la fotografia si poneva come assassina e come liberatrice. Se per alcuni, infatti, la fotogra-fia uccise la pittura, per altri il suo avvento la liberò dai vincoli della rappresentazione incamminandola verso l’astrattismo ed una nuova attenzione per la pura forma ed il colore. Al di là di tutto ciò, la fotografia proponeva rispetto alla pittura e alle cosiddette “belle ar-ti” in genere, istanze completamente nuove, ma fu soltanto con la sua
34 Tale era la posizione della chiesa quale la riporta, prendendo spunto da un articolo del giornale tedesco “Leipziger Anzeiger” del 1939, Gisèle Freund in Fotografia e società, Einaudi, Torino 1976, pag. 64.
progressiva industrializzazione che acquisì una sua autonomia espressi-va (ed in particolare artistica), riuscendo in tal modo a dare alle proprie ambizioni quel seguito maestoso che poi è giunto, evolvendosi, fino a noi.
Parafrasando Susan Sontag,35 possiamo affermare che proprio mentre l’industrializzazione iniziò a permettere le applicazioni socia-li della fotografia, la reazione a queste stesse appsocia-licazioni rafforzò la consapevolezza della fotografia come arte. Pertanto, superate le preoccupazioni socio-politiche, fisiognomiche e scientifiche (che si riscontrano, ad esempio, nelle “catalogazioni archetipe” di Sander36 o nelle stupende immagini di Blossfeldt che mostrano le bellezze micro-scopiche dei vegetali), la fotografia divenne creativa. Divenendo tale, dovette cominciare ad interrogarsi sul proprio statuto e sulla defini-zione delle proprie energie e, così facendo, portò avanti una lenta ma inesorabile ridefinizione del nostro rapporto con l’arte e della nostra grammatica visiva e cognitiva.
35 Sontag Susan, Sulla fotografia, Einaudi, Torino 1978, pag. 7.
36 Il fotografo tedesco August Sander varò nel 1911 un rigoroso progetto scientifico che, partendo dal presupposto che la macchina fotogra-fica rivela le maschere sociali implicite nei visi, catalogò fotografotogra-ficamente il popolo tedesco attraverso soggetti rappresentativi della pro-pria classe sociale o professione.
2.1.1 – Riproducibilità tecnica, fotograbilità, temporalità frantumata ed impronta fotografica
Ma in cosa consiste, in fondo, la rivoluzione fotografica che ab-biamo richiamato nel titolo di questo paragrafo? Cos’è che ha sconvolto della nostra percezione e conoscenza del mondo e delle sue rappresenta-zioni? Gli aspetti che ci preme qui sottolineare, rispetto ai traguardi che questo lavoro s’impone, sono essenzialmente quattro:
la riproducibilità tecnica dell’opera – E’ proprio con l’avvento della fotografia che la riproducibilità, secondo le ben note teorie di Ben-jamin,37 provoca una profonda rottura tra arte antica e moderna (e poi contemporanea). Se escludiamo, infatti, alcune forme di “serialità”
dell’arte passata (ad esempio a proposito di gran parte dell’arte ce-ramica sia greca, sia orientale), notiamo come la possibilità di ri-produrre al posto di un evento unico una serie quantitativa di eventi abbia distrutto quella che lo studioso tedesco aveva denominato come
37 Walter Benjamin, L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, Einaudi, Torino 1966.
l’”aura” dell’opera d’arte.38 Ciò che la fotografia ha contribuito a sopprimere è dunque l’hic et nunc dell’opera d’arte, la sua autenti-cità ed irripetibilità della forma originale e del luogo in cui si esprime. Per chiarire questo discorso, Benjamin porta l’esempio del simulacro che riposava nascosto nella cella dei templi e che, pur vi-sibile dal solo sacerdote, possedeva integro il suo valore per tutta la comunità. Ora la fotografia, con la sua capacità infinita di ri-produzione, sottrae il riprodotto all’ambito della tradizione e ciò diventa la condizione necessaria alla democratizzazione dell’arte per le masse. Ciò porta con sé delle conseguenze altamente correlate: la riproducibilità avvicina, come abbiamo detto, le masse all’arte (e all’immagine in generale) consentendo una maggiore identità e prossi-mità del fruitore con l’opera. Questa vicinanza il più delle volte non è di tipo fisico, in quanto la serialità introduce una nuova for-ma di esperienza di ciò di cui in realtà non abbiamo avuto esperienza diretta. Attraverso questa singolare forma di “vicinanza a distan-za”,39 l’opera artistica e non, pervade il mondo sotto forma di copia, operando un’incredibile dilatazione delle possibilità del gusto e
38 Dobbiamo tuttavia riconoscere che l’aura di cui parla Benjamin non esce del tutto distrutta nemmeno con la fotografia. Infatti, il piacere dato da una stampa ricavata dal negativo originale (e i veri cultori della fotografia lo sanno bene) non è minimamente paragonabile a quello di una qualsiasi copia posteriore.
39 “Rendere le cose, spazialmente e umanamente, più vicine è per le masse attuali un’esigenza vivissima.[…] Ogni giorno si fa valere in modo sempre più incontestabile l’esigenza a impossessarsi dell’oggetto da una distanza il più possibile ravvicinata nell’immagine…”, Walter Benjamin, L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, cit., pag.47.
dell’estetica all’interno dei vari contesti sociali. Se, infatti, le ipotesi di Benjamin circa la funzione sociale dell’arte (quella che, per intenderci, contrapponeva il futurismo con matrice aristocratica di Marinetti al realismo socialista del teatro impegnato di Brecht) hanno oggi perduto gran parte del loro significato, inversamente quelle dell’estetizzazione della vita sociale e politica si sono in buona misura verificate in quell’arte di massa che è giunta fino a noi.40
la fotograbilità – Fin dalle origini e poi con modalità sempre più pressanti, la fotografia ha esaltato la propria inclinazione alla cattura del maggior numero possibile di soggetti, sulla scia di un’ambizione che ad esempio nella pittura non è mai stata così mae-stosa. La fotografia si autotrascina nell’immenso disordine di ogget-ti, di tutti gli oggetti del mondo, lasciando aperti gli spazi della scelta: si afferrano gli eventi che vale la pena acciuffare negli a-bissi di un mare senza costa. La presenza degli interventi della mac-china fotografica suggerisce che il tempo e lo spazio sono fatti di avvenimenti e soggetti degni di attenzione; l’onnipresenza, specie odierna, di questi interventi induce a pensare che tutto è degno d’attenzione. Sarà poi l’acutezza dello sguardo di chi fotografa e di
40 Cfr. paragrafo 5.1.
chi legge l’immagine prodotta ad innalzare tale intervento sul reale e a conferirgli importanza e/o immortalità. Parallelamente, è proprio nell’assenza di quest’acutezza di sguardi che si annidano i rischi e le potenzialità negative del mezzo fotografico. Ad ogni modo la foto-grafia ha contribuito in modo decisivo a ridefinire gli oggetti dell’arte e, tessendo le trame fra le infinite opzioni dell’oggetto/
soggetto e le altrettanto infinite possibilità dell’espressività, ha partecipato alla caratterizzazione dell’estetica moderna e contempo-ranea e di ciò che è degno (se adeguatamente sviscerato) di suscitare emozioni, in arte come negli altri campi del sentire umano.
La temporalità frantumata – Nell’esaltazione del carattere mimetico del mezzo fotografico (peraltro fondamentale, come metteremo in ri-salto nel prossimo punto), troppo spesso è stata relegata in secondo piano un’altra sua basilare specificità: la sua relazione di rottura con il tempo,41 in particolare con quello della nostra visione fisio-logica. Questa, infatti, ha un carattere di continuità, paragonabile al flusso e al movimento filmici, che l’irreale fissità dell’immagine fotografica spezza, isolando all’interno del continuum temporale quel frammento che si è soliti definire come istante. In tal senso la
41Riguardo il rapporto tra fotografia e tempo, illuminante e suggestiva è l’affermazione secondo cui “…in origine il materiale fotografico derivava dalle tecniche dell’ebanisteria e della meccanica di precisione: in fondo, gli apparecchi fotografici erano degli orologi da guarda-re…”, che ritroviamo in Roland Barthes, La camera chiara. Nota sulla fotografia, Einaudi, Torino 1980, pag. 17.
tografia, oltre alla sua innegabile dimensione realistica, assume an-che un carattere d’irrealtà (laddove il tempo reale non ha soluzione di continuità) ed iper-realtà (in quanto dà visibilità percettiva a quegli infiniti istanti che altrimenti non potremmo cogliere). E’ e-vidente come questa simultanea condizione d’irreale ed iper-reale si presta bene ad una fotografia di moda che di solito tende all’idea-lizzazione e che è l’espressione diretta della moda intesa come “fab-brica di sogni”.
l’impronta fotografica – Eliminiamo ora qualsiasi prefisso dal termi-ne “reale” e torniamo per un attimo al carattere mimetico/imitativo dell’immagine fotografica. La fotografia ha fama di essere la più alistica, e dunque la più superficiale, delle arti mimetiche. In re-altà proprio per questa sua oggettività, la fotografia prende parte in qualche modo a quella che potremmo definire la sua particolare forma di “magia del reale”. Infatti, una foto non è mai soltanto im-magine o una semplice interpretazione della realtà, come avviene in un quadro, ma è anche un’impronta, come l’orma di un piede o una ma-schera ottenuta dal calco di un viso. Nello sguardo regale di Lisa Fossangrives fotografata da Irving Penn (Vedi Fig.IX) o nell’espres- sione e nella postura di Yves Saint Laurent catturate da Helmut Newton in un vicolo di Parigi (Vedi Fig.XXII), resta qualcosa che non
si risolve unicamente nella testimonianza dell’arte di questi due grandi fotografi. Permane qualcosa che esige il nome di quei luoghi e di chi lì ha vissuto il momento di quello scatto,42 in un istante che pur imprigionato dall’effigie è ancora reale e non potrà mai risol-versi totalmente in arte. Mentre un quadro non fa mai nulla di più che interpretare il suo oggetto artistico, una fotografia non fa mai niente di meno che registrare un’emanazione materiale del suo ogget-to: le sue onde luminose riflesse.43 Pertanto, se un quadro falso fal-sifica la storia dell’arte, una fotografia contraffatta falfal-sifica la realtà! Questa “consustanzialità” della fotografia rispetto al suo soggetto la rende suo diretto prolungamento, un mezzo potente per controllarlo e una forza impareggiabile per emozionare chi, in un mo-do o nell’altro, da quel soggetto si sente attratto.
L’ipotesi di questa particolarissima presenza del soggetto nella fotografia (evento che ne rappresenta l’autenticazione), trova sostegno nel risaputo timore che le popolazioni primitive hanno ancor oggi nel farsi fotografare, ritenendo che ciò rubi loro l’anima. Di-fatti, quanto più andiamo indietro nella storia, tanto meno è netta la distinzione tra immagine e realtà: nelle comunità primitive la co-sa e la sua immagine erano due manifestazioni solo fisicamente
42 Tant’è che la fotografia, in qualità di particolare assoluto, è sempre e comunque “il Tale (la tale foto, e non la Foto)”, Barthes Roland, La camera chiara. Nota sulla fotografia, cit., pag. 6.
43 “La fotografia è insieme una pseudopresenza e l’indicazione di un’assenza”, Sontag Susan, Sulla fotografia, cit., pag.15.
stinte di un'unica entità o spirito. In definitiva, l’originalità della fotografia che qui abbiamo cercato di evidenziare, sta nell’aver resuscitato in chiave laica questa condizione primordiale dell’immagine.
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Da questa breve digressione è certamente ora più chiara l’importan-za dell’invenzione di Niepce e ci è più facile ricondurla all’attuale stato di cose. In questo senso possiamo affermare che una società di-venta “moderna” quando una delle sue attività principali consiste nel produrre e consumare immagini; quando queste immagini, che delimitano le nostre rivendicazioni sulla realtà e sono surrogati di esperienze dirette, diventano indispensabili al buon andamento dell’economia, alla stabilità sociale e all’appagamento delle esigenze personali. Ebbene, per il secolo appena trascorso e per quello appena cominciato, per la nostra società opulenta, dissipatrice ed irrequieta, la fotografia rap-presenta (e con tutta probabilità continuerà a farlo) l’arte quintes-senziale ed uno strumento indispensabile per la cultura di massa. In passato l’insoddisfazione per la realtà si esprimeva aspirando ad un
“mondo nuovo”; oggi quest’inquietudine si manifesta nell’ossessione a
voler riprodurre questo mondo. Inoltre la tecnologia, con il suo conti-nuo intervento che ha reso la fotografia indipendente dalla luce (raggi infrarossi), dalla bidimensionalità (olografia), dall’attesa e dalla professionalità (la Polaroid e le macchine ultrasofisticate che fanno tutto da sole) e ne ha permesso il movimento (il cinema) e la trasmis-sione simultanea a distanza (la televitrasmis-sione), questa tecnologia ha fat-to del mezzo fofat-tografico uno strumenfat-to di potenza incomparabile per de-codificare il comportamento, prevederlo e controllarlo. A livello popo-lare la fotografia è oggi una forma di distrazione diffusa quanto il sesso ed il ballo e non è quindi da intendersi come arte, ma come rito sociale (l’album di nozze) e difesa dal vortice del tempo (le foto ri-cordo). Tuttavia, da un altro punto di vista, una stampa è un manufatto che in un mondo cosparso di relitti fotografici può partecipare contem-poraneamente del prestigio dell’arte e della magia del reale: ha la ca-pacità insomma di mescolare, in un’unica affascinante pozione, pillole d’informazione e brandelli di fantasia creativa.
Senza la fotografia nessuno di noi avrebbe potuto vedere la super-ficie lunare e pensate solo per un istante all’incredibile sensazione che proveremmo nell’osservare una fotografia di Platone, Leonardo o Shakespeare! Tra vari decenni, ammirando il ritratto fotografico del tale o del talaltro genio del nostro tempo, per i nostri figli sarà del tutto naturale sperimentare una simile emozione…