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Andrea Giorgi. L immagine sensibile e la sensibilità all immagine. Estetica ed emozione nella fotografia di moda tra arte e business

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Libera Università Maria SS. Assunta di Roma

Facoltà di Lettere e Filosofia

Corso di laurea in Scienze della comunicazione Anno Accademico 2002-2003

Andrea Giorgi

___________________________________________________________________________

L’immagine sensibile e la sensibilità all’immagine. Estetica ed emozione nella

fotografia di moda tra arte e business

___________________________________________________________________________

Relatore:

Prof.ssa

Iannotta Daniella

Correlatore:

Prof.ssa

Marchetti Cristina

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“Mallarmé diceva che al mondo tutto esiste

per finire in un libro. Oggi tutto esiste per finire in una fotografia.”

Susan Sontag

Fare fotografia di un caleidoscopio .

William H. Fox Talbot

(appunto manoscritto, 18 febbraio 1839)

Moda. Io sono la Moda, tua sorella.

Morte. Mia sorella?

Moda. Sì: non ti ricordi che tutte e due siamo nate dalla Caducità?

Morte. Che m’ho a ricordare io che sono nemica capitale della memoria.

Moda. Ma io me ne ricordo bene;

e so che l’una e l’altra tiriamo parimente a disfare e a rimutare di continuo le cose di quaggiù, benché

tu vada a questo effetto per una strada e io per un’altra.

G. Leopardi

(Operette morali, Dialogo della Moda e della Morte)

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Indice

Introduzione

Cap. 1 - Proposte: i fattori discriminanti

1.1 – Introduzione

1.1.1. - Premessa metodologica:

l’estetica regionale fotografica

1.1.2. - Premessa di raccordo: comunicazione, arte e business: contaminazioni

1.2 - L’emozione: passione, “punctum” e avventura

1.3 - Il portamento estetico:

il bello e il gioco

(4)

Cap. 2 – Il medium Fotografia

2.1 - Cornici:

il senso della rivoluzione fotografica

2.1.1. - Riproducibilità tecnica,

fotograbilità, temporalità frantumata ed impronta fotografica

2.2 - La fotografia è un’arte?

Cap. 3 – La moda

3.1 - Cornici: l’approccio sociologico 3.2 - Il mercato della moda in Italia:

un’analisi quantitativa

Cap. 4 – L’incontro: la fotografia di moda

4.1 - Cornici:

breve storia dell’immagine di moda

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4.1.1 - Le origini ed i primi maestri

4.1.2 - Dallo studio alla realtà 4.1.3 - Il Dopoguerra: nuove tecniche

e nuovi stili espressivi 4.1.4 - Dal mito del fotografo di moda

agli sviluppi attuali

4.2 - Peculiarità e funzioni della fotografia di moda nello spazio comunicativo

4.2.1 - La contestualizzazione a molteplice livello

4.2.2 - Il fine: la supremazia della funzione di appello sulla funzione descrittiva 4.2.3 - Sintassi e retorica del messaggio

visivo

4.3 - Il canale: le riviste di moda:

dati e profili

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Interludio – Figure

Cap. 5 - Rischi e strategie

5.1 - I pericoli: bombardamento ed assuefazione 5.2 - Strategie di differenziazione

Conclusioni

Bibliografia cartacea Bibliografia elettronica Indice delle figure

Indice delle tavole

NOTA REDAZIONALE

La presente tesi si compone di 230 pagine

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Introduzione

Nel Rinascimento, di un uomo accorto si diceva che avesse “naso”.

Oggigiorno, di una persona in grado di cogliere e valutare le differen- ti istanze che gli si pongono davanti, si dice che ha “occhio”. E’ que- sta prima rivoluzione, di tipo sensoriale, che ci ha spinti in questa trattazione a parlare di fotografia. Il motivo di ciò risiede nella convinzione che proprio questo mezzo, avendo mutato la faccia e la psi- che del mondo, supera di gran lunga altre chiavi di volta della storia ed abbia prodotto delle conseguenze di tale impatto da creare una cul- tura visiva completamente nuova con delle implicazioni dalla portata sconvolgente. L’inventore della fotografia, Nicéphore Niepce, fece sforzi disperati per affermare la sua idea e morì nella miseria. Oggi pochi conoscono il suo nome, ma la fotografia è diventata il linguaggio più comune della nostra civiltà. E quale altro linguaggio se non quello della moda è attualmente così onnipresente sulla nostra retina frastor- nata? Eh sì, perché oltre che affascinato, il nostro occhio è continua-

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mente stordito da un “ingorgo visivo” di cui moda e fotografia sono i promotori principali.1

L’unione di questi due mostri e profeti del nostro tempo, i loro rapporti, la loro estensione senza confini ed i loro esiti ci sembrano degni di un’analisi rigorosa. Tale analisi si propone di adottare un approccio interdisciplinare che sfrutti gli apporti della semiotica, della filosofia e dell’estetica, della sociologia, della psicologia, della storia e del marketing, riconducendoli di volta in volta agli am- biti più specifici della fotografia e della moda. Questo perché la ric- chezza di punti di vista aiuta sempre; ancor di più in questo caso in cui si sta fondamentalmente parlando di comunicazione (oltre che di fo- tografia, moda, arte ed economia). E la comunicazione è in sé un’inter- disciplina. Questa posizione esige però che questo essere “inter” non si svaluti nell’essere ovunque e in nessun luogo.

Esiste una letteratura sterminata riguardo la moda, una letteratura smisurata riguardo la fotografia e lo stesso vale per l’arte ed anche per le più recenti formulazioni del marketing, ma troppo spesso i con- fini di queste discipline sono poco disponibili alle intrusioni. Tra i

1 “…perché la fotografia ha un occhio solo, e questo pure privo di movimento. E mentre la fotografia guarda e crede di vedere, capita a lei come all’ubriaco, che crede di portarsi la bottiglia alla bocca, e invece se la poggia alla tempia”. Alberto Savinio, Fasti e nefasti della foto- grafia, in Diego Mormorio (a cura di), Gli scrittori e la fotografia, Editori Riuniti, Roma 1998, pag. 37.

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propositi di questo studio c’è quindi anche quello di fondere e siste- matizzare competenze e caratteri comuni.

Ad ogni modo lo scenario che ci si presenta davanti è quello compo- sto dai quattro campi di forza di fotografia, moda, arte ed economia.

Ciascuno di essi è immaginabile (magari con l’aiuto dello schema propo- sto qui sotto) come una sfera mobile i cui confini sono costituiti dal- la sostanza più permeabile che si conosca.

Fotografia

Economia

Arte Moda

Arte

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Ne scaturisce una commistione ed una contaminazione di forme, si- gnificati ed intenzioni il cui senso non è intuibile se si tralascia anche uno solo di questi quattro territori sfuggenti.

L’anima di tutto ciò è nel puzzle del loro incontro ed è tra queste tessere che questo lavoro pone i propri obiettivi e quindi la propria ragion d’essere. All’interno di questo mosaico, infatti, abbiamo isola- to due tasselli che sono risultati subito essere i due discriminanti imprescindibili per una fotografia di moda che voglia essere significa- tiva nei confronti di chi la produce e di chi la fruisce. Nel mondo del fashion non mancano certo il denaro, né le professionalità, né la tec- nologia e nemmeno i canali per un’adeguata visibilità (le riviste prima di tutto). Tuttavia in troppi casi manca, ed è un paradosso grottesco, una certa attenzione verso l’estetica e l’emozione. Ci riferiamo ad un’attenzione autentica che sposti il fulcro di tutto il sistema in re- lazione a questi due principi.

Per estetica intendiamo le possibilità d’essere del “Bello” in fo- tografia ed in particolare ci sembra fondamentale (oltre alla straordi- naria attuale dilatazione delle sue forme e combinazioni: dal classico al kitsch all’artificiale al surreale al bello d’uso nel design, ecc…) la dimensione del “gioco” quale momento profondo di costruzione del senso estetico. Riguardo all’emozione vogliamo parlare, oltre che di semiotica delle passioni, di fotografia di moda come avventura e come

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punctum (nell’accezione illuminante di Barthes nei confronti di una fotografia che rispettivamente “mi avviene” e “mi punge”):2 in defini- tiva, ci riferiamo alle possibilità della fotografia di moda di essere guidata, tanto nel contesto produttivo quanto in quello ricettivo, dal pathos emotivo, dall’amore che lascia ad un’analisi successiva qualsia- si vivisezione culturale. Mi pongo davanti ad una foto in modo selvag- gio: se essa mi colpisce e mi emoziona resterà in me per sempre al di là di qualsiasi approfondimento culturale, storico, sociologico poste- riore. E’ il cuore della fotografia e il cuore dell’uomo: il cuore dell’uomo non come muscolo cardiaco ma come intima sensibilità; la fo- tografia non come problema, ma come ferita.

Tenendo sempre a portata di mano questi due momenti, come se fosse- ro due bussole e al tempo stesso due mete, la struttura di questo lavo- ro prende il via dal medium fotografico per analizzare la portata della sua rivoluzione e le sue peculiarità e funzioni all’interno dello spa- zio comunicativo ed economico/commerciale. Si passa poi alla trattazio- ne del fenomeno moda in sé da un punto di vista sociologico (circoscri- vendo ovviamente l’amplissima letteratura), tenendo in conto anche gli stereotipi e le deviazioni di quello che i suoi detrattori definiscono

“l’impero dell’effimero” e dando uno sguardo al mercato della moda come business. Alla luce di tutto ciò si giungerà finalmente all’incontro:

2 Barthes Roland, La camera chiara.Nota sulla fotografia, Einaudi, Torino 1980.

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la fotografia di moda. Se ne traccerà un breve profilo storico e ver- ranno affrontate le sue specificità, la pari dignità raggiunta rispetto agli altri campi fotografici, le relazioni tra artisticità e committen- za, i canali di distribuzione, gli ultimi sviluppi ed i modelli veico- lati. Per concludere verrà dato rilievo, tenendo presenti gli attuali ed incombenti pericoli dati dall’eccesso di stimoli e dall’assuefazio- ne, a possibili strategie di differenziazione (rispetto al marketing) e di sperimentazione (rispetto ad arte e comunicazione). E ovviamente, essendo questo l’obiettivo ultimo di questo lavoro, verranno riproposti i due fattori discriminanti sopra citati (estetica ed emozione) quali fondamenti dell’immagine fotografica presente e futura.

Pur essendo per sua natura una riflessione fondamentalmente teori- ca, questa tesi farà ampio ricorso alle immagini: naturalmente non come ausilio o gruccia della parola scritta,3 ma come referente immediato ed insostituibile e come doveroso omaggio a ciò che ha saputo esprimere tanti talenti e tante idee che hanno scritto la storia per immagini del nostro tempo.

3 “Per abolirlo o per fermarlo, per abolirlo fermandolo, la fotografia si può dunque dirla una guerra contro il tempo: non illustre, umile e quotidiana piuttosto; ma appunto nel suo essere umile, nel suo essere quotidiana, nel suo essere oggi ovunque in agguato e invadente, in un certo senso violenta, raggiunge e sorpassa – anche nei suoi risultati più grezzi, più brutali o banali – le altre forme, già illustri, di guerra contro il tempo: la storia, il romanzo”, prefazione a Diego Mormorio (a cura di),Gli scrittori e la fotografia, cit., pag.IX.

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Un’ultima precisazione: la forza che muove questo studio risiede nella consapevolezza dell’immensa complessità dell’argomento, nonché della povertà di studi sistematici al riguardo. Parallelamente tutta- via, questa stessa forza si nutre del fatto che appare del tutto insen- sato fare di questa complessità un facile alibi e che risulta molto più costruttivo affrontare questo tema con passione. E’ quindi l’equidi- stanza tra giustificazioni, coscienza e amore per l’argomento il vero motore di questa ricerca.

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Capitolo 1

Proposte:

i fattori discriminanti

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1.1 – Introduzione

Nello svolgimento dei capitoli successivi tenteremo di precisare progressivamente le due macroentità in oggetto (fotografia e moda). A tal fine, riguardo la fotografia approfondiremo il suo apporto in ter- mini di rivoluzione linguistica, le sue specificità espressive e le sue potenzialità artistiche; rispetto alla moda cercheremo di illustrare le sue implicazioni sociologiche, le sue negatività (presunte e reali) ed il particolare peso economico che essa assume in Italia. Successivamen- te, operando con metodo deduttivo, andremo oltre la loro considerazione isolata per precisare il loro suggestivo matrimonio nella fotografia di moda. Ne tracceremo un breve profilo storico e tenteremo di indagarne i meccanismi espressivi e le strategie comunicative, le valenze e i mo- delli culturali che veicola e i media di cui si serve, legandoci di volta in volta agli esiti concreti e alle opere che meglio ne hanno sa- puto rappresentare l’essenza. Ora, prima di sviscerare quello che nelle nostre ipotesi costituisce (o almeno in alcuni casi, dovrebbe costitui- re) la natura più intima della fotografia di moda, sono necessarie al- cune puntualizzazioni preliminari: nello specifico, una metodologica e l’altra di raccordo.

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1.1.1 – Premessa metodologica: l’estetica regionale fotografica e l’estetica globale dell’immagine

Dal punto di vista metodologico, è opportuno precisare come la fo- tografia, ed in particolare quella di moda, rappresenti soltanto una delle molteplici esplicitazioni possibili del concetto più ampio d’immagine. Esiste l’immagine fotografica, quella pittorica, quella virtuale. Esiste l’immagine frutto della rappresentazione e quella frutto della simulazione, quella unica e quella multimediale, fissa e in movimento, concreta e mentale, e così via. In tal senso, l’estetica della fotografia si configura come un tassello di una più estesa este- tica dell’immagine da costruire induttivamente proprio a partire da questa ed altre porzioni costitutive. In altri termini, l’estetica fo- tografica è uno dei molteplici anelli concentrici che s’intersecano e precisano la natura complessa e complessiva dell’immagine. Non è compi- to di questo lavoro definire lo statuto estetico attuale dell’immagine considerata nella sua totalità, ma queste riflessioni preliminari ri- sultano fondamentali se si pensa al peso che la fotografia riveste e a quello che vorrà rivestire in futuro rispetto al “visivo” globale che ci circonda. Ignorare tutto ciò, e di conseguenza perdere la dimensione

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che soggiace all’intuizione di uno scatto, concepire male la realizza- zione di un altro o comprenderlo in modo distorto in fase di ricezione, rappresenta un danno smisurato da un punto di vista strettamente econo- mico e soprattutto in una prospettiva sociale e culturale.

1.1.2 – Premessa di raccordo:

comunicazione, arte e business: contaminazioni

Al di là di questo, per legittimare in modo critico questa tesi e insieme le aspirazioni di una fotografia di moda che voglia ancora es- sere espressione piena del proprio tempo, ci sembra inevitabile allac- ciare la dimensione estetica della fotografia fashion alla sua più evi- dente funzione strumentale e comunicativa. Questa, come vedremo più ap- profonditamente nel paragrafo 4.2.2, è finalizzata a svolgere soprat- tutto una funzione d’appello emotiva: pertanto tra i due fattori che abbiamo definito discriminanti il versante emozionale si difende da so- lo ed è unicamente il momento estetico a dover essere in qualche modo legittimato e proposto con decisione quale vitale possibilità espressi- va. In maniera più semplice: non sono i diretti scopi strumentali a rendere efficace una comunicazione fotografica nel campo della moda, ma

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sono gli autentici impulsi estetici ed emotivi a renderla, oltre che efficace, di valore. Solo in tal modo la fotografia di moda potrà evi- tare di risolversi semplicemente in pubblicità mediocre e potrà rin- tracciare la propria specificità: quella di non essere solo strumento di vendita; quella di non essere “solo” arte. Inoltre, questa polifun- zionalità della fotografia di moda (strumentale-comunicativa, emotiva ed estetica) rappresenta un efficace antidoto contro l’idea di “compen- sazione” di cui tanto si è abusato in una grande quantità di tentativi di spiegazione dell’arte moderna e dell’estetica filosofica. Infatti, secondo Odo Marquard1, a partire dall’Illuminismo e contro il predomi- nio della ragione, l’arte e l’estetica avrebbero assunto il compito di compensare il disincanto del mondo indotto dall’incalzante progredire della scienza e della tecnica, andando a svolgere una funzione di ri- sarcimento e salvataggio dei diritti della sensibilità e della bellez- za. Queste avrebbero trovato così rifugio nella creazione artistica, sganciandosi progressivamente dalla realtà e dal quotidiano. Al contra- rio, sempre secondo Marquard, l’arte contemporanea nel tentativo di ri- cucire questo strappo ha trasformato la centralità del momento estetico in un’eccessiva estetizzazione della realtà che ha finito per essere paradossalmente un potente anestetico che innalza il reale all’ebbrezza di un sogno artistico illusorio e degrada la tensione artistica verso

1 Marquard Odo, Estetica e Anestetica, Il Mulino, Bologna 1994.

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il basso. La moda, e il mezzo fotografico al suo servizio, sono piena- mente esposti ai rischi di questi eccessi e spesso cadono nella trappo- la;2 tuttavia, proprio l’opportunità della fotografia di moda di pre- sentarsi come attività liminare e giocare con questi suoi confini sfug- genti permette ad essa di attestarsi di fronte a chi la osserva come un qualcosa di incisivo. Chiaramente solo a patto di un’assunzione non marginale di un approccio estetico e al fine di porsi quale terreno di ricomposizione ideale tra alto e basso, tra commercio e arte, tra con- sumi e contemplazione, tra tutto ciò insomma che troppo spesso si sfio- ra senza vera partecipazione. Di modo che, tra le altre cose, il siste- ma dell’arte si alleggerisca inserendovi quello della moda e viceversa quello della moda acquisti spessore inserendovi il sistema dell’arte.

2 Cfr. paragrafo 5.1.

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1.2 – L’emozione: passione, “punctum”

e avventura

Nel paragrafo precedente abbiamo appena avuto modo di notare, tra le altre cose, come gli aspetti emotivi nella comunicazione pubblicita- ria della moda non abbiano bisogno di alcuna giustificazione, essendo il nucleo della sua fondamentale funzione d’appello.3 Abbiamo cioè or- mai piena consapevolezza del fatto che “non si compra un vestito o un paio di scarpe ma uno stile di vita e un profondo contatto emotivo”.4 Ciò non significa che proprio a questi aspetti, ai suoi meccanismi e alle sue implicazioni non si possa e non si debba prestare particolare attenzione attraverso un ulteriore approfondimento, di tipo prevalente- mente semiotico, che ne ribadisca l’assoluta centralità. Non si tratta di riproporre la vecchia contrapposizione tra cognitivo e passionale,5 ma al contrario di riproporne l’integrazione (perché tale è la reale natura della loro relazione) liberandone le forze da qualsiasi impac- cio.

3 Cfr. paragrafo 4.2.2.

4 Klein Naomi, No Logo, Baldini&Castaldi, Milano 2001, pag.134.

5 E tanto meno vogliamo riproporre quella (ancora più sottile, ma ancora più inaccettabile) tra approccio emotivo ed estetico, come vedre- mo meglio nelle conclusioni di questo lavoro.

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In tema di passione, basilare è stato l’apporto della semiotica greimasiana6 che per prima ha posto l’accento sul fatto che rispetto al consumatore la persuasività della pubblicità si muove su un piano non di un semplice “far fare”, ma di un sottile e profondo “far volere”. E’

tutto qui il grande balzo da una semiotica degli “stati di cose” ad una semiotica degli “stati d’animo”, che analizzando la presenza di una di- mensione specificatamente patemica all’interno di qualunque forma di significazione ripropone la passione quale componente fondamentale di ogni tipo di discorso: da quello letterario a quello televisivo, da quello teatrale a quello fotografico-pubblicitario. Si può quindi par- lare, riguardo alla fotografia pubblicitaria di moda, di “comunicazione appassionata”.

A questo punto si può penetrare ancora più a fondo la natura della passione nella fotografia di moda sia rispetto alle strategie e alle manifestazioni testuali concrete che si danno in ogni singola opera,7 sia rispetto alla sua origine timica (dal greco thýmos, ‘anima’) in termini di ritmo, intensità e tensione. Difatti la passione si configu- ra innanzitutto come un movimento di un soggetto verso un oggetto com- posto da tre elementi:

6 Ci riferiamo qui in particolare a Greimas J.Algirdas e Fontanille Jacques, Semiotica delle passioni, Bompiani, Milano 1996.

7 Ciò si collega ai meccanismi sintattici e retorici del messaggio visivo (Cfr. paragrafo 4.2.3).

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- l’intensità, quale grado del coinvolgimento passionale dei soggetti in gioco;

- la tensione, quale inquietudine interna e difficoltà di mettere a fuoco la propria dimensione patemica; e soprattutto

- l’investimento timico profondo, quale orientamento della passione del soggetto rispetto alle seguenti alternative:

DIAFORIA

EUFORIA (coinvolgimento) DISFORIA

(es. gioia) (es. sgomento)

NON-DISFORIA NON-EUFORIA

(es. indifferenza) (es. abulia)

ADIAFORIA

(distacco)

Ovviamente ciò che ci interessa in questa sede è l’investimento diafo- rico, anche perché le strategie pubblicitarie di tipo puramente adiafo- rico (ad esempio quelle argomentativo-informative) sono da tempo cadute in disuso. Comunque sia, nel momento in cui la passione comunicata vie- ne recepita dal destinatario essa esce dal soggetto svelandosi all’esterno, nel corpo, trasformandosi in emozione. E’ questo il culmi-

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ne in cui l’immagine fotografica manifestandosi più o meno somaticamen- te colpisce la sensibilità, l’intimità più profonda del soggetto, pron- to finalmente al libero gioco con l’opera.8

Tuttavia c’è un altro aspetto da considerare (con cui credo si pos- sa procedere oltre le evidenze raggiunte da Greimas e dalla semiotica delle passioni in generale), approfondendo il rapporto che lega la pro- gettualità e l’istante poetico/emotivo della fotografia di moda; il suo essere accolta culturalmente per vivisezione o emotivamente come trau- ma. Difatti essa, da un lato si caratterizza come un’attività per pro- getto rigorosa e altamente pianificata (basti pensare alle fasi preli- minari di ideazione, ai briefing, all’allestimento dei set); dall’al- tro, per la natura stessa della macchina fotografica, essa non è mai del tutto prevedibile e nell’istante dello scatto può sempre giungere (in modo più o meno casuale) allo sconvolgimento emotivo non mediato.

In altri termini, nella fotografia di moda coesistono il “cognitivo or- ganizzato” e “l’emotivo impulsivo”: è quest’ultimo momento che non la- scia scampo e che convive perfettamente con quello che abbiamo proposto come l’altro grande faro della fotografia di moda (la tensione esteti- ca), assieme al quale moltiplica la potenza dell’immagine in maniera esponenziale. Si tratta dell’illuminante distinzione di Barthes fra la

8 Cfr. paragrafo 1.3.

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fotografia considerata come “studium” e/o come “punctum”;9 distinzione che assume uno spessore ed una validità ancor maggiori proprio quando viene inserita in un discorso sulla moda. Ciò che Barthes intende con studium è quell’interesse “medio” ed “educato” per la fotografia che scaturisce, quasi per addestramento, da una lettura culturale e rigida- mente codificata che può portare ad un piacere sottile, ma “che non è mai il mio godimento o il mio dolore”.10 Al contrario, il punctum è quel particolare nascosto che si svela, a volte maleducato, altre più sofi- sticato, ma che può anche riempire tutta la fotografia in termini di atmosfera. E’ comunque quella fatalità che nasce dalla sensibilità au- tentica del fotografo e dello spettatore e che porta con sé una sorpre- sa. Se lo studium è una evidenza che fa pensare o riflettere (cioè in- forma), il punctum è una sfumatura che sorprende e punge (cioè emozio- na!). Per essi non si può stabilire una regola di connessione, ma se entrambi si ritrovano in una foto si deve sempre parlare di una co- presenza. Tanto per fare qualche esempio, si potrebbe dire che nella fotografia di Horst (Vedi Fig.II) il punctum è dato da quel senso di assoluta leggerezza, quasi una vaporosità, che va oltre la perfezione della posa e dell’illuminazione. Diversamente nella foto di Khazem (Ve- di Fig.XIII) il punctum potrebbe trovarsi nella riga rossa verticale

9 Barthes Roland, La camera chiara. Nota sulla fotografia, cit., in particolare pagg. 27-61.

10 Ibidem, pag. 29.

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delle calze, mentre lo studium è nella mostruosità deformante della ma- schera. Ancora: nell’immagine di Schoerner (Vedi Fig.XLIII) lo studium dato dalle superfici levigate, dai colori violenti e dall’intera perfe- zione digitale, è disturbato positivamente dall’“insicurezza” cromatica delle labbra e delle gengive che paiono addolorate. Si tratta, ad ogni modo, di sensibilità personale, di un’intima lettura che si muove sem- pre tuttavia da una presenza e da un turbamento propri dell’immagine.

Difatti, riportando quest’analisi alle problematiche specifiche del paragrafo che verrà, possiamo sottolineare il fatto che “il punctum è un supplemento: è quello che io aggiungo alla foto e che tuttavia è già nella foto”.11 In tal senso, viene vigorosamente chiamato in causa il ruolo attivo della fruizione nella costruzione giocosa del senso di una fotografia. Quasi un’estetica della ricezione, che prende comunque il via da qualcosa che è già nell’opera e che preme per farsi “avventura”:

la tale foto “mi avviene”12 (cioè mi viene incontro), aprendo infinite vie ad un gioco sulla forma e sul senso che con tali premesse non potrà mai risolversi nell’insignificanza.

11 Ibidem, pag. 56.

12 Ibidem, pag. 21.

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1.3 – Il portamento estetico:

il Bello e il Gioco

“Molti scrittori e pittori hanno dimostrato che riflettere a lungo su cosa è o dovrebbe essere l’arte13 annulla la capacità di scrivere e dipingere!”.14 Tuttavia, siamo del parere che una coscienza estetica vi- gile sia necessaria alla responsabilità dell’artista in quanto tale in fase di creazione e alla sensibilità del soggetto che tenta un avvici- namento all’opera. Così come riteniamo il “bello” un termine inevitabi- le proprio ora che, nell’ estensione smisurata delle sue accezioni, ri- schia di diventare una parola antiquata e destinata all’oblio. L’inten- to di queste riflessioni non pretende di spingersi fino ad una rico- struzione esaustiva dei vari orientamenti o delle maggiori tematiche dell’estetica (che peraltro è una disciplina relativamente giovane, ma problematica di per sé), ma è un tentativo di porre questioni rispetto a cui l’estetica si ponga quale redditizio terreno di crescita.

13 Con il termine “arte” ci riferiremo in tutto il paragrafo anche allo specifico della fotografia di moda, per snellire la trattazione e nella consapevolezza che è alla condizione di arte che si avvicina lo statuto dell’immagine di moda che stiamo costruendo.

14 Adams Robert, La bellezza in fotografia. Saggi in difesa dei valori tradizionali, Bollati Boringhieri, Torino 1995, pag. 121.

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Abbiamo quindi definito quest’attenzione all’aspetto estetico “por- tamento”, con un’evidente analogia terminologica con il campo della mo- da, intendendo con ciò un attitudine di fondo (un portamento appunto, ma interiorizzato) che tende all’esperienza estetica, indipendentemente dalla maggiore o minore intensità e purezza dell’opera, quale sintesi suprema di un approccio sensibile e teorico. Difatti, un’opera avvici- nata con un “incedere” estetico autentico è un qualcosa che ci avviene (per usare la già citata espressione di Barthes) sia attraverso i sensi come illuminazione e scuotimento, sia successivamente come riflessione teorico/concettuale, per confermarsi nell’insieme come atto di cono- scenza. E’ qui che le acute riflessioni di Hans-Georg Gadamer (non a caso altro pensatore che come Simmel15 ha ricoperto tutto il ‘900) in- tervengono, seducenti ed autorevoli, sulle complesse questioni di este- tica ed ermeneutica in oggetto e ci offrono nuovi sviluppi d’analisi.16 Innanzitutto, è d’obbligo sottolineare che tutte le considerazioni fat- te sul coinvolgimento emotivo, sull’impulso che punge al di là di ogni apprendimento culturale e sull’opera che mi “avviene” luminosa e spon- tanea, non debbano mai separarsi dalla ferma convinzione che l’arte sia una particolare conoscenza di se stessi e del mondo, anche se siamo co- stretti ad intuire lo splendore che porta con sé a partire dal riflesso

15 Cfr. paragrafo 3.1.

16 La tradizione filosofica a cui Gadamer si ricollega e che tenta di rivitalizzare è prevalentemente quella che fa capo ad Heidegger ed He- gel.

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frammentario che deposita sui nostri oggetti quotidiani.17 Come afferma Gadamer (e contrariamente a tutta l’eredità estetica kantiana che vede nell’arte solo la produzione di un sentimento senza verità): “L’arte non ha davvero nulla a che fare con la conoscenza? Non c’è nell’espe- rienza dell’arte una rivendicazione di verità, diversa certo da quella della scienza, ma altrettanto certamente non subordinabile ad essa? E il compito dell’estetica non è proprio quello di fondare teoricamente il fatto che l’esperienza dell’arte è un modo di conoscenza ‘sui gene- ris’, diversa beninteso da quella conoscenza sensibile che fornisce al- la scienza i dati sulla cui base essa costruisce la conoscenza della natura, diversa altresì da ogni conoscenza morale della ragione e in generale da ogni conoscenza concettuale, ma pur sempre conoscenza, cioè partecipazione di verità?”.18 Quindi l’arte è un modo di auto ed etero comprensione ed è proprio nell’autenticità estetica, che tanto stiamo rimarcando, che risiede la sua possibilità di salvarsi/ci dalle devia- zioni dell’attuale società ipertecnologica, consumistica e mass media- tica.19 Da quei rischi, insomma, che fanno dell’arte un “di più”, un su- perfluo paralizzato, un surrogato di se stessa in cui la sua intensità

17 Nel suo saggio Fenomenologia dell’esperienza estetica, Lerici, Roma 1969, Michel Dufrenne descrive l’opera d’arte come un “quasi soggetto”, ossia un oggetto che si incontra nel mondo, ma che non si lascia trattare come un puro oggetto; una visione sul mondo, ma non un pezzo di mondo.

18 Gadamer Hans-Georg, Verità e metodo. Lineamenti di un’ermeneutica filosofica, Bompiani, Milano 1983, parte I – Il trascendimento della dimensione estetica, pag. 79.

19 Cfr. paragrafo 5.1.

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leggera evapora nella frammentarietà dello svago distratto.20 In un’ot- tica del genere la rivelazione del “bello” non è più tale: ossia il bello non può più essere inteso come un qualcosa che si offre alla no- stra contemplazione, ma diviene un principio produttivo, una lettura costruttiva di forma e senso che naturalmente non tende al raggiungi- mento di nessuno scopo particolare, ma che è il fare entro cui si i- scrive ogni scopo particolare. Ma che cos’è questo “bello” di cui tanto ci sporchiamo le labbra? Scovare una definizione universale di bello sarebbe come cercare di definire un colore e pertanto ci sembra uno sforzo inutile oltre che complicato. Tuttavia sappiamo che esiste, che accompagnerà sempre l’uomo e possiamo coglierne i riflessi e le sfuma- ture. Da questi deduciamo innanzitutto che la realtà che ci si avvicina con il bello “solleva inequivocabilmente la pretesa di non essere vale- vole soltanto soggettivamente”21 e quindi, anche se sappiamo che non si tratta di un’universalità assimilabile a quella scientifico-concettua- le, possiamo comunque sottrarre il nostro discorso estetico da qualsia- si arbitrarietà. Ciò non significa rendere assoluta ed incondizionata la bellezza, ma vedervi piuttosto una garanzia d’incontro dell’ideale nell’individuale dell’opera e nella vicinanza gioiosa di chi la offre e di chi la accoglie. Significa “che anche in ciò che apparentemente è

20 In fondo l’arte è sempre “militante”, non nel senso di un impegno politico-ideologico o del risveglio della coscienza sociale, ma perché partecipa attivamente alla natura della vita e delle cose.

21 Gadamer Hans-Georg, L’attualità del bello, cit., pag. 19.

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solo la particolarità dell’esperienza sensibile, e che siamo soliti rapportare sempre ad un universale, d’improvviso, in considerazione del bello, qualcosa ci trattiene, e ci costringe ad indugiare in ciò che appare individualmente”.22

Nel nostro caso quest’indugio da un lato cozza con la velocità di consumo della moda, ma dall’altro è favorito dal fatto che alla foto- grafia,23 in quanto saldo relitto, applichiamo più facilmente un orien- tamento estetico di quanto non siamo in grado di fare con il processo transitorio di un pezzo teatrale o musicale. Ad ogni modo è in questo indugiare l’essenza estetica del bello: da questa pausa produttiva na- sce “una tensione tra la pura spettacolarità della vista e dell’aspetto […] ed il significato che noi intendiamo intuitivamente nell’opera d’arte, e che riconosciamo dal peso che un tale incontro con l’arte ha per noi”.24 Questo peso sarà tanto maggiore quanto più l’indicibile che è proprio dell’arte ci verrà incontro in un libero gioco di conoscenza e quanto più essa concretizzerà nell’opera la sua meravigliosa facoltà di “poter creare qualcosa di esemplare senza produrre qualcosa di vera- mente regolare”.25 Quest’ultimo aggettivo ci permette a questo punto di agganciarci ad un’altra questione del bello che lambiremo più volte in

22 Gadamer Hans Georg, L’attualità del bello, cit., pag. 18.

23 E’ singolare e suggestivo notare il fatto che il nome con cui Fox Talbot brevettò la fotografia nel 1841 era “calotipo”, dal greco kalós, che significa appunto bello!

24 Ibidem, pag. 22.

25 Ibidem, pag. 23.

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altri spazi di questo lavoro: quella riguardante i suoi confini oggi tutt’altro che regolari e dunque la straordinaria, progressiva esten- sione che essi hanno subito a partire dall’inizio del XX secolo. Cre- diamo si tratti, in fondo, di evitare facili estremismi assumendo una posizione equilibrata di relativismo tollerante. L’arte, e in maniera ancor più esasperata la fotografia, nell’assoluta convinzione che ci sia bellezza in ogni oggetto, condizione, processo e manifestazione della vita, ha enormemente ampliato la gamma di fenomeni degni di una considerazione estetica. Così ad esempio il brutto ha iniziato a diven- tare un presupposto rilevante per innalzare il tasso di bellezza e ri- scattare lo splendore che è nei pianti del mondo contro l’arte pacifi- cata, cellofanata e cementificata (si pensi a “Guernica” di Picasso o alle violente dissonanze dell’ultimo Beethoven). In tal senso l’opera d’arte è ritenuta tanto più bella quanto maggiori sono stati i germi di negativo, di brutto che ha dovuto vincere. Ma d’altra parte quest’in- clinazione ha prodotto anche innumerevoli ripieghi ed impostori che hanno svalutato l’arte alterandola in mid-cult e camp,26 oltre che ac- centuandone la distanza rispetto ai canoni delle grandi produzioni del passato. In definitiva, crediamo che, per superare questa doppia impas- se estetica sulla qualità intrinseca dell’arte odierna e sui suoi rap-

26 Mid-cult è l’appellativo con cui molti autori americani si riferiscono alla pseudo arte di mezza tacca diffusa presso il grande pubblico e che riceve spazio sui media e riconoscimenti. Il Camp, invece, non è altro che il kitsch redento anch’esso in pseudo arte per il solo fatto di esser stato ripulito ed inserito in un contesto raffinato da qualche artista affermato.

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porti con l’arte classica del passato, il principio a cui ispirarsi sia che le cose non valgono perché sono belle, autentiche e appassionanti, ma sono belle, autentiche e appassionanti perché valgono. Anche in que- sto caso le penetranti e condivisibili riflessioni di Gadamer ci vengo- no in aiuto. Egli infatti, nelle sue osservazioni estetiche, parte pro- prio dal superamento della distanza tra passato e presente e dalla con- statazione del fatto che “la questione che ci pone l’arte di oggi con- tiene in sé, […], il compito di mettere insieme ciò che si va separan- do, e che si trova in un rapporto di mutua tensione: da un lato l’apparenza storicistica, e dall’altro l’apparenza progressistica”.27 Viene scavalcata così la doppia e limitante illusione di chi vede come significativo solo ciò che proviene dalla tradizione e di chi, al con- trario, pretende ingenuamente di potersela lasciare alle spalle e di partire dallo zero immaginario di un presente che nasce dal nulla. Ed è in tal modo che si scopre che “il vero e proprio enigma che il tema dell’arte ci pone è proprio la contemporaneità del passato e del pre- sente. Niente è puro e semplice preliminare, e niente è pura e semplice degenerazione”.28 Anche in questo risiede il compito ultimo del porta- mento estetico che proponiamo rispetto al tema del bello: nell’equili- brio che riesce a non vincolare il bello ad una semplice determinazione

27 Gadamer Hans-Georg, L’attualità del bello, cit., pag. 49.

28 Ibidem, pag. 50.

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formalistica e classicistica e allo stesso tempo lo tutela dall’ebbrez- za di certi avvilenti degradi pseudo-artistici. Siamo in presenza di un compito non certo semplice, ma l’arte in genere (e ancor più l’arte rintracciabile nella fotografia di moda) non potrà mai essere un qual- cosa di unilaterale e sempre ci accompagnerà come oggetto filosofica- mente bifronte: al cospetto degli ossimori e dello scompiglio che crea, tra gli estremi del kitsch e dello snobismo estetico, tutto deve essere degno d’interesse estetico.

Sviscerato, almeno in linea di massima, il bello e la sua natura, ci resta adesso da chiarire come esso comunichi con noi attraverso l’opera d’arte. Per farne uno dei baluardi della fotografia di moda, ora che il panorama artistico si è fratturato in una miriade di schegge che ci investono e che a stento sappiamo ricondurre ad un’unità di fon- do, è necessario correggere la mira di un interrogativo di fondo: dal

“cos’è l’arte?” al “quando è l’arte?”.29 Vale a dire: come ci comunica il bello nell’arte? Quand’è che ci tocca e ci accresce nell’avventura di un’esperienza artistica piena? E’ precisamente nel concetto di gioco che si crea quella straordinaria comunione che ricompone tutta la vita- lità dei soggetti e delle pulsioni che fanno dell’arte un’energia tota- le.

29 Goodmann Nelson, Vedere e capire il mondo, Laterza, Bari 1988, pagg. 57-60.

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Tav. 1 – Il gioco dell'arte

In effetti il gioco, quale primordiale funzione dell’uomo, si caratte- rizza come un incessante movimento i cui estremi non sono mai mete in cui esso possa riposare, riuscendo tuttavia a coinvolgere la ragione.

In altri termini il gioco ci si presenta, in modo alquanto bizzarro, come un libero automovimento in cui si fa strada una razionalità priva di scopi. In quanto tale esso non potrà mai essere stasi ma sempre e solo mutamento (difatti la sua ripetibilità non è mai ripetitività) o

AUTORE FRUITORE

GIOCO

(giocare/esser giocati) E

S T E T I C A

E M O Z I O N E

Creazione Qui e ora

Medium

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meglio, per usare la definizione di Gadamer, “trasmutazione in forma”.

Con ciò s’intende il fatto che, nel suo incessante mutamento e nella sua continua rappresentazione, il gioco si delinea come una totalità che si dà in forme sempre nuove e che coinvolge ogni aspetto del suo essere precedente, dei giocatori e della loro identità, trasformandoli.

E in questo si compie l’automanifestazione più evidente e più piena dell’essere: nel mutamento, infatti, si apre la reale comprensione di ciò che si era, attraverso la mediazione di ciò che si è diventati. Nel gioco dell’arte, la trasmutazione risplende al massimo grado, non come incantesimo illusorio, ma come liberazione e accrescimento di se stes- si.30 Per di più l’attività del gioco è fortemente comunicativa, nel senso che è sempre indirizzata ad un qualcosa (nel nostro caso, ad e- sempio, verso l’autore dell’opera, l’opera stessa o un altro “giocato- re”) così da richiedere sempre un giocare insieme che non conosce di- stinzione alcuna tra soggetto e oggetto dell’azione: giocare non è solo un’azione che si compie, ma è anche un evento che si subisce: il gioco è giocare ed esser giocati. In questa libera cooperazione l’opera d’arte ci pone di fronte, senza nessuna distanza, la propria identità

30 Difatti, in Gadamer è centrale l’idea di esperienza come Erfahrung, termine tedesco che ha a che fare con il viaggiare (fahren) ed impli- ca un mutamento. Si può portare l’esempio di un individuo che ha viaggiato molto e che, di ritorno a casa, non può più essere esattamente lo stesso perché ha visto ed assimilato cose che fanno ormai parte del suo essere.

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incontaminata31 e non definitiva e ci invita a considerarla in fieri e ad assumerci come compito la sua continua ri/costruzione.

Il gioco dell’arte, in definitiva, dà una forma sempre mutevole ed ariosa alla mediazione di passato e presente, tra l’opera che non è mai evento chiuso e rivive di volta in volta e chi avvicinandola accresce se stesso. Perché nel gioco dell’arte non c’è solo l’oblio di un sogno, ma anzi “il gioco dell’arte è piuttosto uno specchio riaffiorante sem- pre di nuovo dinanzi a noi attraverso i millenni nel quale, spesso in modo sorprendente e spesso in modo estraneo, ravvisiamo noi stessi”.32

31 Nel senso che l’opera ci parla prima di tutto solo e soltanto come opera, al di là dei messaggi a cui può anche rimandare e dei contesti mediati (il museo piuttosto che la rivista) attraverso cui veniamo in contatto con essa.

32 Gadamer Hans-Georg, L’attualità del bello, cit., pag. 184.

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Capitolo 2

Il medium Fotografia

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2.1 – Cornici: il senso della rivoluzione fotografica

Moholy-Nagy, uno degli esponenti più autorevoli e per certi versi meno conosciuti delle avanguardie d’inizio ‘900, osservò come “la natu- ra, vista attraverso la macchina fotografica, è diversa dalla natura vista dall’occhio umano. La macchina fotografica influenza la nostra capacità di vedere e crea una ‘nuova visione’”.33 Oggi, di fronte allo straripante dilagare di una fotografia che ha compiuto ormai più di un secolo e mezzo di vita, e di fronte ai suoi stimoli differenziati ed alle sue suggestioni, è quanto mai pressante l’esigenza di una profonda riflessione. Non intendiamo qui tracciare un’ulteriore storia della fo- tografia, quanto indagarne il senso proprio alla luce della sua storia.

I primi sviluppi della fotografia, dopo la sua sconvolgente sco- perta, si limitarono in modo abbastanza modesto a fare di questo lin- guaggio un semplice mezzo di autorappresentazione, confinato soprattut- to nell’angusto campo della ritrattistica per aristocratici. Ben presto tuttavia, attraverso la progressiva presa di coscienza delle proprie potenzialità espressive e le aspirazioni a costituirsi come linguaggio

33 Moholy-Nagy Lazlo, Pittura. Fotografia. Film, Einaudi, Torino 1987, pag. 84.

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artistico autonomo, la fotografia riconobbe la propria portata rivolu- zionaria. Il percorso di quest’evoluzione non fu lineare, ma pieno di ostacoli: anzi, si può tranquillamente sostenere che queste difficoltà furono direttamente proporzionali all’energia innovatrice che la foto- grafia emanava. Già la chiesa assunse in principio una posizione molto ostile nei confronti dell’apparecchio fotografico, sostenendo che “vo- ler fissare visioni fuggitive […] confina con il sacrilegio. Dio ha creato l’uomo a propria immagine e nessuna macchina umana può fissare l’immagine di Dio”.34 Inoltre la fotografia suscitò reazioni sfavorevo- li, di origine più o meno disinteressata, anche da parte di moltissimi artisti contemporanei che le negavano qualsiasi valore d’arte (basti pensare ai giudizi fortemente negativi di artisti quali Baudelaire o Delacroix). Per non parlare dell’estenuante, quanto improduttivo scon- tro con la pittura, nei confronti della quale la fotografia si poneva come assassina e come liberatrice. Se per alcuni, infatti, la fotogra- fia uccise la pittura, per altri il suo avvento la liberò dai vincoli della rappresentazione incamminandola verso l’astrattismo ed una nuova attenzione per la pura forma ed il colore. Al di là di tutto ciò, la fotografia proponeva rispetto alla pittura e alle cosiddette “belle ar- ti” in genere, istanze completamente nuove, ma fu soltanto con la sua

34 Tale era la posizione della chiesa quale la riporta, prendendo spunto da un articolo del giornale tedesco “Leipziger Anzeiger” del 1939, Gisèle Freund in Fotografia e società, Einaudi, Torino 1976, pag. 64.

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progressiva industrializzazione che acquisì una sua autonomia espressi- va (ed in particolare artistica), riuscendo in tal modo a dare alle proprie ambizioni quel seguito maestoso che poi è giunto, evolvendosi, fino a noi.

Parafrasando Susan Sontag,35 possiamo affermare che proprio mentre l’industrializzazione iniziò a permettere le applicazioni socia- li della fotografia, la reazione a queste stesse applicazioni rafforzò la consapevolezza della fotografia come arte. Pertanto, superate le preoccupazioni socio-politiche, fisiognomiche e scientifiche (che si riscontrano, ad esempio, nelle “catalogazioni archetipe” di Sander36 o nelle stupende immagini di Blossfeldt che mostrano le bellezze micro- scopiche dei vegetali), la fotografia divenne creativa. Divenendo tale, dovette cominciare ad interrogarsi sul proprio statuto e sulla defini- zione delle proprie energie e, così facendo, portò avanti una lenta ma inesorabile ridefinizione del nostro rapporto con l’arte e della nostra grammatica visiva e cognitiva.

35 Sontag Susan, Sulla fotografia, Einaudi, Torino 1978, pag. 7.

36 Il fotografo tedesco August Sander varò nel 1911 un rigoroso progetto scientifico che, partendo dal presupposto che la macchina fotogra- fica rivela le maschere sociali implicite nei visi, catalogò fotograficamente il popolo tedesco attraverso soggetti rappresentativi della pro- pria classe sociale o professione.

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2.1.1 – Riproducibilità tecnica, fotograbilità, temporalità frantumata ed impronta fotografica

Ma in cosa consiste, in fondo, la rivoluzione fotografica che ab- biamo richiamato nel titolo di questo paragrafo? Cos’è che ha sconvolto della nostra percezione e conoscenza del mondo e delle sue rappresenta- zioni? Gli aspetti che ci preme qui sottolineare, rispetto ai traguardi che questo lavoro s’impone, sono essenzialmente quattro:

la riproducibilità tecnica dell’opera – E’ proprio con l’avvento della fotografia che la riproducibilità, secondo le ben note teorie di Ben- jamin,37 provoca una profonda rottura tra arte antica e moderna (e poi contemporanea). Se escludiamo, infatti, alcune forme di “serialità”

dell’arte passata (ad esempio a proposito di gran parte dell’arte ce- ramica sia greca, sia orientale), notiamo come la possibilità di ri- produrre al posto di un evento unico una serie quantitativa di eventi abbia distrutto quella che lo studioso tedesco aveva denominato come

37 Walter Benjamin, L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, Einaudi, Torino 1966.

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l’”aura” dell’opera d’arte.38 Ciò che la fotografia ha contribuito a sopprimere è dunque l’hic et nunc dell’opera d’arte, la sua autenti- cità ed irripetibilità della forma originale e del luogo in cui si esprime. Per chiarire questo discorso, Benjamin porta l’esempio del simulacro che riposava nascosto nella cella dei templi e che, pur vi- sibile dal solo sacerdote, possedeva integro il suo valore per tutta la comunità. Ora la fotografia, con la sua capacità infinita di ri- produzione, sottrae il riprodotto all’ambito della tradizione e ciò diventa la condizione necessaria alla democratizzazione dell’arte per le masse. Ciò porta con sé delle conseguenze altamente correlate: la riproducibilità avvicina, come abbiamo detto, le masse all’arte (e all’immagine in generale) consentendo una maggiore identità e prossi- mità del fruitore con l’opera. Questa vicinanza il più delle volte non è di tipo fisico, in quanto la serialità introduce una nuova for- ma di esperienza di ciò di cui in realtà non abbiamo avuto esperienza diretta. Attraverso questa singolare forma di “vicinanza a distan- za”,39 l’opera artistica e non, pervade il mondo sotto forma di copia, operando un’incredibile dilatazione delle possibilità del gusto e

38 Dobbiamo tuttavia riconoscere che l’aura di cui parla Benjamin non esce del tutto distrutta nemmeno con la fotografia. Infatti, il piacere dato da una stampa ricavata dal negativo originale (e i veri cultori della fotografia lo sanno bene) non è minimamente paragonabile a quello di una qualsiasi copia posteriore.

39 “Rendere le cose, spazialmente e umanamente, più vicine è per le masse attuali un’esigenza vivissima.[…] Ogni giorno si fa valere in modo sempre più incontestabile l’esigenza a impossessarsi dell’oggetto da una distanza il più possibile ravvicinata nell’immagine…”, Walter Benjamin, L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, cit., pag.47.

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dell’estetica all’interno dei vari contesti sociali. Se, infatti, le ipotesi di Benjamin circa la funzione sociale dell’arte (quella che, per intenderci, contrapponeva il futurismo con matrice aristocratica di Marinetti al realismo socialista del teatro impegnato di Brecht) hanno oggi perduto gran parte del loro significato, inversamente quelle dell’estetizzazione della vita sociale e politica si sono in buona misura verificate in quell’arte di massa che è giunta fino a noi.40

la fotograbilità – Fin dalle origini e poi con modalità sempre più pressanti, la fotografia ha esaltato la propria inclinazione alla cattura del maggior numero possibile di soggetti, sulla scia di un’ambizione che ad esempio nella pittura non è mai stata così mae- stosa. La fotografia si autotrascina nell’immenso disordine di ogget- ti, di tutti gli oggetti del mondo, lasciando aperti gli spazi della scelta: si afferrano gli eventi che vale la pena acciuffare negli a- bissi di un mare senza costa. La presenza degli interventi della mac- china fotografica suggerisce che il tempo e lo spazio sono fatti di avvenimenti e soggetti degni di attenzione; l’onnipresenza, specie odierna, di questi interventi induce a pensare che tutto è degno d’attenzione. Sarà poi l’acutezza dello sguardo di chi fotografa e di

40 Cfr. paragrafo 5.1.

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chi legge l’immagine prodotta ad innalzare tale intervento sul reale e a conferirgli importanza e/o immortalità. Parallelamente, è proprio nell’assenza di quest’acutezza di sguardi che si annidano i rischi e le potenzialità negative del mezzo fotografico. Ad ogni modo la foto- grafia ha contribuito in modo decisivo a ridefinire gli oggetti dell’arte e, tessendo le trame fra le infinite opzioni dell’oggetto/

soggetto e le altrettanto infinite possibilità dell’espressività, ha partecipato alla caratterizzazione dell’estetica moderna e contempo- ranea e di ciò che è degno (se adeguatamente sviscerato) di suscitare emozioni, in arte come negli altri campi del sentire umano.

La temporalità frantumata – Nell’esaltazione del carattere mimetico del mezzo fotografico (peraltro fondamentale, come metteremo in ri- salto nel prossimo punto), troppo spesso è stata relegata in secondo piano un’altra sua basilare specificità: la sua relazione di rottura con il tempo,41 in particolare con quello della nostra visione fisio- logica. Questa, infatti, ha un carattere di continuità, paragonabile al flusso e al movimento filmici, che l’irreale fissità dell’immagine fotografica spezza, isolando all’interno del continuum temporale quel frammento che si è soliti definire come istante. In tal senso la fo-

41Riguardo il rapporto tra fotografia e tempo, illuminante e suggestiva è l’affermazione secondo cui “…in origine il materiale fotografico derivava dalle tecniche dell’ebanisteria e della meccanica di precisione: in fondo, gli apparecchi fotografici erano degli orologi da guarda- re…”, che ritroviamo in Roland Barthes, La camera chiara. Nota sulla fotografia, Einaudi, Torino 1980, pag. 17.

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tografia, oltre alla sua innegabile dimensione realistica, assume an- che un carattere d’irrealtà (laddove il tempo reale non ha soluzione di continuità) ed iper-realtà (in quanto dà visibilità percettiva a quegli infiniti istanti che altrimenti non potremmo cogliere). E’ e- vidente come questa simultanea condizione d’irreale ed iper-reale si presta bene ad una fotografia di moda che di solito tende all’idea- lizzazione e che è l’espressione diretta della moda intesa come “fab- brica di sogni”.

l’impronta fotografica – Eliminiamo ora qualsiasi prefisso dal termi- ne “reale” e torniamo per un attimo al carattere mimetico/imitativo dell’immagine fotografica. La fotografia ha fama di essere la più re- alistica, e dunque la più superficiale, delle arti mimetiche. In re- altà proprio per questa sua oggettività, la fotografia prende parte in qualche modo a quella che potremmo definire la sua particolare forma di “magia del reale”. Infatti, una foto non è mai soltanto im- magine o una semplice interpretazione della realtà, come avviene in un quadro, ma è anche un’impronta, come l’orma di un piede o una ma- schera ottenuta dal calco di un viso. Nello sguardo regale di Lisa Fossangrives fotografata da Irving Penn (Vedi Fig.IX) o nell’espres- sione e nella postura di Yves Saint Laurent catturate da Helmut Newton in un vicolo di Parigi (Vedi Fig.XXII), resta qualcosa che non

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si risolve unicamente nella testimonianza dell’arte di questi due grandi fotografi. Permane qualcosa che esige il nome di quei luoghi e di chi lì ha vissuto il momento di quello scatto,42 in un istante che pur imprigionato dall’effigie è ancora reale e non potrà mai risol- versi totalmente in arte. Mentre un quadro non fa mai nulla di più che interpretare il suo oggetto artistico, una fotografia non fa mai niente di meno che registrare un’emanazione materiale del suo ogget- to: le sue onde luminose riflesse.43 Pertanto, se un quadro falso fal- sifica la storia dell’arte, una fotografia contraffatta falsifica la realtà! Questa “consustanzialità” della fotografia rispetto al suo soggetto la rende suo diretto prolungamento, un mezzo potente per controllarlo e una forza impareggiabile per emozionare chi, in un mo- do o nell’altro, da quel soggetto si sente attratto.

L’ipotesi di questa particolarissima presenza del soggetto nella fotografia (evento che ne rappresenta l’autenticazione), trova sostegno nel risaputo timore che le popolazioni primitive hanno ancor oggi nel farsi fotografare, ritenendo che ciò rubi loro l’anima. Di- fatti, quanto più andiamo indietro nella storia, tanto meno è netta la distinzione tra immagine e realtà: nelle comunità primitive la co- sa e la sua immagine erano due manifestazioni solo fisicamente di-

42 Tant’è che la fotografia, in qualità di particolare assoluto, è sempre e comunque “il Tale (la tale foto, e non la Foto)”, Barthes Roland, La camera chiara. Nota sulla fotografia, cit., pag. 6.

43 “La fotografia è insieme una pseudopresenza e l’indicazione di un’assenza”, Sontag Susan, Sulla fotografia, cit., pag.15.

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stinte di un'unica entità o spirito. In definitiva, l’originalità della fotografia che qui abbiamo cercato di evidenziare, sta nell’aver resuscitato in chiave laica questa condizione primordiale dell’immagine.

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Da questa breve digressione è certamente ora più chiara l’importan- za dell’invenzione di Niepce e ci è più facile ricondurla all’attuale stato di cose. In questo senso possiamo affermare che una società di- venta “moderna” quando una delle sue attività principali consiste nel produrre e consumare immagini; quando queste immagini, che delimitano le nostre rivendicazioni sulla realtà e sono surrogati di esperienze dirette, diventano indispensabili al buon andamento dell’economia, alla stabilità sociale e all’appagamento delle esigenze personali. Ebbene, per il secolo appena trascorso e per quello appena cominciato, per la nostra società opulenta, dissipatrice ed irrequieta, la fotografia rap- presenta (e con tutta probabilità continuerà a farlo) l’arte quintes- senziale ed uno strumento indispensabile per la cultura di massa. In passato l’insoddisfazione per la realtà si esprimeva aspirando ad un

“mondo nuovo”; oggi quest’inquietudine si manifesta nell’ossessione a

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voler riprodurre questo mondo. Inoltre la tecnologia, con il suo conti- nuo intervento che ha reso la fotografia indipendente dalla luce (raggi infrarossi), dalla bidimensionalità (olografia), dall’attesa e dalla professionalità (la Polaroid e le macchine ultrasofisticate che fanno tutto da sole) e ne ha permesso il movimento (il cinema) e la trasmis- sione simultanea a distanza (la televisione), questa tecnologia ha fat- to del mezzo fotografico uno strumento di potenza incomparabile per de- codificare il comportamento, prevederlo e controllarlo. A livello popo- lare la fotografia è oggi una forma di distrazione diffusa quanto il sesso ed il ballo e non è quindi da intendersi come arte, ma come rito sociale (l’album di nozze) e difesa dal vortice del tempo (le foto ri- cordo). Tuttavia, da un altro punto di vista, una stampa è un manufatto che in un mondo cosparso di relitti fotografici può partecipare contem- poraneamente del prestigio dell’arte e della magia del reale: ha la ca- pacità insomma di mescolare, in un’unica affascinante pozione, pillole d’informazione e brandelli di fantasia creativa.

Senza la fotografia nessuno di noi avrebbe potuto vedere la super- ficie lunare e pensate solo per un istante all’incredibile sensazione che proveremmo nell’osservare una fotografia di Platone, Leonardo o Shakespeare! Tra vari decenni, ammirando il ritratto fotografico del tale o del talaltro genio del nostro tempo, per i nostri figli sarà del tutto naturale sperimentare una simile emozione…

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2.2 – La fotografia è un’arte?

Da quanto detto finora, sarebbe quantomeno contraddittorio fornire una risposta negativa al quesito posto dal titolo di questo paragrafo.

Più che altro, bisogna tener ben presente il percorso che la fotografia ha dovuto seguire per affrancarsi da quest’interrogativo. Oltre a ciò, si tratta di fornire riscontri a sostegno dell’ipotesi secondo cui, og- gi più che mai, questa è una falsa domanda che sposta e occulta il vero centro del problema. Ad ogni modo, tentare di rispondere ad un siffatto interrogativo implica un allargamento del discorso che investe la defi- nizione stessa di arte. Ed anche nell’improbabile caso in cui si riu- scisse a giungere ad una qualche determinazione stabile del concetto di

“arte”,44 il percorso continuerebbe ad essere accidentato a causa della natura promiscua della fotografia. Infatti, da un lato essa è caratte- rizzata da ripetuti tentativi di smitizzare l’arte classica attraverso il perseguimento dell’osceno, della provocazione, del kitsch e del quo- tidiano. Tuttavia dall’altro, la fotografia si nutre continuamente dell’arte “alta” e anche quando esalta la spontaneità e l’apertura dell’arte moderna, deve pur sempre fare i conti col proprio vincolo in-

44 Abbiamo tentato, al riguardo, soltanto un avvicinamento all’essenza del concetto di “arte” in relazione con le problematiche estetiche nel Capitolo 1.

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teriore ad essere un’attività autenticamente nobile e raffinata. In tal senso, la fotografia è la voce più autorevole sia delle aspirazioni più propriamente artistiche, avanguardistiche, disinteressate ed estetiche dell’espressività umana, sia delle ambizioni più utilitaristiche ed e- conomiche. L’arte è per se stessa e per il mercato; il mercato è per se stesso e per l’arte. La fotografia prende per mano entrambi e li condu- ce verso prospettive ed esiti inediti. Non solo la fotografia in quanto tale è entrata di diritto e con successo nei musei, ma anche la foto- grafia di moda (cioè la sua variante più commerciale e meno autonoma) è ormai oggetto di una valutazione artistica impegnata. Dalle copertine delle riviste al Metropolitan Museum di New York, al Victoria and Al- bert Museum di Londra e giù fino alle piccole gallerie private, autori come Newton, Testino, Mapplethorpe, LaChapelle, Mondino e molti altri sono ormai frequenti protagonisti di esposizioni, retrospettive e scer- vellamenti critici.

Rimaniamo assolutamente convinti che la domanda posta dal titolo di questo paragrafo conduca fuori strada. E siamo pienamente d’accordo con Susan Sontag, quando afferma che “la fotografia, come il linguaggio, è un mezzo con il quale (tra le altre cose) si fanno opere d’arte. Con il linguaggio si possono fare relazioni scientifiche, promemoria burocra- tici, lettere d’amore, conti della spesa e la Parigi di Balzac. Con la fotografia si possono fare foto per il passaporto, foto meteorologiche,

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foto pornografiche, radiografie, foto di nozze e la Parigi di Atget”.45 Forzando ed elaborando questa acuta osservazione, possiamo andare oltre affermando che con il linguaggio si può descrivere nella didascalia di una pagina di moda un pregiato corsetto di Haute Couture; con la sensi- bilità fotografica di Horst si può rendere quello stesso corsetto pro- lungamento diretto dell’idea di bellezza e poeticità (Vedi Fig.II).

Comunque sia, per dirla con Dorfles, nell’odierna esasperata dila- tazione del panorama artistico “dobbiamo prender atto che la mente uma- na si pasce d’un immenso universo di segnalazioni e di stimolazioni […]

e che tali stimolazioni, tanto quelle disinteressate attribuite all’arte che quelle utilitarie dovute ad agenti non considerati di so- lito come artistici, hanno un’efficacia sulla germinazione di quelle costanti formative […] da cui poi traggono lo spunto le diverse manife- stazioni estetiche”.46 Ci sembra che l’efficacia e il valore delle sfac- cettate “stimolazioni” della fotografia di moda rappresentino, al di là di qualsiasi disquisizione, un vertice assoluto d’interesse.

45 Sontag Susan, Sulla fotografia, cit., pag.128.

46 Dorfles Gillo, Le oscillazioni del gusto. L’arte d’oggi tra tecnocrazia e consumismo, Einaudi, Torino 1970, pag. 22.

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Capitolo 3

La Moda

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3.1 – Cornici: l’approccio sociologico

Innanzitutto, bisogna sottolineare che il fenomeno della moda ha origini remote, che risalgono addirittura alla preistoria: alcuni bas- sorilievi policromi rinvenuti in Mesopotamia testimoniano infatti, fin da allora, una variegata ricchezza di vesti ed ornamenti, la ricerca- tezza dei tessuti e quindi un senso del gusto e dello stile già profon- damente differenziato. Altrettanto chiaramente bisogna aggiungere che è solo con l’età moderna, e più precisamente con la rivoluzione indu- striale, che la moda conquista un dominio ed un pubblico più consisten- te attraverso l’assottigliarsi delle differenze di genere, l’allargarsi di quelle di classe, un nuovo senso della praticità e dell’igiene e le nuove conquiste scientifiche e tecnologiche. Ma che cos’è esattamente la moda? Potremmo definirla, rifacendoci all’etimologia della parola,47 come l’usanza più o meno mutevole, che diventando gusto prevalente, s’impone nelle forme del vestire, nelle abitudini, negli stili di vita.

Di conseguenza la moda, nella sua accezione più generale, riguarda tut- ta l’esistenza sovrastrutturale dell’uomo (dalla politica, all’arte, al

47 Dal francese mode, e questo dal latino mŏdu(m), “modo, maniera”. Si può far riferimento anche alla voce inglese (oggi tanto di “moda”!) fashion, dal francese façon, “modo”.

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