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Bossing: cenni al mobbing pianificato

Nel documento Mobbing e rapporto di lavoro (pagine 125-129)

Come abbiamo anticipato nel primo capitolo una particolare categoria di mobbing verticale è rappresentata dal c.d. bossing, fattispecie introdotta inizialmente solo nella psicologia del lavoro e in un secondo momento anche a livello giuridico, il termine deriva dall’inglese “to boss” che indica l’azione di comandare sugli altri. Il bossing si caratterizza per la peculiarità che ad essere protagonista ed artefice delle intimidazioni e delle attività persecutorie in questo caso è l’impresa la quale – con lo specifico intento di escludere uno o più dipendenti dalla propria compagine aziendale – tiene comportamenti vessatori costringendo le vittime a rassegnare le dimissioni; si tratta di una vera e propria strategia che ha come fine ultimo la riduzione e razionalizzazione del personale. Spesso come causa di tale atteggiamento si individuano le troppo rigide normative sui licenziamenti, per cui l’unica via d’uscita che l’imprenditore vede per escludere parte del personale in esubero si riduce ad una drastica soluzione: creare un clima di tensione che diventi intollerabile per il lavoratore stesso attraverso minacce e costanti rimproveri oppure dequalificando la sua posizione in modo tale da costringerlo (anche se in maniera subdola) a dimettersi; di fronte a questo

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terrorismo psicologico la vittima si sente paralizzata e priva di possibilità per evitare tali trattamenti in quanto il responsabile in questo caso non è un semplice collega di pari grado, bensì l’intera organizzazione all’interno della quale lavora, proprio per questa ragione lo stress cui essa è sottoposta è particolarmente intenso e la rende impotente di fronte a qualsiasi umiliazione138.

Terreno fertile per la nascita di questo specifico fenomeno è rappresentato dai tempi di crisi economico-occupazionale in cui imprenditori e datori di lavoro si trovano a dover razionalizzare le risorse umane della propria azienda e dunque devono far fronte alla scelta di licenziare alcuni dipendenti oppure portarli alle dimissioni volontarie. Tale circostanza di “costrizione” permette al bossing di diventare una vera e propria strategia commerciale alla quale si dedica, non un singolo individuo, bensì l’intera organizzazione aziendale, perciò esso si identifica come l’unica possibile soluzione al problema della diminuzione del personale che deve essere necessariamente affrontato in maniera decisiva e in tempi relativamente brevi.

Generalmente il personale maggiormente coinvolto da questo fenomeno è quello più anziano che poco si adatta all’evoluzione delle dinamiche aziendali supportate dalle filosofie dettate dalla

new-economy, per cui le società, anziché pianificare un progetto

di formazione continua e di riqualificazione professionale, preferisce adottare atteggiamenti vessatori che portano alle dimissioni “volontarie”; tuttavia spesso viene colpita anche quella classe di lavoratori che non accetta le politiche aziendali oppure più semplicemente può trattarsi anche di un classico

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I. CORRADINI, I mobbings. Mobbing, bullying, bossing e modelli di

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lavoratore scomodo e indesiderato di cui l’impresa intende liberarsi. Una delle motivazioni, probabilmente tra le più futili, è individuata nei casi in cui i dirigenti, presi dall'ansia di fare carriera, cercano di distruggere sistematicamente e con ogni mezzo a loro disposizione qualsiasi ostacolo, presunto o reale. Il fatto che il bossing rappresenti una strategia a livello aziendale - molto più studiata e architettata rispetto al “semplice” mobbing - non comporta che affinché esso sussista sia necessaria la presenza un responsabile pluri-personale: non è detto, infatti, che il bosser si individui sempre e comunque nell’intera classe dirigente di un’azienda, può capitare che il responsabile sia un singolo e agisca secondo un piano personale, non condiviso e non conosciuto dagli altri vertici dell’impresa; ciò che è fondamentale affinché la fattispecie sia integrata è che sia presente un intento architettato e studiato al fine di escludere definitivamente la vittima dalla compagine aziendale, a prescindere dal numero di soggetti agenti che si rendono direttamente responsabili di tale condotta. L’elemento intenzionale, infatti, deve necessariamente far parte dell’obbiettivo del bosser il quale, sin dall’inizio delle attività persecutorie, sa che queste sono volte direttamente all’espulsione del soggetto dall’ambiente di lavoro. Spesso sono alcune società di consulenza esterna, cui l’impresa si rivolge in tempi di crisi, a consigliare una tale strategia in quanto ritenuta molto più economica rispetto al pagamento dei c.d. oneri di “buonuscita”.

La sottile tattica persecutoria si esprime in diverse modalità, purtroppo queste non sono sempre riconoscibili nelle prime fasi: la vittima inizialmente riceve rimproveri esagerati spesso ingiustificati e sproporzionati e per aumentare l’effetto umiliante

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di frequente tali rimproveri avvengono proprio di fronte ai colleghi affinché il soggetto aggredito si senta maggiormente sminuito, sia sul piano lavorativo sia su quello personale. I rimproveri, in un secondo momento, possono trasformarsi in minacce o tentativi di sabotaggio che il responsabile porta a termine per svilire le capacità della vittima; a questo punto vengono poi coinvolti i superiori i quali, per aumentare lo stato di tensione e incertezza, solitamente non concedono colloqui personali chiarificativi delle situazioni che si stanno susseguendo all’interno dell’azienda, negando così alla vittima una figura di intermediazione e supporto. I dirigenti spesso incoraggiano anche i colleghi di lavoro a promuovere dinamiche di conflitto, coinvolgendo così anche il profilo dei rapporti interpersonali eliminando ogni possibilità di supporto che il soggetto aggredito avrebbe potuto avere a disposizione. Una volta superatala fase iniziale di aggressione diretta nei confronti della vittima, si passa ad uno stadio più evoluto che mina uno spazio interiore per cui, il bersaglio del bosser sentendosi sempre più deresponsabilizzato, diventa inefficiente e agli occhi dei colleghi risulta non produttivo perché magari, a causa di banali errori dovuti a distrazioni provocate dalle azioni persecutorie, rende nullo il lavoro di alcuni colleghi che dovranno ripetere determinate operazioni, per cui l’unica conseguenza che può presentarsi è quella di identificare la vittima come un peso per l'azienda e dunque un inutile ed eccessivo costo; tutto ciò non fa altro che provocare la c.d. “reazione a catena” che porta alla convinzione che il soggetto debba necessariamente essere allontanato da quell’ufficio il più velocemente possibile.

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Più nello specifico, una particolare modalità di bossing è caratterizzata dall’impartire istruzioni incomplete in modo tale da indurre in errore il lavoratore il quale si trova costretto a dover procedere in maniera approssimativa scegliendo lui stesso una soluzione provvisoria alla questione lavorativa che gli si presenta. Tutte queste attività si ripetono continuativamente fino a determinare un completo isolamento della vittima sia rispetto ai rapporti interpersonali con i colleghi di pari grado, sia rispetto ai dirigenti d’azienda: il senso di vuoto diventa irreversibile e la possibilità di comprendere razionalmente i problemi che la circondano svaniscono provocando incertezze e un totale senso di colpa che porta ad una inevitabile diminuzione dell’autostima. In Italia, purtroppo, il bossing trova oggi condizioni particolarmente favorevoli a causa del protrarsi della generale e continuativa crisi che provoca inevitabilmente un elevato livello di disoccupazione e una grande paura dei lavoratori di perdere il proprio posto, in tali circostanze la pressione che il datore di lavoro esercita sui dipendenti attraverso minacce diventa un facile strumento a disposizione di cui disporre per portare avanti una politica di diminuzione del personale o semplicemente per disfarsi di un dipendente indesiderato.

Nel documento Mobbing e rapporto di lavoro (pagine 125-129)