9 luglio 2007 n. 33624
“Il mobbing non costituisce reato, parola di Cassazione. Così hanno titolato enfaticamente i principali quotidiani all’indomani del deposito dell’ennesima sentenza della Corte di Cassazione destinata (suo malgrado) a far notizia.”101
Stiamo parlando di una pronuncia della Suprema Corte102 che quotidiani e riviste hanno interpretato e documentato in maniera criticabile. Prima di addentrarci nel merito della questione dobbiamo fare una breve premessa: come abbiamo visto nel capitolo precedente il mobbing identifica attualmente un fenomeno sociale privo di una specifica attenzione legislativa, ciononostante l’ordinamento italiano garantisce comunque un livello di tutela alle vittime individuando una serie di disposizioni strumentali alla difesa della salute in generale dei lavoratori.
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A. NATALINI, Quando il “mobbing” non costituisce reato (di lesioni
personali), nota alla sentenza della corte di cassazione del 29 agosto 2007 n.
33624, in diritto e giustizia del 13 settembre 2007.
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La tutela costituzionale prevede sia un diritto inviolabile alla salute103 - inteso come diritto individuale e collettivo - sia un limite all’esercizio dell’iniziativa economica privata104 che non può confliggere con la sicurezza e la dignità umana.
In ambito civilistico l’attenzione ruota attorno all’obbligo del datore di adottare misure idonee a tutelare l’integrità psico-fisica dei propri dipendenti ex art. 2087 c.c..
La lacuna legislativa maggiore si riscontra, però, con riferimento al settore penale in cui manca una collocazione autonoma della fattispecie: nonostante le diverse proposte di penalizzazione di tale illecito che abbiamo elencato, infatti, ad oggi non sono previste ipotesi di reato che rispecchino le tipiche condotte del
mobber. Per tali motivi chi subisce vessazioni e soprusi sul luogo
di lavoro, affinché possa ricevere tutela anche in termini penali, deve necessariamente appellarsi ad altre fattispecie criminose adeguando le condotte di cui è vittima a tali ipotesi di reato105. In tal senso la Corte di Cassazione si è espressa in una famosa sentenza del 2007 con la quale dichiara fermamente l’estrema“difficoltà di inquadrare la fattispecie in una precisa
figura incriminatrice, mancando in seno al codice penale questa tipicizzazione”. Le parole della Corte sono state immediatamente
oggetto di molte pubblicazioni su riviste e quotidiani nazionali che non hanno esitato ad esprimere la loro contrarietà alla statuizione secondo cui il mobbing non è reato, ed è stata anche causa di successive e divergenti linee di pensiero da parte della 103 Art. 32 Cost. 104 Art. 41 Cost. 105
Solitamente i reati richiamati nei procedimenti penali sono: l’ingiuria ex art. 594 c.p., la diffamazione ex art. 595 c.p., le molestie o disturbo alle persone ex art. 660 c.p., la violenza privata ex art. 610 c.p., l’abuso d’ufficio ex art. 323 c.p..
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dottrina. Analizzando più attentamente la questione, si capisce che la decisione in realtà deriva da un complesso ragionamento della Corte la quale, nel caso di specie, conferma la sentenza di non luogo a procedere del GUP del Tribunale di Santa Maria Capua Vetere intervenuta a seguito di un giudizio che vedeva accusato di mobbing il preside di un istituto d’arte presso il quale la parte offesa prestava servizio. In particolare il preside era accusato del reato di lesioni personali volontarie gravi in quanto aveva causato un indebolimento permanente dell'organo della funzione psichica nei confronti di una dipendente, a seguito di condotte riconducibili al mobbing.
Il rigetto del ricorso contro la sentenza di non luogo a procedere presuppone un ragionamento ben preciso secondo cui l’imputazione portata avanti dal P.M. non era capace di descrivere i tratti dell’azione censurata, per cui le condotte poste in essere dal preside non erano riconducibili alla fattispecie delle lesioni, con la ovvia conseguenza che il Pubblico Ministero avesse redatto un decreto viziato da assoluta indeterminatezza106. In particolare, l’attenzione si concentra su alcune dimenticanze e lacune; in primis sul fatto che l'accusa ritenesse integrato il reato di lesioni personali a fronte di una mera alterazione del tono dell'umore che la lavoratrice subiva, tale circostanza in realtà integra delle semplici sofferenze psicologiche e non delle lesioni; a ciò si aggiunga un elemento di non poca rilevanza: la totale mancanza nell’imputazione delle condotte causa di tali sofferenze
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Corte di Cassazione, sez. V, sentenza 9 luglio 2007 n. 33624:
“La difficoltà di inquadrare la fattispecie in una precisa figura incriminatrice, mancando in seno al codice penale questa tipicizzazione, deriva - nel caso di specie - dalla erronea contestazione del reato da parte del p.m.. infatti, l'atto di incolpazione è assolutamente incapace di descrivere i tratti dell'azione censurata.”
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e dunque la totale mancanza del nesso di causalità tra fatto e danno; un’ultima omissione si rinviene poi nell’atto di imputazione che risultava privo del riferimento alla reiterazione dei comportamenti vessatori da parte del preside, fattore identificativo del fenomeno. Di fronte a tali difetti, i giudici consigliano - nel caso in cui si debba far valere in giudizio la fattispecie di mobbing - di ricorrere al diverso reato di maltrattamenti posti in essere da persona dotata di autorità per l’esercizio di una professione107 che codifica quella condotta strumentalmente diretta a dare origine ad un ambiente umiliante e intollerabile.
Riassumendo, dunque, la Suprema Corte rigetta il ricorso del P.M. e della parte offesa contro la sentenza di non luogo a procedere emessa dal GUP perché ritiene infondata la tesi dell’accusa, senza però privare di rilevanza penale il fenomeno del mobbing che, nonostante sia assente una normativa penale specifica, può comunque essere ricondotto ad altre fattispecie criminose quali i maltrattamenti ex Art. 572 c.p..
L’intenzione della Corte, dunque, non era certo escludere le ipotesi di mobbing da qualsiasi fattispecie incriminatrice, bensì escludere dal particolare caso di specie un’imputazione che non fosse “chiara e precisa” nel suo profilo oggettivo, ovvero nella parte dell’addebito di un certo titolo di reato all’imputato; ciò non significa che il mobbing non sia un illecito penale108. Già prima del 2007 la Corte di Cassazione aveva statuito che “la
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Art. 572 c.p. “Maltrattamenti contro familiari e conviventi”.
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Tanto che nella stessa sentenza è la Corte a dare dei suggerimenti su come individuare la fattispecie penale che più risponde alla tutela delle vittime da mobbing e a dare loro idonee garanzie.
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condotta del datore di lavoro e dei suoi preposti che, nell'ambito del rapporto di lavoro subordinato, abbiano posto in essere atti volontari, idonei a produrre uno stato di abituale sofferenza fisica e morale nei dipendenti”109integra perfettamente la fattispecie di maltrattamenti ex art. 572 c.p.. Accantonata, dunque, l’ipotesi secondo cui la Corte di Cassazione abbia escluso qualsiasi rilevanza penale del fenomeno, è evidente che tale statuizione desti comunque qualche perplessità: in primo luogo è ormai palese che la lacuna legislativa lasci un vuoto che per esigenze di tutela deve essere necessariamente colmato in quanto al momento l’unica soluzione è quella rinvenibile nell’opera giurisprudenziale, “sempre più sostitutiva di un
legislatore ormai incapace di cogliere le esigenze di tutela della collettività e del singolo e di tradurle in norme giuridiche”110.
Inoltre sorge un’ulteriore criticità rinvenibile nella doverosa precisione e chiarezza dei Pubblici Ministeri nella formulazione dell’imputazione a carico di un indagato accusato di mobbing nella particolare forma dei maltrattamenti: si è, infatti, rivelato fondamentale indicare non solo la reiterazione delle condotte ma anche il nesso eziologico che lega queste ultime al danno lamentato dalla parte offesa, pena una sentenza di non luogo a procedere.
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Corte di Cassazione, sentenza 12 marzo 2001 n. 10090.
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C. TOFFOLI, Note brevi a margine della sentenza della Corte di
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