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In questo terzo ed ultimo capitolo vorrei raccogliere il materiale che, volente o nolente, ho dovuto scartare. Un archivio di errori e buoni propositi irrealizzati.

Credo che uno spazio simile sia fondamentale per chi, come me, voglia provare a cimentarsi nella stesura di un testo drammaturgico. Penso sia doveroso mostrare quanto lavoro all'apparenza inutile si debba svolgere prima di poter giungere a scrivere la parola "fine". Dico all'apparenza inutile perchè, di fatto, senza ognuno di quegli errori, senza ognuna di quelle illusioni, per me non sarebbe stato possibile scrivere neppure una riga di Atto di dolore. Così come sarebbe stato difficile farlo se non avessi analizzato le motivazioni per la quali ho dovuto rinunciare a quegli scritti. Ho pensato, pertanto, di dedicare questa sezione all'autoanalisi critica suddividendo il lavoro in due parti: la prima vuole raccogliere il testo di partenza e i tentativi malriusciti di drammaturgia, mentre la seconda rivolge l'attenzione alle difficoltà incontrate e alle ragioni che mi hanno spinta all'autocensura.

3.1

I testi precedenti

3.1.1

Salvador Leondello, il demente senile (Racconto di partenza)

Praefatio

Chiunque voglia leggere una storia normale, razionale, colma di rettitudine e buoni propositi può appallottolare questi fogli. Carta straccia: ecco come verrebbero considerati. Chi, invece, non ha niente di meglio da fare può leggere. E ridarmi la vita, per un istante. Per un istante, sì, perché oltre sarebbe per me deleterio, nauseabondo. In una parola: devastante. Se prima ero vecchio, ora sono stravecchio. E gli stravecchi non esistono. E quand'anche esistessero non sarebbero un gran bel vedere... Detto ciò, sta a voi scegliere: o me o il resto. Vi sconsiglio me, rimane il resto.

[Racconto]

A quanto pare avete optato per il peggio. Tanto meglio, non avete grandi aspettative. Ora mi sento più tranquillo, ora mi avete proprio scelto. E dunque...

(Massima serietà, occhi al sipario)

Da sempre mia moglie curava il suo vestiario, da sempre s'agghindava. Ed io da sempre pensavo che da sempre le donne si comportassero a quel modo. Nella maggior parte. Così, non diedi mai troppa importanza alla maniacale cura con la quale s'imbellettava. Credevo -o m'illudevo- che le aderenza, le scollature, i tacchi, gli orecchini, gli anelli, le sciarpe, le sciarpette e le sciarpine fossero pegni d'amore. Per me. Unicamente per me. Uomo che amava e che la amava. Ne ero fermamente convinto, accidenti. Ero, tuttavia, consapevole del fatto che i suoi capelli biondi scalati e il suo modo di conciarsi potessero venire fraintesi. Così, assecondai le sue idee, mi feci trasportare dai suoi gusti, dalle sue piccole trasgressioni. E più i benpensanti, più i tuttididìo, si incaponivano con i segni di croce appresso al suo ancheggiare, più io osavo. Dunque, mi trasformai in lei. Divenni il suo alter ego col pene. Fino a fondermi anima e corpo con la sua essenza, con la sua anima. Se io fossi stato un pittore, lei sarebbe stata la mia musa ispiratrice, l'idea più bella della mia carriera. Eppure talvolta la odiavo. Per quella personalità ponderosa e un po' grossolana, per il suo egocentrismo che dapprima mi pareva superficiale e poi -invece- assumeva le sembianze di un buco nero che inghiotte l'universo. La odiavo, dicevo, perché con quella stessa personalità mi schiacciava. E il mio corpicino, al suo cospetto, altro non era se non una sagoma sottile sotto le ruote di un tir. Ma la amavo. Anche perché la odiavo. Poiché ho sempre ritenuto che amore e odio siano quasi la stessa cosa. Il problema non è mai stato l'odio in sé, ma l'indifferenza, l'apatia che rende nulla ciò che può essere tutto. Io, dunque, amavo odiando, ma il mio amore superava di gran lunga l'odio. A onor del vero lo ammetto. E ingenuamente pensavo che anche lei, mia moglie da quando avevo ventuno anni, dopo trentaquattro primavere di matrimonio potesse credere, se non proprio questo, almeno qualcosa di simile. Così non fu. Una sera di metà febbraio, infatti, tutto l'amore venne dimenticato. Persino l'odio svanì. Rimase ciò che temevo di più, ciò che rifiutavo con tutto me stesso: l'apatia. Mi puntò i suoi occhi, quasi fossero due pistole cariche. Dopodiché, senza sentimento, senza odio nè passione, senza rispetto e senza umanità, senza spirito, mi parlò. Cercò di strutturare un discorso serio per dirmi quella che in un primo momento reputavo una stronzata. La più

grande stronzata. Non ricordo le sue parole, penso di averle rimosse nell'istante in cui le ho sentite. Ad ogni modo: mi lasciò per la mia gioventù ormai sfiorita. Mi lasciò perché non ero giovane nè fuori nè dentro. Mi lasciò perché avevo cinquantacinque anni e non la possedevo come un ventenne. Mi disse che aveva bisogno di sentirsi desiderata, che aveva voglia di uscire per cena e poi ballare per tutta la notte “musica giovanile”. Vaneggiò, a lungo. (E, sbigottito, trovai persino il tempo di vergognarmi per lei). Quindi, incominciò ad elencare i miei difetti: le rughe sulla faccia, la pancia flaccida -benché fossi magro-, i capelli “biancastri” -disse, questo lo ricordo- e con la piega retrò, nonché il cattivo gusto nel vestire. Mi accusò di avere un naso troppo pronunciato e le orecchie diverse l'una dall'altra. Rimasi ad ascoltare tutto ciò, come se non mi fossi mai visto allo specchio, come se avessi bisogno di sentire com'ero fatto. Poi lei, glaciale come una donna che non ha nulla da perdere, andò via, lasciandomi impietrito in camera da letto. Rimasi seduto lì, sul lato sinistro del materasso per quasi tutta la notte. Incredulo. Tornai in me stesso per pochi istanti. Guardai l'orologio alle 4.40 e, quasi fossi un robot, inspiegabilmente andai a sedermi sul lato destro del materasso -la sua parte-. Alzai lo sguardo e mi vidi allo specchio. “Dio quanto sono vecchio!” pensai. Ed improvvisamente mi vidi per la prima volta dopo anni. Il mio viso: un vecchio campo solcato da un aratro impavido. E quei capelli? Per un attimo la mia mente andò indietro di non so quanti diavolo d'anni e ripescai tra i miei ricordi la figura di un presentatore televisivo deriso dal mondo intero per il suo ridicolo parrucchino scadente. Gli somigliavo! Soltanto quel giorno me ne accorsi. Poi continuai ad osservarmi. Le orecchie erano sproporzionate per davvero e il naso, cristosanto, era muffito in punta! E che punta! Persino i denti mi sembravano ormai poco ancorati alle mie gengive, che vedevo gonfie, schifosamente bavose. E la pancia? La guardai un attimo, all'improvviso, posizionandomi di traverso, per osservare il profilo. La cingevo con entrambe le mani, in una posa delicata, femminea, da donnina incinta. Appena mi accorsi di ciò -e della protuberanza, e della posa- abbassai la sinistra e con l'altra mano mi sferrai un cazzotto tremendo che mi fece orinare. No, ero pure incontinente? Ma quanti anni avevo? Allora aveva ragione! E ci credo che preferiva i ventenni che non si pisciavano i genitali! Piansi. Per ore, per mesi, che differenza fa? Piansi fino ad espellere ogni liquido dal mio corpo. Piansi persino il sangue. Dentro di me nulla poteva essere bagnato, umido. Perché i liquidi generano vita ed io la vita l'avevo mangiata tutta, con ingordigia e

noncuranza. Con distrazione. Ora, tutto ciò che mi era stato serbato era la morte, l'eterna dissoluzione. E quella dissoluzione imperversava: nelle ultime ventiquattro ore ero diventato vecchio, ero stato scoperto e lasciato. Nelle ultime ventiquattro ore qualcosa era pure già morto: il mio matrimonio. Ed io mi avviavo bene, così sconfitto dal tempo. Da quel tempo perfido che mi aveva trasformato in un mostro. Pensai a lungo al tempo, poi smisi, per curarmi. Improvvisamente, infatti, provavo un tale formicolio alla caviglia destra da far sì che mi sentissi bruciare il piede ogni qualvolta poggiavo a terra la pianta. Avevo, dunque, incominciato a zoppicare e decisi di comprare un bastone. A quest'ultimo accompagnai delle capsuline per il formicolio, poi altre per il bruciore. Tempo un mese e, oltre al bastone, dovetti comprare due nuovi aggeggini: una sputacchiera -avevo un catarro ormai cronico ed ingestibile!- ed un astuccino portapastiglie con appositi scompartimenti differenziati. Era diventato per me indispensabile perché, man mano che il tempo passava, avevo preso l'abitudine di curare i miei acciacchi. Acciacchi che -in seguito alla riscoperta di me, quella notte di febbraio alle maledette 4.40 circa- sembravano spuntare come erbetta selvatica. Così, assumevo ormai una quantità indefinibile di medicinali: per l'ansia, per il cuore, per il formicolio e per il bruciore, persino per l'incontinenza. Ed ogni pasticca mi riempiva il cuore. Era come se mi sentissi innamorato, mi metteva allegria sapere che quegli affarini mi avrebbero allungato la vita. Era rincuorante pensare che degli esseri inanimati mi rendevano giovane come qualcun altro -animatonon era riuscito a fare. Loro erano la mia fonte dell'eterna giovinezza, loro erano il mio successo imperituro! Ogni volta che ne assumevo una cantavo. E mi imbellettavo. Fingendomi un giovanotto mi creavo un fiore con la carta di giornale e lo inserivo nel mio occhiello. Quindi immaginavo di corteggiare una bellissima bionda eccentrica, per poi amarla e rifiutarla e riamarla. All'infinito. Convinto di essere tornato giovane perché non mi orinavo il pantalone e perché dopo la pastiglia, per circa due ore, potevo fare a meno del bastone, presi a rifiutare anima e corpo l'immagine di mia moglie. Ogni volta che la sua figura mi tornava alla mente non potevo fare a meno di ridere come un forsennato. Ridevo a tutto spiano; ridevo fino a piangere, fino a contorcermi. Ridevo per ore intere e, ahimè, non poterono bloccarmi neppure le pastiglie per l'incontinenza! Me la facevo sotto dalle risate. E non me ne vergognavo, tutt'altro, me ne compiacevo proprio! Il trentuno ottobre decisi di uscire dalla mia casa che, come una tana, una cella o che so io, mi

aveva protetto per nove mesi dal mondo e dai giovani di vent'anni. Non andai molto lontano. Mi recai in una mia proprietà: Un fazzoletto di terra dalla forma esagonale. Per caso notai che il perimetro disegnava una bara. Quindi mi venne in mente di gettare lì tutto ciò che della mia vita era per me morto. Costruii, dunque, una lapide che portava il nome di mia moglie. Le date: 09-08-1956 e 31-10-2011. Ecco fatto. Le portai qualche fiore, ma di carta. E con un fazzoletto a rombi verdi mi asciugai le lacrime. Tornai lì il due novembre, per completare il mio lavoro: la tomba della signorona era quasi terminata! La lapide era pronta: due pezzi di legno a formare una croce ed un'incisione col coltellino. Completai il resto: dovevo scavare e seppellire due cuscini. Sarebbe sembrato più realistico -pensavo-. Faticai moltissimo, ma dovetti arrestarmi non appena una sveglia che portavo in tasca suonò: era l'ora della pastiglia. Quella per il formicolio. La presi. Incominciai a sentire il cuore correre, correre, correre e correre ancora. E poi di nuovo, in crescendo, sempre più forte, più forte, più forte e poi un silenzio mi perforò le orecchie sproporzionate. Caddi a terra, sopra il finto corpo di mia moglie. La sveglia sbucò dalla tasca e continuò a saltellare col suo TI-TI-TI-TI. Dovevo arrestarmi: era l'ora della mia morte. Ed una formica mi zampettò sulla caviglia...

3.1.2 Salvati Salvador

(1° testo)

Scena I

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