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E Boutet, Cronaca drammatica Teatro dei Fiorentini Punti sugl’I cit.

Un incontro mancato: la compagnia «stabile» del teatro dei Fiorentini (1879) 63

«certa verità shakespeariana» di cui aveva scritto Verdinois: il critico del «Corriere del mattino» osserverà infatti nell’ot- tobre – Emanuel recita ora, e significativamente, la parte di Oreste – che l’attore «manca talvolta di calore, forse perché l’artista, troppo in guardia contro sé stesso, teme di eccedere, di far troppo»49.

E così, dall’Assommoir all’Oreste, nell’arco di poco meno di un anno il cerchio si chiude: saranno infatti proprio il timore di eccedere, la sorvegliata ricerca di una sobrietà espressiva priva di punte, una certa asciutta e a tratti un po’ arida disin- voltura dell’incedere in scena a caratterizzare il naturalismo della maturità di Emanuel e a portarlo di qui a poco anche a una prima formulazione teorica della nuova poetica con il pamphlet polemico Rossi o Salvini?, scritto da Emanuel nei mesi estivi del 1880 come a suggellare la recente e ricca espe- rienza napoletana.

A differenza di quanto abbiamo visto accadere nel caso di Emanuel, l’accoglienza nei confronti di Giacinta Pezzana si era rivelata da subito piuttosto contrastata. Nel febbraio del ’79, poco prima dell’avvio della «stabile», un giornale napo- letano riportava una graffiante stroncatura alle recite fuori Napoli del suo Amleto presentato per la prima volta in Italia dopo l’esordio cubano e messicano del 1878; l’operazione della Pezzana veniva giudicata non soltanto velleitaria ma anche poco riuscita: sul piano dello stile, la sua recitazione appariva secondo il cronista troppo caricata, innaturale e «declamata»50. E dopo l’inizio della stagione al teatro dei Fio-

rentini chi scriveva su di lei riferiva spesso di un suo progres- sivo distanziarsi dalla poetica del «vero». Verdinois lamentava nella sua recitazione la presenza sempre più ingombrante di una «declamazione cantata»51 e di una «innaturale amplia-

zione dei vocaboli a cui essa s’abbandona»52. E già il cronista

del «Fanfulla» nel corso delle recite romane per affiatare la compagnia e riferendosi a Messalina aveva osservato: «Ma se

49. S.i.a., Arte ed artisti, in «Corriere del mattino», n. 281, 10 ottobre 1879. 50. Si tratta di un articolo del «Bacchiglione» di Padova, riportato il 5 febbraio

sulla «Gazzetta di Napoli»: S.i.a., L’Amleto rappresentato dalla Pezzana, in «Gazzetta di Napoli», n. 36, 5 febbraio 1879.

51. F. Verdinois, Il primo teatro di prosa. Giacinta Pezzana Gualtieri, in «Corriere del

mattino», n. 103, 14 aprile 1879.

Attori e scena nel teatro italiano di fine Ottocento Armando Petrini 64

dobbiamo dire umilmente il nostro parere, la valente attrice canta un pochino i suoi versi. […] Qua e là Messalina ebbe pose scultoree e gesti maestosi, ma poco affetto nella voce e nell’espressione»53. Ma era soprattutto Boutet, come ovvia-

mente ci si poteva aspettare, a lanciare gli strali più accumi- nati contro Giacinta Pezzana: i personaggi che lei e Majeroni recitavano venivano riconosciuti dal giovane critico napole- tano come «tanti eroi colla sfoglia di princisbecco e imbottiti di cartapista, duri, stecchiti, impassibili, senza cuore, senza lagrime, senza pallori, senza spasimi, senza torture studiate nella vita di tutt’i giorni, artefatti, convenzionali, fili di ferro e molle d’acciaio». E ancora, nella recitazione della Pezzana «la voce ha intonazioni assordanti da pergamo di villaggio, il gesto è baroccamente trinciante; tutto compassato, misurato, fatto a peso di carbone, di un convenzionalismo da far venire la pelle d’oca. Declama, declama sempre»54.

Ma non bisogna lasciarsi trarre in inganno: non c’è qui solo il lamento di un critico difensore del naturalismo che si ostina a non voler comprendere l’arte tipica della Pezza- na, che pure quei «fili di ferro e molle d’acciaio» rievocano piuttosto chiaramente; la recitazione di quest’ultima stava in effetti significativamente cambiando e pur se Boutet inter- preta a modo suo i cambiamenti che ha modo di osservare, le cronache del periodo testimoniano comunque dell’allon- tamento di Giacinta Pezzana dal realismo spigoloso e intenso, caratterizzato per le spezzature e le discontinuità, di cui si è detto nel capitolo precedente. Il cronista del «Roma», giu- dicando la sua Margherita nella Signora dalle camelie, riferiva di «inflessioni di voce alquanto cadenzata» e di un modo di «pronunciar parole e frasi staccate, a pause per lo più uguali»55 suggerendo complessivamente un certo qual senso

di monotonia espressiva confermato da quella «strana len- tezza» del suo dire che notava Verdinois56. Si affaccia qui un

tratto della recitazione di Giacinta Pezzana che resterà co- stante da ora fino al temporaneo abbandono delle scene nel 1887, una nota come di «trascuranza» e di «svogliatezza» che

53. Lamba, Teatri, in «Fanfulla», n. 60, 5 marzo 1879.

54. E. Boutet, Cronaca drammatica. Teatro dei Fiorentini. Punti sugl’I cit. 55. S.i.a., Notizie artistiche e teatrali, in «Roma», n. 73, 14 marzo 1879. 56. S.i.a., Arte ed artisti, in «Corriere del mattino», n. 174, 25 giugno 1879.

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rivelava in lei, scriveva il critico che si firmava Unus Nullus, «una specie di sfiducia nell’arte, in sé stessa, nel pubblico»57.

Non è certo un caso che questo processo fosse destinato a sfociare nella Teresa Raquin in cui la trentottenne Giacinta Pezzana, recitando un testo di Zola reduce da un clamoroso insuccesso parigino, sceglieva per sé non la parte della prima attrice – Teresa, affidata invece a Eleonora Duse – ma della vecchia madre di Teresa, la signora Raquin. La quale per di più concentrava il grosso della sua parte nel finale del terzo atto, quando sopraggiungeva la paralisi, e nel quarto, che prevedeva una sua presenza muta in scena tranne che per la battuta finale. Scriverà a questo proposito Celso Salvini:

Teresa Raquin, che segnò l’apogeo della sua gloria, fu an-

che il principio della decadenza di Giacinta Pezzana. Ne fu, secondo me, anche una causa. Perché l’attrice, già troppo presto sfiorita e invecchiata, ricevette da quella interpreta- zione di vecchia paralitica il colpo di grazia. E fu come se lo fosse andato a cercare58.

Recitare una patologia – la paralisi della signora Ra- quin – non comportava qui, come invece accadeva nell’As- sommoir di Emanuel, una accentuazione dei tratti naturalistici dell’espressione e significava piuttosto un sorvegliato lavoro di elaborazione tipica. Leggiamo quanto ricorderà più tardi Mario Corsi in riferimento alla Teresa Raquin: «Il realismo dell’interprete non era riproduzione fotografica del vero; ma espressione d’arte perfetta. L’attrice sapeva conciliare quanto v’è in ogni carattere umano con le supreme leggi dell’arte»59. Significativo da questo punto di vista l’esempio

della «licenza artistica» che si concedeva la Pezzana nel reci- tare il quarto atto, quando, contrariamente alle indicazioni di Zola che avrebbero voluto il personaggio di Madame Ra- quin perfettamente immobile in scena, Giacinta Pezzana dava «alla riproduzione della paralisi il carattere del tremito del capo». Rispondendo alle accuse che le venivano mosse l’attri- ce scriveva così: «Come vi sono licenze poetiche pei poeti, io