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Giacinta Pezzana partecipa ai due esperimenti di compagnia

«stabile» forse più importanti fra quelli che vengono tentati in Italia fra la fine dell’Ottocento e i primi anni del Novecento: la compagnia del Teatro d’Arte di Torino nel 1898 e la Dram- matica compagnia di Roma diretta da Edoardo Boutet fra il 1905 e il 1908. Due esperimenti molto simili fra loro, fatta salva la risonanza e anche il rilievo maggiore del secondo rispetto al primo, all’interno dei quali il ruolo e il destino di Giacinta Pezzana si riveleranno essere del tutto analoghi.

Come si è già argomentato in precedenza, la consapevo- lezza della necessità di una forma di «stabilità» è ben radicata in alcuni fra gli attori più importanti dell’Ottocento italiano: Gustavo Modena, Giacinta Pezzana, Giovanni Emanuel e per certi versi anche Ermete Novelli ed Eleonora Duse. Alcuni di essi sono inoltre particolarmente sensibili ai temi dell’«af- fiatamento», della «messinscena», dell’abolizione dei ruoli e dell’attenzione al repertorio. Si tratta di attori mossi da autentici ideali d’arte e che perciò mal sopportano il «me- stiere», con tutte le sue costrizioni e soprattutto con quel suo rendere molto difficile ciò che per un artista risulta invece essenziale, e cioè la possibilità di mettere in discussione e perciò di approfondire e di coltivare la propria arte. Anche se poi, come è ovvio, lavorando comunque all’interno del mer- cato nessuno di loro – artista di un’arte che non vive senza un pubblico – potrà andare immune dal «mestiere», ciascuno a suo modo e ciascuno in contraddizione più o meno cosciente e problematica con se stesso. Ma è pur vero che l’«artista» è

Il ritorno al teatro di Giacinta Pezzana

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proprio colui che, nonostante tutto, riesce a fare anche del «mestiere», e attraverso il «mestiere», una forma d’arte.

Ma a fine Ottocento alcuni critici – fra tutti spiccano Ga- spare di Martino ed Edoardo Boutet – pongono con forza il problema della «stabilità» della compagnia in termini di riso- luta e non dialettica contrapposizione al teatro d’attore, come se un teatro basato sulle idealità e sulla forza artistica degli attori fosse di per sé inconciliabile con un progetto di compa- gnia «stabile», ignorando o fingendo di ignorare che proprio da parte di alcuni attori era stato abbozzato a più riprese negli anni precedenti un progetto per la realizzazione di una compagnia con le caratteristiche della stabilità. Dimenticanza ovviamente non casuale, perché del tutto funzionale a far passare, attraverso il concetto di «stabilità», di per sé non così controverso, un’idea di teatro complessiva, questa sì molto controversa, in cui l’attore veniva ridotto a «braccio» delle intenzioni dello scrittore drammatico (che Boutet definisce il «cervello») e del «direttore», il cui compito era mediare il rapporto fra il primo e il secondo.

Giacinta Pezzana, una delle attrici in cui era più fortemen- te radicata in questi anni l’idea della bontà – e, di più, della necessità – di una forma di stabilità, viene non per caso coin- volta tanto nel progetto del Teatro d’Arte di Torino quanto nella «follia» di Boutet pochi anni più tardi. E altrettanto poco casualmente ne viene emarginata quasi subito, perché in entrambe le circostanze la sua presenza ostacola di fat- to la realizzazione del vero obiettivo tanto di Lanza quanto, soprattutto, di Boutet, di un teatro cioè basato su attori al servizio delle due figure che ora tendono a proporsi come i veri «signori» della scena, lo scrittore drammatico e il direttore.

Silvio d’Amico, il critico che raccoglierà e porterà a una prima parziale affermazione l’ideologia teatrale di Boutet, imputerà il fallimento della «stabile» romana al dissidio fra lo stesso Boutet e il primo attore della compagnia, Ferruccio Garavaglia. Commentando l’epilogo di quell’esperienza, con- sumatosi con l’uscita di scena di Boutet, d’Amico scriverà: «Il mattatore aveva vinto; l’animatore s’era ritirato sconfitto»75,

confondendo i piani del discorso e dimenticando che non

75. S. d’Amico, Edoardo Boutet e il sogno della «stabile», in Invito al teatro, Brescia,

Attori e scena nel teatro italiano di fine Ottocento Armando Petrini 168

era stato solo Boutet a ritirarsi ma, prima di lui, l’unica attrice della compagnia che avrebbe potuto eventualmente fregiarsi dell’appellativo di «mattatrice», e cioè Giacinta Pezzana. La «mattatrice», in questo senso, aveva perso una battaglia e sta- va perdendo la sua guerra, l’«animatore», pur qui sconfitto, si apprestava invece a vincere un confronto molto più im- portante. Una ricostruzione non corrispondente alla realtà, quella di d’Amico, che costituisce un episodio storiografico di grande rilievo perché è proprio di qui che prende le mos- se una storia falsata dei rapporti fra l’evoluzione della scena teatrale italiana e la figura del «grande attore», falsata perché basata su un’idea e un’immagine parziale e di comodo dei modi di porsi del «grande attore» nei confronti del teatro di inizio secolo e dei suoi mutamenti.

La caratteristica principale che contraddistingue i due tentativi del Teatro d’Arte di Torino e della Drammatica com- pagnia di Roma è quella di basarsi sulla direzione di un uomo di lettere e non di un attore: Domenico Lanza nel primo ca- so, Edoardo Boutet nel secondo. In entrambe le circostanze si tratta di una scelta niente affatto casuale frutto di un’ana- lisi precisa del «sistema del palcoscenico di prosa italiano»76;

Boutet la esprime con estrema lucidità nel suo pamphlet La mia follia. Il teatro italiano, scrive Boutet, possiede «energie egregie» che «bene avviate potrebbero risultare contributo prezioso», ma è anche il luogo dove si addensano «gli errori e i traviamenti più sciagurati, i quali rendono vano lo sforzo al fine di un probabile teatro italiano»77. Il motivo, dal punto di

vista di Boutet, è semplice: l’incapacità pressoché congenita dell’attore di elevarsi alle ragioni dell’arte. Infatti, «poiché l’attore non ha la coltura occorrente all’arte sua, – non l’ha –; e gli manca quindi la sana critica che dalla coltura deriva e consente discernere quello che le forze proprie permettono o no, resta guida la vanità». E ancora: «l’attore, scelgo il caso migliore, anche nei sommi gradi, nulla ha, tranne lo sponta- neo ingegno, e i risultati che lo spontaneo ingegno produ- ce, nelle più ammirevoli manifestazioni»78. L’unica soluzione

adeguata è lasciare finalmente alla guida dei palcoscenici il

76. E. Boutet, La mia follia, Roma, M. Carra & C., 1908, p. 13. 77. Ibid., pp. 12-13.

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vero «cervello» del teatro, di chi cioè può difendere le vere ragioni dell’arte, che coincidono, ovviamente, con le ragioni della scrittura drammatica79: «In sostanza, senza tante chiac-

chiere, padrone della scena è diventato non il cervello che vede che guida che addita, ma il braccio che deve operare: l’azione fa a meno del pensiero, non l’ammette anzi: ne in- frange la necessaria armonia»80.

Il 1898, anno dell’esordio della compagnia del Teatro d’Arte di Torino, è anche l’anno in cui a Mosca Konstan- tin Stanislavskij e Vladimir Nemirovicˇ-Dancˇenko fondano il loro Teatro d’Arte; e in quello stesso 1898, la Direzione del teatro torinese ipotizza di chiamare la compagnia che di lì a poco prenderà il via «Teatro libero» con riferimento agli esperimenti che da ormai più d’un decennio André Antoi- ne andava realizzando a Parigi81. Eppure la coincidenza e i

richiami sono soltanto superficiali; non per questo del tutto casuali, ovviamente, dal momento che quello che avviene in Italia, pur nelle sue specificità, è certamente collocabile in un più ampio e generale mutamento del teatro europeo, ma ciò non toglie che la declinazione italiana di questo cam- biamento assuma delle caratteristiche del tutto particolari e molto diverse da quelle assunte da altre esperienze europee.

Pur se forse complessivamente meno limpidi e più discuti- bii di quanto la consueta ricostruzione storiografica non lasci vedere gli esperimenti di Stanislavskij e di Antoine hanno comunque un respiro teorico e una capacità di analisi e di pe- netrazione del linguaggio teatrale quasi del tutto assenti nei tentativi di «ammodernamento» della scena operati in Italia nello stesso torno di tempo. Qui, compagnie come il Teatro d’Arte di Torino o la «stabile» di Boutet tentano di dare vita