113, 22-23 aprile 1878.
100. Jarro [G. Piccini], Rassegna drammatica, in «La Nazione», n. 237, 25 agosto
1890.
101. M. Uda, Arte e artisti, vol. I, Napoli, Pierro e Veraldi, 1900, p. 164.
102. Recensione di Felice Uda riportata in «L’Arte drammatica», n. 8-9, 1 gennaio
1876, p. 3.
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faccia di quel meraviglioso poliedro artistico che è il perso- naggio di Amleto»104. Ma la testimonianza più interessante
è costituita dalle parole del recensore del «Piccolo Faust» che descrive la scena con Ofelia, giudicata una delle migliori dell’intero lavoro:
È qui opportuno aggiungere a maggior lode dell’Ema- nuel che il dialogo con Ofelia lo ha trattato in modo da corre- re il rischio di cadere in parodia ove non fosse stato sostenu- to maestrevolmente su quell’arduo sentiere che corre fra il sublime ed il ridicolo, e con questo noi intendiamo constatare uno dei fatti che più di tutti debbono provare l’abilità di un artista, il girare cioè sull’orlo di un precipizio senza cadervi, occorrendo perciò in chi lo fa quella perizia nella ginnastica
dell’arte che non è tanto facile trovare oggi giorno in cui
facilmente si salta il fosso105.
Dove si intuisce che quell’impronta «comica» aveva come effetto un particolare equilibrio nella recitazione fra la nota «sublime» che tutto sommato apparteneva ancora a questo Amleto doloroso emblema del proprio tempo – da questo punto di vista, e nonostante ciò che pensava Emanuel, ancora vicino alla sensibilità romantica106 – e uno spiazzante tratto
«ridicolo» in cui quell’eroe che negava l’eroismo, tutto sbalzi e disequilibri, non poteva in alcuni momenti non scivolare. Un singolare mescolarsi di tragico e di comico che suggeri- va, accanto al contraddittorio rifiuto del sublime romantico, una timida ma percettibile (e altrettanto contraddittoria) coscienza dell’impossibilità del sublime tout court.
Ma Emanuel – e in ciò ritroviamo probabilmente uno dei limiti più rilevanti della sua arte – non va mai davvero fino in fondo alle cose; e in questo Amleto manca forse l’essenziale, viste le premesse: l’effettivo impasto di tragico e di comico. Emanuel infatti giustappone la nota comica all’accento più propriamente «tragico» (peraltro aiutato da un testo che al- meno fino a un certo punto lo pretende), ma non sembra
104. L. Fortis, Corriere dei teatri, in «Il Pungolo», n. 358, 22 dicembre 1875. 105. Piccolet, L’Attore G. Emanuel nell’Amleto.II, in «Il Piccolo Faust», n. 1, 10 genna-
io 1876, p. 2.
106. Questo Amleto ricorda il «personaggio enorme, in cui finisce col condensare
il significato di una società e di un momento storico» che coincide, scriveva Gio- vanni Macchia, con uno dei tipici «elementi romantici della rappresentazione» (G. Macchia, I fantasmi dell’opera cit., p. 137).
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mai realmente toccato dall’idea che l’impossibilità tutta mo- derna del sublime comporti ineluttabilmente la risata tragica o il pianto comico e cioè la risata che è nello stesso momento tragica o il pianto che è nello stesso momento comico, limi- tandosi a far seguire al comico il tragico e viceversa.
Eppure, nonostante questa come altre incertezze, non mancano nell’Amleto di cui stiamo parlando tratti sottilmente e autenticamente spiazzanti. La stessa cifra «realistica» della recitazione non assumeva ancora qui – lo si è già accenna- to – i contorni di una sensibilità propriamente e interamente naturalistica e non rimandava quindi ancora al sublime tipico di quella poetica, come accadrà invece per l’Emanuel matu- ro. L’«eccessivo realismo» che «impicciola» Amleto, voluto da Emanuel e amplificato dalla traduzione «fredda e dilavata» di Luigi Fontana107, non si risolveva in un tentativo di imitazione
banalmente naturalistica della realtà, e coincideva piuttosto con l’espressione «chiara» ed «estrema» tipica del realismo in arte108, comportando un’attenzione al dettaglio che, ancor
prima di un intento mimetico, sembrava avere soprattutto la funzione di spiazzare l’attenzione del pubblico. Così avveni- va per esempio durante la scena della recita a corte (che è sempre, anche nel caso di Rossi, l’occasione per una mise en abîme del significato complessivo dello spettacolo) quando Emanuel esaspera il gesto del giocare con il mantello: «gli raccomandiamo – scrive Fortis – di guardarsi da quel conti- nuo giuocare col suo mantello – che ripete in tutta la scena, ora stendendolo, ora trascinandolo, ora toccandolo». O poco dopo, nella stessa scena, con «quello stendersi supino prima, e bocconi poi ai piedi di Ofelia – che ci pare inartistico»109.
107. L. Fortis, Corriere dei teatri, «Il Pungolo», n. 358, 22 dicembre 1875. Fontana
lavorò alla traduzione mantenendosi in stretto contatto con Emanuel. Se ne ha una testimonianza indiretta – se mai ce ne fosse stato bisogno, vista la meticolosità di Emanuel nel preparare questo Amleto – in una lettera dello stesso attore a Felice Cavallotti risalente alla primavera del 1874 in cui si legge: «Dì a Fontana che presto gli scriverò riguardo all’Amleto» (BF, lettera del 20 aprile 1874). D’altra parte Fon- tana dovette avere ben presenti le ragioni della scena se, dopo avere giudicato nel 1873 «un raffazzonamento a capriccio», «sprezz[ante] ogni regola drammatica» il consueto – perché risalente a Garrick – cambiamento nell’ordine delle scene fra secondo e terzo atto nell’Amleto di Ernesto Rossi, riproduceva poi esattamente quella stessa sequenza modificata rispetto all’originale nella traduzione per Ema- nuel (Si veda L. Fontana, Appendice, in «La Riforma», n. 158, 9 giugno 1873).
108. G. Lukács, Saggi sui realismo cit., p. 61.
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Si tratta di quel tipo di dettagli che Giovanni Bottiroli in un saggio dedicato alla teoria dello stile e nell’ambito di una rifles- sione sul «discorso realista» ha definito «prospettici»; che ge- nerano cioè in chi guarda un conflitto fra la familiarità della potenziale riproduzione mimetica e l’imprevedibilità spiaz- zante del particolare, arricchendo così la densità dell’espres- sione e amplificando il valore cognitivo del dettaglio stesso: «i dettagli di questo tipo – argomenta Bottiroli – offrono un’occasione – non un’informazione nuova, non qualcosa di nuovo, ma un nulla che fa emergere tutto» e vanno perciò tenuti ben distinti dai dettagli «fattuali», banalmente mime- tici e tassonomici, che cancellano la densità dell’espressione e rafforzano lo stereotipo (i dettagli propri del naturalismo, diremmo noi)110. Questo primo Amleto di Emanuel era fatto
essenzialmente di dettagli pungenti, il cui compito consisteva nello sviare lo spettatore tanto dallo stereotipo della recita- zione basso romantica, quanto dalla povertà semantica di un linguaggio della scena debolmente naturalistico. Il giocare con il mantello, lo sdraiarsi «inartistico» ai piedi di Ofelia, gli scatti espressivi improvvisi, il subitaneo passaggio dal registro «comico» a quello «tragico», quel singolare mantenersi in bilico fra l’uno e l’altro, indicano uno stile tagliente, in parte dissonante, che pur se non viene portato alle sue estreme conseguenze, si mostra capace a tratti intelligentemente di spiazzare, anziché confermare, le attese dello spettatore. E ancora, «umanizzare» Amleto coincideva qui con uno «spie- gare» Amleto. Sin dalla traduzione del testo, con quel ricorre- re a «frasi allungate, stemperate, ridotte quasi a parafrasi»111.
Ma poi soprattutto attraverso le scelte espressive di Emanuel, con quell’evidenziare sempre l’attore che indica, descrive il personaggio. Felice Uda osservava che Emanuel «spieg[a] Amleto»: «e se talvolta fu meno il personaggio che sé stesso, il pubblico comprese che ciò era una conseguenza del metodo che si era imposto»112. Il linguaggio della scena di Emanuel si
colora qui di un certo didascalismo originato dal fondamen-
110. G. Bottiroli, Teoria dello stile, Firenze, La Nuova Italia, 1997, pp. 263-264; più in
generale si vedano le pp. 245-268.
111. F. Filippi, Teatri e notizie artistiche, in «La Perseveranza», n. 5804, 22 dicembre
1875.
112. Recensione di Felice Uda riportata in «L’Arte drammatica», n. 8-9, 1 gennaio
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tale tratto antiemozionalistico della sua recitazione: l’Amleto di Emanuel era «un vero e proprio filosofo, duro, stecchi- to» a cui era stata strappata «ogni qualità mondanamente umana»113, tutto giocato su di un’espressività fredda, algida,
e perciò didascalica.
Emanuel non aveva certo inteso fino in fondo la com- plessità dell’Amleto di Rossi. Si era fermato alla superficie, forse incapace di distinguere fra l’«oro» e il «fango» e aveva definito con troppa sufficienza – probabilmente dettata an- che dall’ardore polemico del giovane che vuole scalzare ciò che gli appare come vecchio – «barocchismo» quella straor- dinaria capacità di Rossi di «fissare l’incomprensibile». No- nostante il fraintendimento però, questo primo Amleto – pur riflettendo alcune di quelle incomprensioni – ha delle ca- ratteristiche che lo rendono ai nostri occhi particolarmente interessante: il giovane Emanuel è qui tutto sommato ancora distante dalla poetica più compiutamente naturalistica che di lì a poco tenderà a sottrarlo agli esiti contraddittori ma in fondo stimolanti di questo suo primo periodo di attività.
113. G. De Viti Demarco, L’Amleto di Shakespeare e l’Amleto di Ernesto Rossi cit., p. 289.
Significativo da questo punto di vista un articolo pubblicato sulla «Nuova Torino» nel 1876 e ripreso in prima pagina sull’«Arte drammatica», in cui, con riferimento alle forti censure della critica inglese nei riguardi dell’Amleto di Rossi – giudicato troppo caricato in quel suo «temperamento esuberante del caldo sangue meri- dionale» (cit. in D. Orecchia, Il sapore della menzogna cit., p. 65) – si invitava il più freddo e misurato Emanuel a prendere in considerazione l’ipotesi di recitare il suo Amleto a Londra: «se m’avessi vicino il simpatico Emanuel, gli direi in un orecchio: Venite a Londra, che il vostro Amleto sarà molto ammirato» (C.A. Manzoni, Rossi, Salvini ed Emanuel, in «L’Arte drammatica», n. 27, 4 maggio 1876, p. 1).
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L’anno comico 1879-1880 e i mesi che immediatamente l’ave- vano preceduto rappresentano per gli attori di cui ci stiamo occupando un momento di svolta, un autentico passaggio chiave rispetto al quale si può significativamente stabilire un prima e un poi. Sono i fatti stessi, anzitutto, a suggerirlo: i due attori più interessanti del momento, Giacinta Pezzana e Giovanni Emanuel, reduci da una serie di prove importanti (di cui abbiamo in parte detto), abbandonano entrambi il capocomicato per recitare insieme in una compagnia «sta- bile» con sede al teatro dei Fiorentini di Napoli. L’inizia- tiva ha un risalto che va ben al di là dell’interesse locale, suscitando l’attenzione anche di molti importanti quotidiani non napoletani e di tutte le riviste specializzate nazionali, configurandosi perciò come un episodio di grande rilievo. Ma è senza dubbio anche il nostro sguardo retrospettivo a determinare l’importanza di quell’avvenimento: con il «sen- no di poi» guardiamo con più interesse ai primi significativi riconoscimenti attribuiti a Eleonora Duse, ventenne amorosa della compagnia; alle «nuove» prove d’attore di Emanuel, che muove a rapidi passi verso una concezione naturalistica del teatro soprattutto con L’acquavite (tratto dall’Assommoir di