CAPITOLO II Il sistema italiano dei licenziamenti individuali
2.2. a Breve digressione: il «fatto contestato» al lavoratore e la sua «insussistenza»
Nella nuova formulazione dell’art. 18 St. Lav. la reintegrazione sopravvive solo in
casi specifici, tassativamente individuati.
Oltre che nel “caso-limite” di licenziamento discriminatorio, ritorsivo o intimato per
motivo illecito, si tratta dell'ipotesi di «insussistenza del fatto contestato» e del caso in cui
«il fatto rientra tra le condotte punibili con una sanzione conservativa sulla base delle previsioni dei
contratti collettivi ovvero dei codici disciplinari applicabili», per quanto attiene al
licenziamento per ragioni soggettive; mentre, per quanto riguarda invece il
licenziamenti per motivo oggettivo, della «manifesta insussistenza del fatto posto a base del
licenziamento».
Decisivo è dunque stabilire quando di possa parlare di «insussistenza del fatto» e, forse
prima ancora, in che cosa esattamente consista il “fatto” la cui insussistenza rivesta
tale carattere decisivo. In particolare, si discute se questo vada inteso come mero
“fatto materiale”, cioè quale mero evento storico su cui il datore di lavoro fonda il
licenziamento, oppure “fatto giuridico”, e cioè giuridicamente qualificato e rilevante.
Il primo orientamento propende per il “fatto materiale” in sé considerato
316, da
intendersi come fenomeno della realtà materiale privo di qualsiasi connotato
soggettivo.
Oltre alla pluricommentata ordinanza del Tribunale di Bologna
317, tale
interpretazione normativa è stata fatta propria anche da alcune ordinanze del
Tribunale di Milano (28 novembre 2012, est. Casella; 20 gennaio 2013, est. Lualdi) in
cui i giudici, mantenendo separate le due fasi valutative [ovverosia, i) accertamento
dell'esistenza materiale del fatto addotto dal datore di lavoro e ii) valutazione della
relativa gravità e configurabilità come giusta causa o giustificato motivo], accertata la
sussistenza dei fatti «nella loro materialità» e valutato il licenziamento come sanzione
316 Tra gli studiosi che hanno accolto tale interpretazione, M.L. GALANTINO, La riforma del regime
sanzionatorio dei licenziamenti individuali: le modifiche all‟art. 18 dello statuto dei lavoratori, in G. PELLACANI (a cura
di), Riforma del lavoro. Tutte le novità introdotte dalla legge 28 giugno 2012, n. 92, Milano, 2012, 231 e ss.; A. MARESCA, Il nuovo regime sanzionatorio …, 2012, 415 e ss.; T. TREU, Flessibilità e tutele nella riforma del lavoro, in CSDLE.It, 2012, n. 155, 1 e ss.
317 Trib. Bologna, ord. 19 novembre 2012, in Riv. it. dir. lav., 2013, II, 271 ss., con note di P. ICHINO, Quando
il giudice confonde il difetto di giustificato motivo con il motivo illecito, e di F. SCARPELLI, Giustificato motivo di recesso e divieto di licenziamento per rifiuto della trasformazione del rapporto a tempo pieno.
non proporzionata per gli stessi fatti, hanno quindi condannato il datore di lavoro
alla corresponsione della sola indennità risarcitoria, e non alla reintegrazione.
Tuttavia, tale interpretazione per cui il fatto è un mero accadimento materiale privo
di connotazione giuridica rischia di portare a ritenere “fatto sussistente” qualsiasi
fatto, anche assolutamente e pacificamente lecito, compiuto dal lavoratore e addotto
a motivo di licenziamento dal datore.
Insomma, il giudice parrebbe quindi essere chiamato solo alla elementare distinzione
tra l’essere ed il non essere, con la conseguente limitata applicabilità della
reintegrazione nelle (davvero poco probabili) ipotesi di errore madornale del datore
di lavoro che attribuisca al lavoratore un fatto materiale insussistente, perchè mai
verificatosi ovvero a lui non addebitabile.
Diversamente, un’altra pronuncia del Tribunale di Bologna (ordinanza del 15
ottobre 2012) ha inaugurato il secondo orientamento, intendendo il fatto come
un unicum globalmente accertato in tutti i suoi profili oggettivi e soggettivi, e, ciò che
più rileva, valutato anche nella sua gravità (tanto da far dipendere, nella fattispecie, la
valutazione in ordine alla insussistenza del fatto, sanzionabile appunto con la
reintegrazione, dalla «modestia dell'episodio, nella sua scarsa rilevanza offensiva e nel suo
modestissimo peso disciplinare
318»). Di conseguenza, pur riconoscendo l'esistenza del
fatto storico (nella specie, l'invio di una mail offensiva da parte del lavoratore), il
Tribunale lo ha ritenuto - alla luce dell'elemento psicologico, del grado di colpa e
della gravità del fatto - inidoneo a integrare giusta causa, dichiarando dunque
illegittimo il licenziamento e disponendo la reintegra del lavoratore
319(analogamente, lo stesso Tribunale di Bologna - con ordinanza del 25 settembre
2012 -, pur di fronte a un fatto incontestabilmente vero e accaduto, ha sempre
ritenuto insussistente la giusta causa e disposto la reintegrazione).
318 Trib. Bologna, ord. 15 ottobre 2012 (est. Marchesini), in www.lavoroediritto.it,secondo cui riferendo la formula «insussistenza del fatto» al solo fatto materiale vi sarebbe una «violazione dei principi generali dell’ordinamento
civilistico, relativi alla diligenza ed alla buona fede nell’esecuzione del rapporto lavorativo, posto che potrebbe giungere a ritenere applicabile la sanzione del licenziamento indennizzato anche a comportamenti esistenti sotto l’aspetto materiale ed oggettivo ma privi dell’elemento psicologico o, addirittura, privi della coscienza o volontà dell’azione».
319 Diversamente, prosegue lo stesso giudice di merito, l’«insussistenza» non può essere letta come se «facesse
riferimento al solo fatto materiale, posto che tale interpretazione sarebbe palesemente in violazione dei principi generali dell‟ordinamento civilistico, relativi alla diligenza e alla buona fede nell’esecuzione del rapporto lavorativo, posto che potrebbe giungere a ritenere applicabile la sanzione del licenziamento indennizzato anche a comportamenti esistenti sotto l’aspetto materiale ed oggettivo, ma privi dell’elemento psicologico, o addirittura privi dell‟elemento della coscienza e volontà dell’azione» (ID.).
In senso conforme, un’altra pronuncia di merito ha rilevato che il fatto deve
intendersi come «fatto giuridico ..., cioè non come mera condotta materiale (azione/omissione,
nesso di causalità, evento), ma come condotta imputabile colposa, dovendosi altresì considerare il
disposto normativo di cui all'art. 2106 cod. civ. ..., dovendosi quindi trattare comunque di un
inadempimento disciplinarmente rilevante o astrattamente punibile con il licenziamento»,
sottolineando peraltro che una diversa interpretazione condurrebbe all’assurdo
logico per cui «anche una condotta del tutto lecita, nient’affatto inadempiente, o addirittura
doverosa del lavoratore, se sussistente, perché effettivamente posta in essere dal lavoratore, dovrebbe
ex sé giustificare il licenziamento disciplinare, posto che l'illegittimità di quest'ultimo predicherebbe
(solo) la materiale insussistenza della condotta»
320.
Con riferimento al giustificato motivo soggettivo, autorevole dottrina ha quindi
rilevato che «“giustificato motivo per insussistenza
321del fatto contestato” significa che
320 Trib. Taranto, ord. 3 giugno 2013 (est. Magazzino), estratto riportato da V. SPEZIALE, La riforma …, 2013, 22.
Conforme anche un’altra pronuncia di merito, secondo cui «il testo della norma discorre non semplicemente di “fatto”,
ma di “fatto contestato”. E ciò che viene contestato non è mai semplicemente un dato meramente materiale, senza contesto, bensì un comportamento valutato nella sua valenza disciplinare e collocato in un preciso contesto. E tale valenza disciplinare non infrequentemente é indissolubilmente connessa alle circostanze estrinseche di contesto oltre che a quelle intrinseche della condotta»
[Trib. Palmi, ord. 24 aprile 2013 (est. Sapone)].
321 Nella sola ipotesi del giustificato motivo oggettivo, il Legislatore specifica che la «insussistenza del fatto» deve essere «manifesta», secondo una linea di confine che autorevole dottrina, sottolineando l’ampliamento della discrezionalità dell’interpretazione giudiziale, ha correttamente ritenuto individuabile «soltanto scrutando le
profondità della mente del giudice» [così S. MAGRINI, Quel pasticciaccio brutto (dell’art. 18), in Arg. Dir. Lav., 2012, 3,
537], con buona pace dell’obiettivo legislativo della predeterminabilità dei rischi e dei costi per il datore di lavoro. In proposito, altro Autore ha commentato che «il futuro designato dal nostro riformatore è nel segno di tutto
potere al giudice, con un mix micidiale costitutito da un diritto sostanziale che gli concede esplicitamente un amplissimo ambito discrezionale ed un diritto processuale che gli riconosce apertamente un illimitato spazio manipolativo del rito speciale» (così F.
CARINCI, Complimenti, dottor Frankenstein …, 2012, 529).
Senza voler qui riproporre un copioso dibattito dottrinale, chi scrive fa propria l’interpretazione secondo cui la «manifesta insussistenza», anche al fine di mantenere e significare la - altrimenti incomprensibile - precisazione del Legislatore, è riferita ad una «evidente e facilmente verificabile assenza di presupposti giustificativi» (così O. MAZZOTTA, I nodi irrisolti del nuovo articolo 18 dello statuto dei lavoratori, in WP CSDLE.it “Massimo D’antona”, 2012, CLIX, 21), o, con altre parole, una insussistenza «palese» [P. ALLEVA, Punti critici della riforma del mencato
del lavoro in tema di flessibilità in entrata e in uscita. Interventi indispensabili, in www.dirittisocialiecittadinanza.it, 5 (ultimo accesso il 14 gennaio 2014)].
Solo completezza espositiva, la principale critica a tali argomentazioni sostiene che non sia corretto sostituire il concetto di «insussistenza» con quello di «percezione», vale a dire: «si rischierebbe, così, di subordinare il grado della
tutela applicabile ad elementi del tutto estranei alla fattispecie, quali la maggiore o minore complessità dell’organizzazione aziendale e, quindi, l’evidenza di una mancata giustificazione, piuttosto che la maggiore o minore abilità tecnica dell’estensore della lettera di motivazione del licenziamento … o della memoria difensiva» [così S. LIEBMAN, E. GRAMANO, La nuova disciplina delle tutele in caso di licenziamento illegittimo: il licenziamento per ragioni oggettive, in M. PERSIANI, S.
LIEBMAN (a cura di), Il nuovo diritto del mercato del lavoro. La legge n. 92 del 2012 (cd. “riforma Fornero”) dopo le
l’inadempimento del lavoratore non sussiste e cioè che il lavoratore non ha commesso alcun
inadempimento o ha commesso un inadempimento punito dai contratti collettivi con sanzione
conservativa e pertanto, essendo stato illegittimamente licenziato ha diritto di essere reintegrato
322».
Parte della dottrina
323condivide tale posizione sostenendo l'imprescindibilità
dell'elemento soggettivo e dell'intenzionalità della condotta, nonché la necessaria
proporzionalità della sanzione ex art. 2106 c.c., che imporrebbe la reintegra nel caso
di sanzione sproporzionata.
Per altra dottrina, tuttavia, «tale impostazione fa sorgere alcune perplessità: infatti, se si
considerasse il “fatto” come una fattispecie complessa, costituita non solo da elementi storici ma
anche valutativi, e cioè da una condotta proporzionata al licenziamento ed anzi tale da integrare
una giusta causa, si giungerebbe a un’interpretazione sostanzialmente abrogativa della Riforma
Fornero, riaccorpando i due diversi momenti valutativi - accertamento del fatto e valutazione della
relativa gravità - che la stessa aveva ritenuto di scindere, a ciascuno riconnettendo conseguenze
sanzionatorie diverse
324».
Con riguardo invece al giustificato motivo oggettivo, si è sostenuto che «la tesi che
identifica l’elemento posto a base del licenziamento in un fatto materiale deve fare i conti con la
considerazione che “fatto” e “valutazione giuridica del fatto” sono - necessariamente - intimamente
connessi nella determinazione del giustificato motivo oggettivo, così come accade in ogni sistema
giuridico in cui “fatto“ e “valore“ sono elementi inscindibili dell’ipotesi normativa dai quali non si
può prescindere».
In una delle prime pronunce di merito sul punto, si è poi sostenuto che il «concetto di insussistenza “manifesta”
impone all'interprete di cogliere con criteri soggettivi e temporali il senso della disposizione, che evidentemente intende sanzionare con maggior rigore un comportamento datoriale non solo illegittimo, ma particolarmente grave, che per questo lo obbliga al ripristino del rapporto e non solo al pagamento dell'indennità risarcitoria. Se questo è il senso della disposizione, la “evidenza” della illegittimità del recesso non può che rapportarsi alla posizione ed al punto di vista nonché alle conoscenze datoriali, quali erano all'atto del licenziamento (in tal senso si vuole qui proporre il criterio “soggettivo e temporale”)» (Trib. Reggio Calabria
3 giugno 2013, est. Morabito, R.G. n. 767/2013).
322 G. SANTORO-PASSARELLI, Il licenziamento per giustificato motivo e l’ambito della tutela risarcitoria, in Arg. Dir.
lav., 2013, II, 231.
323 Su tutti, cfr. V. SPEZIALE, La riforma …, 2013, 23, che parla di «argomentazioni difficilmente superabili» e di necessaria considerazione «nella sua dimensione complessiva di “fatto disciplinarmente rilevante”, inclusivo quindi della
imputabilità e dell‟elemento soggettivo considerato in tutti i suoi aspetti».
324 Così M. GIUSTINIANI, Riforma Fornero ed insussistenza del fatto a base del licenziamento, in www.aidp.it/riviste/articolo.php?id=1&ida=2420&idn=248&idx=248-33 (ultimo accesso 5 gennaio 2014).