Capitolo II Analisi economico manageriale
2.15 Breve excursus sul duplice valore delle industrie culturali
Innanzi tutto, è necessario sottolineare che le amministrazioni teatrali devono costantemente monitorare il proprio operato alla continua ricerca di una sostenibilità economica, mantenendo un elevata qualità dell’offerta culturale.
Dopo aver fatto un’attenta analisi degli indicatori economici, è necessario capire più a fondo la dinamica manageriale della macchina teatrale.
Innanzi, tutto il teatro va considerato come un’industria culturale ovvero un’organizzazione direttamente implicata nella produzione di significati socialmente condivisi, cioè un’attività il cui scopo primario è creare materiali culturali e comunicare con un pubblico (Hesmondhalgh, 2007).
A tal proposito Caves (2001) afferma che Il settore della creatività:
-È composto da organizzazioni i cui prodotti e servizi offerti contengono un elemento sostanziale rappresentato da uno sforzo artistico o creativo.
-Produce e distribuisce prodotti e servizi cui viene generalmente associato un valore culturale, artistico o di intrattenimento (editoria libraria e periodica; arti visive – pittura e scultura; arti rappresentate – teatro, opera, concerti, balletto; produzione discografica, cinematografica).
Dalla definizione di Caves emerge che ai prodotti ed ai servizi distribuiti dalle aziende dedite alla cultura, viene associato un valore culturale. Per cui risulta che le industrie culturali non solo producono beni e servizi, ma tali beni posseggono un valore, che non è solo monetario bensì umanistico. Infatti, il prezzo che viene attribuito al valore culturale non è composto solo da variabili economiche, ma anche da fattori umanistici. (Bosi, 2016).
Le industrie culturali di massa secondo Towse (2003) producono beni e servizi con sufficiente contenuto artistico da essere considerate creative e culturalmente significative. Le caratteristiche essenziali sono la produzione a scala industriale combinata con contenuti culturali.
Il contenuto culturale risulta maggiore dall'impiego di artisti esperti in un campo o in un altro, nella produzione di beni nelle industrie culturali, ma può anche risultare dal significato sociale che gli deriva dal consumo di beni stessi.
È utile pensare alle produzioni culturali come consistenti di due distinti aspetti: la creazione di contenuti e la loro distribuzione.
Per cui seguendo anche la definizione di Towse (2003) l’industria culturale si deve occupare della distribuzione di beni e servizi a scala industriale o semi-industriale, ma deve allo stesso tempo incaricarsi di produrre contenuti culturali significativi.
Quindi qualsiasi azienda culturale deve occuparsi sia dell’aspetto economico che dell’aspetto culturale. Per questo la “Mission” di un’organizzazione avente obbiettivi culturali, è fondamentale, perché essa stabilisce le priorità culturali che essa si incarica di ottemperare. Da ciò ne consegue che un’industria culturale deve trovare un giusto compromesso tra sostenibilità economica e offerta culturale che possa permettere all’azienda una corretta amministrazione.
Dietro i progetti culturali si nasconde una grande complessità, essa è visibile «già nella sola dimensione artistica che, per sua natura, non è mai rappresentabile linearmente» (Ferrarese, 2016, p.33, a). La complessità emerge principalmente dallo scontro di due forze una artistico-creativa e l’altra economica-manageriale; nel quale non sempre è raggiungibile un equilibrio, in quanto la sfera artistica è difficilmente standardizzabile e spesso le variabili quantitative economico-finanziarie entrano in contrasto con le variabili qualitative artistiche. (Ferrarese, 2016, a)
In particolare, le “performing arts” devono fare i conti con gli imprevisti ed i vari fattori di rischio legati alla prestazione che ad ogni alzata di sipario dimostra di essere unica ed irriproducibile. Baumol e Bowen (1966) spiegano come il settore delle “performing arts” rimanga costantemente incastrato in un sistema dove i costi per unità di output sono destinati a seguire l’andamento dei costi generale. Questo perché al contrario delle altre industrie gli spettacoli dal vivo non riescono a riscontrare una maggiore efficienza attraverso l’investire in macchinari e attrezzature o comunque solo in piccola parte. Per cui emerge che i costi non riescono ad essere compensati dal tendenziale aumento dei prezzi e questo è il cosiddetto morbo di Baumol.
Un vero e proprio equilibrio all’interno delle “performing arts” è un risultato molto complesso da raggiungere. Nella maggior parte dei casi ci si imbatte in due estremi opposti ovvero un teatro che non si preoccupa minimamente di far quadrare i conti, rimpiegando totalmente sui finanziamenti governativi ed un teatro che per amministrare al meglio la gestione economica, riduce qualitativamente la propria offerta culturale.
«Probabilmente è proprio questa complessità a generare un disorientamento generale ogni volta che tentiamo di precisarne l’assetto isti- tuzionale, legislativo, finanziario ed organizzativo. Siamo di fronte ad un settore che non riesce ad assumere comportamenti strategici, necessari per affrontare il problema della sua sopravvivenza in un mondo, quale quello in cui viviamo, fondato sulla cultura del “consenso” e ancor più su quella del “profitto”» (Del Prete, 2012, p.57)
Queste problematiche emergono anche a causa della scarsità di figure professionali specializzate sia nel settore manageriale che artistico; molte volte i teatri sono affidati a professionisti esperti solo in campo artistico che non hanno le capacità tecniche per poter raggiungere il pareggio di bilancio ed altre volte l’intera organizzazione viene affidata ad un professionista del management che può essere in grado di far quadrare il bilancio, ma non sa gestire un’orchestra.
Mentre in passato si tendeva ad avere un’amministrazione teatrale più legata al risultato della performance artistica e quindi caratterizzata da gravi squilibri nei bilanci, adesso la pubblica amministrazione sta proponendo sempre di più un modello in cui le performing arts risultino essere più efficienti e private-oriented (Trevisan, 2017). Il risultato di questo mutamento è che il rendimento artistico sta notevolmente calando ed i primi a doverne risentire sono gli stessi artisti che non si sentono più all’interno di un teatro, ma all’interno di una catena di montaggio.
In Trevisan (2017), si analizzano a fondo le nuove dinamiche manageriali che stanno assumendo i teatri attraverso lo studio di un caso all’interno del quale si sviluppa una nuova idea manageriale che si concretizza in una sorta di via di mezzo tra una produzione teatrale “stagionale” ed una di
opere nuove e originali ed in opere di repertorio, solitamente contraddistinte da i grandi classici che attirano sempre l’attenzione di molti spettatori. In questa maniera vengono aumentati gli spettacoli e di conseguenza i ricavi della vendita dei biglietti e abbonamenti, senza aumentare i costi grazie il ricorso all’economie di scala. Inoltre, grazie ad un utilizzo più efficiente della forza lavoro si riesce a mantenere il personale inalterato, nonostante la produzione sia significativamente aumentata.
Quindi, ricapitolando, questo nuovo modello strategico è retto dal seguente compromesso: più l'organizzazione replica opere di repertorio, più è facile ottenere nuove risorse da investire in nuove opere più innovative ed originali. Tale procedura è risultata realmente efficiente ed ha portato ad un notevole incremento degli introiti. L’unico problema è quello legato al lato artistico la cui resa stando allo studio di Trevisan (2017), pare essere in calo, in quanto le opere di repertorio non presentano solitamente caratteri innovativi e l’artista si sente demotivato. Il problema che ne consegue è che gli artisti all’interno di questo nuovo management si sentono sminuiti e si avvertono sempre più simili a normali impiegati.
Da Trevisan (2017) emerge il fatto di come i discorsi manageriali e in particolare l’uso dei numeri siano in grado di mostrare solo una piccola parte di un insieme di complessità. Per cui il fattore determinante che compare è che per ottenere un quadro veritiero sulla natura economico artistica di un teatro non è sufficiente un’analisi basata solo su indici numerici, ma è necessario ricercare una visione più ampia che vada ad analizzare sia la performance artistica che quella economica. Di conseguenza è fondamentale capire come le scelte di management teatrale condizionino la sfera economica e la sfera artistica, cercando di stabilire i punti nevralgici su cui è necessario soffermarsi, per creare e mantenere un equilibrio atto a soddisfare entrambe.
2.15.1 Teoria sulle intellectual capital
Un modo per osservare un ‘azienda all’interno di una visione più ampia e veritiera è lo studio del “intellectual capital” (IC) il quale è un’ottima risorsa per riuscire ad ottenere parametri che non siano riconducibili solo ad indici di performance numerici. Infatti, per ottenere la corretta comprensione di un’azienda non è sufficiente avere le informazioni inerenti alle risorse tangibili di essa, ma bisogna ricorrere anche ad una misurazione delle risorse intangibili e le “intellectual capital” sono proprio un modo per quantificare le risorse intangibili di un’azienda. (Peppard e Rylander, 2001; Kitts et al., 2001)
Non si ha una vera e propria definizione di “intellectual capital”, ma se ne hanno varie. Lo si può definire come l’insieme di quei valori intangibili che creano valore all’interno di un’azienda (Beattie
e Thomson, 2007), oppure come quell’insieme di risorse dell’azienda che non sono pienamente catturate all’interno del documento di bilancio e che rappresentano l’elemento chiave per la realizzazione di vantaggi competitivi (Peng et al., 2007). Da queste definizioni emerge come il capitale intellettuale sia la parte più importante di un’organizzazione, essendo fondamentale del processo di creazione di valore e nella creazione di un vantaggio competitivo. In particolare, le IC enfatizzano il ruolo del personale e l’importanza dell’espressione del potenziale umano. (Andriessen, 2007)
Le intellectual capital secondo la maggior parte dei ricercatori si suddividono in tre dimensioni: human capital, structural capital e relational capital. (Martinez-Torres, 2006; Longo e Mura, 2007; Schiuma et al., 2007)
Human capital:
Lo human capital si focalizza essenzialmente sulla forza lavoratrice, andando ad indagare sulle competenze e sulle conoscenze dell’impiegato. Infatti, lo “human capital” altro non è che l’insieme di quelle conoscenze individuali rappresentate dagli impiegati di un’azienda. (Bontis e Fitz-enz, 2002). Inoltre, Kim et al. (2010) suggerisce che lo human capital si focalizza prettamente sul valore economico di ciò che gli impiegati sono in grado di produrre.
Per cui cercare di potenziare la propria organizzazione, investendo sullo human capital risulta essere essenziale all’interno di un mercato sempre più competitivo. I punti nevralgici a cui bisogna fare riferimento secondo Manzari et al. (2012) sono essenzialmente questi:
• Attitude & Motivation
• Competence, Skill, Capabilities
• Creativity & Innovativeness
• Experience & Expertise
• Individual personal characteristics
• Knowledge
• Efficiency
La rilevazione di queste categorie di “human capital” non è affatto semplice e anche i risultati che da essa ne derivano non sono facilmente interpretabile, in quanto gli effetti positivi che emergono da un buon sviluppo di “human capital” differiscono molto a seconda del tipo di azienda. (Meca e Martinez,
Structural (organizational) capital:
“L’organizational capital” non è altro che l’insieme di tutti gli assetti manageriali, meccanico amministrativi e procedurali di cui un’organizzazione è provvista. Più nello specifico lo structural capital consiste in procedure e meccanismi dell’organizzazione che supportano gli impiegati nel completamento dei loro obbiettivi di lavoro, e ciò include anche tutte le risorse di valore non insite nel personale, come databases, manuali di processo, routines, strategie e qualsiasi altra cosa nella compagnia di cui valore sia più alto del suo semplice valore materiale (Bontis et al., 2000).
Chang e Birkett (2004) suggerisce che lo “structural capital” si riferisce in particolare al sistema generale e alle procedure dell’organizzazione dirette al “problem-solving”, sostenendo che “l’organizational capital” non sia altro che la combinazione di strutture formali ed informali a supporto dello “human capital”.
Le categorie di “organizational capital” che vengono riconosciute da più esperti sono le seguenti (Manzari et al., 2012):
• Culture
• Knowledge based infrastructure
• Intellectual property
• Processes, Working Systems & Routines
• Organization`s path
In definitiva le organizzazioni che possiedono un forte “structural capital” hanno a disposizione un supporto culturale che permetterà ai propri impiegati di poter sperimentare, imparare e praticare nuove metodologie a servizio dell’azienda (Bontis et al., 2000).
Relational (costumer) capital:
Il “relational capital” non è altro che lo studio approfondito delle relazioni che l’azienda conduce con l’ambiente esterno. Per cui, si intendono quelle relazioni rivolte al trattamento del consumatore e del fornitore, alla relazione con la comunità e le sue istituzioni e all’approccio utilizzato con i competitors e con gli stakeholders.
Il “relational capital” inizialmente era considerato come una branca sottostante allo “structural capital” secondo il modello originale di Edvinsson e Malone (1997), ma successivamente Bozbura (2004) criticò questa scelta sostenendo che andasse analizzato come una categoria a parte nella quale condurre ulteriori studi.
Secondo molte ricerche ci si può riferire al “relational capital” come “costumer capital” e proprio utilizzando questa terminologia Chen et al. (2004) sottolineò l’importanza del “costumer capital” inteso come il fattore determinante della conversione del “intellectual capital” in valore di mercato. Già (Bontis, 1998) aveva sottolineato l’importanza del “customer capital” affermando che comparato allo “human capital e allo “structural capital”, ha un effetto molto più incisivo sul valore della compagnia e sulle performance aziendali.
Un corretto sviluppo del “customer capital” prevede lo sviluppo di una buona fiducia con il consumatore, immagine, brand e la distribuzione dei canali diretti. Inoltre, lo stesso “customer capital” può essere ampliato fino alla “relationship capital” che racchiude altri soggetti fondamentali come i partner commerciali, organizzazioni di promozione turistica, comunità locale, competitors, creditori, gruppi di interesse speciale, i media ed il pubblico.
Anche il “relational capital” presenta varie categorie come nei casi precedenti (Manzari et al., 2012):
• Customers
• Stakeholders
• Corporate identity
• Internal issues
• Market Presence and Business Contracts
• Suppliers