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h] Buecheler, thvn Olivier

[la forma suggerita da Buecheler risulta preferibile per ragioni sticometriche e per la successiva ripresa con h] ti] …e lo dice affinché si addormentino e non (godano), come li definisce il poeta, i ‘diritti del letto antico’ o ‘la gioia d’amore’ o qualcosa di simile.

Come sottolinea De Jong42, questo è il secondo di due soli casi in cui vediamo una persona accompagnato a letto da un servo munito di torcia. L’altro è costituito da Odissea I 428-435:

425-33

Thlevmaco" d’, o{qi oiJ qavlamo" perikallevo" aujlh'"

uJyhlo;" devdmhto, periskevptw/ ejni; cwvrw/,

e[nq’ e[bh eij" eujnh;n polla; fresi; mermhrivzwn.

tw/' d’ a[r’ a{m’ aijqomevna" dai?da" fevre kedna; ijdui'a

Eujruvklei’, ̃jWpoς qugavthr Peishnorivdao,

thvn pote Laevrth" privato kteavtessin eJoi'si,

prwqhvbhn e[t’ ejou'san, ejeikosavboia d’ e[dwken,

i\sa dev min kednh/' ajlovcw/ tiven ejn megavroisin,

eujnh/' d’ ou[ pot’ e[mikto, covlon d’ ajleveine gunaikov"

In questo caso, la presenza del servo con la torica indicava probabilmente la giovane età di Telemaco, nella seconda attestazione invece si vuole probabilmente rievocare una processione nuziale. Lo stesso aspetto è sottolineato da Heubeck nel suo commento all’Odissea: mentre Penelope e Odisseo si ritirano nella loro stanza da letto, Telemaco and the herdmsen are calling a

halt to the feast held at the behest of Odysseus (131-48). This celebration which they had organized is a celebration re-enacting their original wedding.

Se il verso di riferimento risulta essere Od. XXIII 296: ajspavsioi levktroio palaiou' qesmo;n i{konto, notiamo l’espunzione della forma verbale. Nel testo omerico, il verbo di moto si accorda con il

48 valore originario di qesmovn così come esso viene riconosciuto dall’indirizzo concorde di molti studi (Chantraine, Stanford, Döderlein), quindi “luogo, posto”. Il senso materiale del termine, il quale traslato diviene poi “regola, fondamento”, è attestato in Anacreonte (406 P.) dove l’equivalenza è

qesmovς = qhvsauroς e in Esichio (con la glossa qesmoiv· … sunqevseiς tw'n xuvlwn). Possiamo immaginare che vi fosse qui una difficoltà avvertita da Filodemo, il quale accosta qesmovn a tevryin, rendendo così meno fluido l’accostamento del verbo di moto al sostantivo di cui l’epicureo pare valorizzare l’accezione di “diritto” (cfr. la traduzione di Dorandi), per la quale la specificazione del genitivo, non era del tutto priva di criticità: torna similmente, in un passo però discusso dagli editori, nell’Agamennone, al v. 304: w[trune qesmo;n mh; cativzesqai purovς.

La citazione incompleta che Filodemo ci propone è indice di una interpretazione del verso profondamente distante da quello che è indubitabilmente il senso dello stesso secondo Omero (non a caso, Filodemo ammette l’inconciliabilità della sua interpretazione del verso, ritagliato ad hoc nella citazione, con il testo epico nella sua interezza). A tale scopo, la citazione del verso risulta particolarmente stringata per evitare l’inserzione del termine ajspavsioi, il quale avrebbe certamente minato le basi della lettura filodemea; egli infatti ritiene che i sovrani spesso si abbandonino a comportamenti smodati proprio sulla scorta di un verso di tal genere, del quale fornisce una opportuna rimodulazione.

Pare quasi ridondante sottolineare la divergenza della posizione filodemea rispetto a quanto presente negli scolii, essendo già evidente la distanza dalla lettera testuale.

Nello scolio al verso in questione43, oltre al riferimento alla dibattuta posizione di Aristofane e Aristarco secondo i quali questa sarebbe in realtà la conclusione dell’Odissea, si interpreta il ricongiungimento di Odisseo e Penelope come un ritorno ad antichi costumi sessuali.

Per quanto riguarda invece la filothsiva tevryi", Secondo il Buecheler si alluderebbe a Odissea V 226 – 7:

ejlqovnte" d’ a[ra twv ge mucw/' speivou" glafuroi'o

terpevsqhn filovthti, par’ ajllhvloisi mevnonte"

Questo secondo riferimento testuale è introdotto dalla h] disgiuntiva: filothsivan tevryin, per la quale espressione Dorandi in apparato riprende ed elabora ulteriormente la precedente indicazione del Buecheler, indicando Od. XI 246 (filothvsia e[rga) e Od. V 227 (terpevsqhn filovthti) quali fonti del testo filodemeo. In questo secondo caso, come è evidente anche dalla duplicità del riferimento proposto da Dorandi, abbiamo dunque una citazione diretta, pur essendo questo secondo

49 riferimento connesso al primo – testuale ma parziale – da una disgiuntiva e subordinato alla formula medesima introduttiva wJς oJ poihthvς ge dhlw'n. Può essere un indizio della cosciente imprecisione delle citazioni la chiusa h[ ti toiou'ton.

Un ultimo esempio può essere costituito da Dorandi XXXII 33-37 (= Olivieri XIV); qui Filodemo esalta la superiorità di intelletto di Odisseo, motivo per il quale l’eroe non è mai abbandonato da Atena. In un altro passo, Dorandi XXXII 29-33, l’intelligenza rende Odisseo superiore allo stesso Aiace, uomo valente e coraggioso per antonomasia.

XXXII 29-37:

kai; oJ Diomhvdhς· kai; [ga;r oujk Aij;|30an]toς· “eJspomeṇou”, fhsiv, “kai; ej|[k pụro;ς aijqoṃ[en]oio

ajvmfw n[o|sthv]sein”, ajll’ jOdussevwς “ejpe[i;| pe]r<iv>oide n[o]h̃sai·” kaiv pọ[u| kai; F]ạiavkw[n]

hJ naũς· “ajvndra” l[ev]|35getai “fevrein qeoĩς ejnaliv[g]|kia mhvd’ ejvconta” Il riferimento puntuale è ad un passo dell’Iliade (X 242-247);

242-247

eij me;n dh; e{tarovn ge keleuvetev m’ aujto;n eJlevsqai,

pw'" a]n e[peit’ jOdush̃oς ejgw; qeivoio laqoivmhn,

ou| pevri me;n provfrwn kradivh kai; qumo;" ajghvnwr

ejn pavntessi povnoisi, filei' dev eJ Palla;" jAqhvnh.

touvtou g’ eJspomevnoio kai; ejk puro;" aijqomevnoio

a[mfw nosthvsaimen, ejpei; perivoide noh'sai

Il riferimento ad Aiace che lo stesso Filodemo inserisce nel testo si costituisce ancora una volta quale evidente forzatura del dettato omerico, qui allo scopo di far risaltare il suo essere frovnimo", caratteristica peculiare di Odisseo e predominante anche rispetto alla forza fisica, kravto". Il testo è infatti preso da un discorso con il quale Diomede, dinanzi alla difficile prova che lo attende, essendosi proposti quali suoi aiutanti Merione, Menelao, Odisseo e i due Aiaci sceglie il solo Laerzìade, ritenendo più snella e produttiva una collaborazione così circoscritta: l’esclusione di Aiace non costituisce assolutamente uno degli snodi fondamentali della sua risposta. La sovra lettura di Filodemo presenta in realtà dei riscontri nella tradizione antica; ne abbiamo traccia, ad esempio, in schol. Il. X 243 (vol. III Erbse, pag. 46):

50

p w ' " a ] n e [ p e i t ’ j O d u s h o ς e j g w ; <q e i v o i o l a q o i v m h n >: th/' ajndriva/ eJautou' qarrw'n suvmbou

lon aiJrei'tai: b(BCE3E4)T dio; parivhsin Ai[anta. T

Risulta comunque evidente questa rilettura costantemente personale dei poemi omerici, in un certo senso giustificata dagli stessi contenuti della dedica a Pisone: Omero è indicato quale fonte paradigmatica, come punto di partenza di una riflessione che non risulta assolutamente inficiata dall’approdo a conclusioni profondamente differenti da quelle che la lettera del testo omerico parrebbe legittimamente anticipare.

Di frequente la citazione paradigmatica si limita alla presentazione di una situazione omerica in chiave del tutto esemplare, evitando pertanto di attribuire al testo un valore semantico diverso da quello immediatamente evidente a una prima lettura: è il caso, ad esempio, di Dorandi XIX 26-32 (= Olivieri I), in cui l’autore riferendosi alla pratica dell’esecuzione musicale e poetica nell’ambito del simposio, sottolinea come essa non costituisca pratica utile, essendo nei poemi omerici prerogativa caratteristica dei conviti tanto di uomini sobri quanto di uomini dall’ubriachezza facile. […] ajv[mei]non|25 h] paid[iãi] proseoikev[nai to;]| ginomev[no]n· ouj ga;ṛ ṃ[ov]|non nḥ[fov]ntwn

ajṿ<i>ḍeịn |“kleva ajndrw̃n”, alla; kai; pi|novntw[n], oujde; para; movnoiς|30toĩς aujsthroteroiς,

ajlla;| kai; para; toĩς trufeṛobivoiς| Faivaxi. 27 nh[fov]ntwn Cirillo

…non infatti solo dei sobri è proprio cantare ‘glorie di eroi’, ma anche di coloro che sono bevitori e non presso le sole persone serie, ma anche presso i Feaci che amano vivere mollemente.

Un passo ugualmente significativo è costituito da Dorandi XXII 30-35 (= Olivieri IV): qui Telemaco è citato quale esempio di parsimonia e di oculata gestione del patrimonio familiare, nonostante la sua giovane età. Telemaco è pertanto un esempio assolutamente positivo al quale conformarsi; XXII 30 – 35:

[…] LOUNTES t[h;n] ajllotriv|an, ajpolipovnteς de; th;n| oijkeiv[a]n, wJvsper oJ toũ

teleu|35taivou N[i]komhvdouς pathvr. |Paravd[ei]gma d’ hJmĩn oJ [T]ḥ|levmacoς geneṿṣqw·

toũton| ga;r kai; nevon uJp[av]rconta kai; || ---]44

44Il Nicomede di cui qui si parla pare essere Nicomede III, padre dell’ultimo Nicomede (IV Filopatore). N.III avrebbe perso tutte le sue ricchezze

51 …dopo avere lasciato la propria terra, come il padre dell’ultimo Nicomede. A noi sia d’esempio Telemaco. Questi infatti ancor giovane e…

È noto che l’idea secondo la quale i discorsi o le azioni dei personaggi epici hanno un valore esemplare è ampiamente presente negli scolii, anticipata dal nesso DIDASKEI DE O POIHTHS. Una tale affermazione, un tale cedimento alle modalità espositive invalse in ambito scoliografico si ritrova in Dorandi XXXV 33-35(=Olivieri XVII).

La definizione di Omero quale didavskalo", che potrebbe parere in palese contrasto con il giudizio espresso dall’ambiente epicureo in merito alla funzionalità paideutico-conoscitiva della poesia, si giustifica con il fatto che Omero rende assolutamente visibili ed esemplificati in maniera chiara e a tutti i noti i temi analizzati, o meglio i contesti situazionali dai quali deriva tale riflessione e ai quali successivamente può essere applicata.

Queste ultime due citazioni rientrano in una macrosequenza più ampia del testo filodemeo, caratterizzata da una sostanziale omogeneità contenutistica: nelle colonne XVI – XXI, il tema è quello del banchetto e del modo di presenziarvi che si confà al buon sovrano. Prevedibilmente, uno dei pericoli più pressanti è quello dell’eccesso, dunque dell’ubriachezza (oijnoflugiva), recisamente stigmatizzata da Filodemo anche ricorrendo all’exemplum dei pretendenti, sorprendentemente non in chiave antifrastica; PHerc. 1507, col. XVII 14 – 17 Dorandi:

to]u;ς de; | m<n>hsth'ra[ς] kai; para[k]ovpouς· | ajll’oujde; para; touvtoiς e[m|[f]asiς oijnoflugivaς·

Indiscutibili le colpe dei pretendenti nell’Odissea (parakovpouς), ma fra queste non figura l’ubriachezza. Non è certo questa una difesa dei Proci; l’autore si limita a osservare che questi non sono soliti ubriacarsi. Su questo tema, abbiamo anche un pronunciamento diretto di Antinoo, il quale mette in guardia sui pericoli di un consumo incontrollato di vino, coadiuvato nella sua analisi dalla menzione del celebre episodio mitologico dello scontro fra Lapiti e Centauri, cui l’ebbrezza diede impulso; Od. XXI 293 – 298:

oi'jnovς se trwvei melihdhvς, o{ς te kai; a[llouς

blavptei, o}ς a[n min candovn e{lh/, mhvd’ ai[sima pivnh/.

oi'jnoς kai; Kevntauron, ajgakluto;n Eujrutivwna,

a[as’ ejni; megavrw/ megaquvmou Peiriqovoio,

52

mainovmenoς kavk’ e[rexe dovmon kavta Peiriqovoio

Le parole di Antinoo testimoniano un atteggiamento cauto nei confronti del vino; evitiamo però di tradire le specificità narrative del testo omerico semplificando questo passo come un inatteso attestato di onorabilità estendibile a tutti i pretendenti. Contrariamente a quanto parte importante (e distratta) della critica ha sostenuto negli anni, il gruppo dei pretendenti non costituisce un corpo unico e indistinto, ma è somma di individualità peculiari i cui indubbi tratti comuni non devono porre in ombra le specificità proprie di ciascun personaggio, tratteggiate con attenzione da Omero. Possiamo ipotizzare45 che questo passo di Antinoo agisca da ipotesto della riflessione di Filodemo, notiamo come l’epicureo faccia un uso strumentale del testo omerico, privo di deferenza filologica. Filodemo infatti estende all’intero gruppo dei pretendenti il dato semantico del passo di Antinoo, il monito sugli effetti nefasti dell’ebbrezza, con una parziale semplificazione atta a rinforzare il valore parenetico della riflessione, comune a un gruppo e non di paternità singola. Se gli stessi mnhsth'reς mantengono morigeratezza nel consumo di vino, l’ubriachezza è dunque impropria a tutti i

principes, indipendentemente dal giudizio che a tutto tondo si possa poi dare del loro operato.

L’utilizzo protrettico dell’exemplum dei pretendenti torna poco oltre, questa volta rispetto alla modalità di fruizione del canto, che assieme alla musica e alla danza costituiva il corollario proprio dei più sontuosi banchetti. La categoria della moderazione, propria del sovrano immaginato e modellato dal De Bono Rege, qui si declina come silenzio e compostezza dinanzi all’esibizione dei cantori. Leggiamo infatti in PHerc 1507, col. XVIII 3 – 10:

kai; para; toi'ς Fa[iva]|xin, [ouj]c o{tan movnon khl[w']|ntai th'ς jOdusseivou dihghvsewς ajkouvonteς,

ajlla; kai; | kata; th;n a[llhn sumperi|foravn, kai; par’ aujtoi'ς | [d]e; toi'ς | mn[h]sthrsi, tav ge polla;

si|gh'<i>. k[ai;] o{ς t[oiv]nun eujtaxiva<i> ||

Un caso ugualmente interessante, a testimonianza di una certa duttilità attribuita alla fonte omerica in caso di citazione, lo abbiamo poco oltre, questa volta riguardo alle danze che accompagnano il simposio. Qui il bando della ajkolasiva diventa molto più netto (Col. XX 4 – 15 Dorandi):

t[.. ]pw'ς de; ka[i;] ejn nevwn | ojrchvsin mu'qoi th'[ς] ajko|lasivaς ajpotrevpontevς eij|sin di’ oujk

ejpithdeiv[wn] | proswv[p]wn; dokw' [d]e; | kai; th'ς aijscrologivaς tw'[n] metagenw'n mnhmone[uv]|sein

kai; th'ς a[llhς bwmo|locivaς kai; livan ujp’ejnivwn ejpi[thde]uomevnhς ajei; met’ | ajd[eivaς ejn] toi'ς

sumposivoiς | ajfev[xein·]

53 Dopo il richiamo alla società dei Feaci, poco prima di questa sezione, possiamo forse scorgere un’allusione al canto di Demodoco sugli amori di Ares e Afrodite, accompagnato da una performance di giovani ballerini in Od. VIII 261 – 265. Non pare perspicuo il rimando al passo omerico rispetto alla descrizione filodemea di maschere improprie, elemento scenico evidentemente di accompagnamento alle movenze orchestiche di cui non vi è traccia nei versi. Dobbiamo dunque concordare con De Sanctis46quando egli afferma che “è plausibile dunque che Filodemo introduca in un contesto nel quale non è menzionato come caratteristica di questa o[rchsiς un aspetto della sua quotidianità, ben riconoscibile al destinatario del De Bono Rege: il testo dell’epos è volutamente forzato per corroborare e rendere più incisiva la critica moralistica contro il tema della danza”.

54 8 – Casi significativi: Colonne XVII e XXXIV Dorandi

Dedichiamoci ora alla lettura di altre sezioni del testo sfuggite alle maglie dell’analisi precedente ma non per questo immeritevoli di attenzione:

- Colonna XVII

In questa colonna, risulta evidente il riferimento alla coppa di Nestore: si possono infatti leggere due spie lessicali molto importanti, pothvrion e filopovth".

Il riferimento di partenza è costituito da Omero, Iliade XI 632-637:

pa;r de; devpa" perikallev", o{ oi[koqen ἦg j oJ geraiov",

cruseivoi" h{loisi peparmevnon: ou[ata dj aujto

tevssar je[san, doiai; de; peleiavde" ajmfi;" e{kaston cruvseiai nemevqonto, duvw d juJpo; puqmevne" ἦsan.

a[llo" me;n mogevwn ajpokinhvsaske trapevzh" pleῖon ejovn, Nevstwr d jjoJ gevrwn ajmoghti; a[eiren

L’episodio della coppa di Nestore fu certamente uno dei più discussi nell’antichità: ci si chiedeva infatti se Nestore fosse effettivamente un bevitore o se Omero avesse solo voluto mostrarlo intento a sollevare una coppa che nessun’altro avrebbe mai potuto smuovere. Tracce evidenti di tali riflessioni sono contenute negli scolii, come quello al v. 636, in cui si motiva l’episodio come l’ennesima lode rivolta a Nestore.

Dai pochi resti testuali, non riusciamo a comprendere quanta coscienza di tale problematica e di tale dibattito avesse lo stesso Filodemo, che dinanzi ad una certa proposta ermeneutica di un passo ampiamente dibattuto potremmo con certa sicurezza definire esegeta omerico. Risulta un timido segno in tale direzione il fatto che lo stesso Aristarco, come deduciamo dagli scolii, avesse usato la parola potevrion (differente dal termine in sede omerica) per indicare la coppa.

Può essere inoltre interessante notare come tale termine non compaia mai in Omero ma sia utilizzato per ben due volte nella cosiddetta ‘coppa di Nestore’, così definita proprio sulla base dell’iscrizione che vi si può leggere. Il primo ad utilizzare tale termine è stato, secondo la testimonianza di Athen. XI 460 b, Semonide. Abbastanza frequente in poesia, è (come ovvio dall’attestazione della sua prima presenza) assente in Omero e nei tragici.

Coppa di Nestore:

55 ho;ς d’aj;<n> tõde p[ive]si : poteriv[o] :, aujtivḳạ kẽnon

hivmer[oς : hair]evsei : kallistẹ[fav]ṇo : jAfrodivtẹς

L’interpunzione, attestata qui per la prima volta in una iscrizione greca, segue una precisa regola: sostantivi, attributi, verbi e avverbi sono separati dal segno diacritico (due punti sovrapposti), mentre pronomi e particelle sono legati alle parole.

Un’interpretazione del graffito induce alle seguenti considerazioni: il potevrion della l.1 è diverso da quello della l.2. la ripresa del sostantivo introduce e mette in rilievo un paragone: “chi beva da questo potevrion” e non già da quello della l.1, poiché altrimenti avrebbe detto ‘chi beva, chi mi beva’ e un pronome come tovde sarebbe necessariamente apparso nella l.1. in un tale epigramma la ripresa di uno stesso vocabolo non può non avere un preciso intento stilistico.

L’epigramma è di fatto tutto l’opposto delle descrizioni di posessore (la coppa, adespota, è messa a disposizione di tutti), ne è come un’eco parodica. Queste iscrizioni si preoccupano sempre, in prima persona, di dare il nome del proprietario, di lodare con un attributo l’oggetto e talvolta di annunciare solennemente un castigo a chi lo rubasse. Il nostro epigramma ricalca nella prima linea la formula del possessore, ma per sbarazzarsi di una famosa coppa; nella seconda linea presenta la nuova coppa in terza persona rivolgendosi a chi beva con un avviso di stile minatorio e nella terza linea, a sorpresa, annuncia iJvmeron kallistefavnou jAfrodivthς ai bevitori.

Se questa interpretazione non è errata, anche aujtivka rientra nello stile apparentemente intimidatorio della l.2, quasi minacciasse gli immediati effetti funesti di favrmaka, come quelli temuti dai proci in

b 329; invece la l.3 viene a promettere un immediato ed eccezionale desiderio d’amore.

L’epigrammatista allude direttamente all’epico boccale di Nestore. Ma non è detto che alluda alla sua descrizione presente in L 628-42: l’epigramma non pare direttamente alludere ad Omero. È possibile che l’epigrammatista conoscesse anche altra poesia a noi ignota: Nevstoroς eu;jtopon

potevrion, nel suo stile formulare e nel suo tono proverbiale, presuppone di certo un’antica tradizione.

|1---]PAROISOMEN[---|---] ponoũsi T[---|---]ES pothvrion [---|---]AI plh̃reς OU. [---|5---]I[ …]kai; filopov|[vthς ---]

5-6 FILOTO P, N, filopovthς Murray, filoposiva Olivieri

Questa sezione, nello specifico, ha spinto Murray a sostenere che Filodemo avesse una conoscenza abbastanza capillare dei risultati della critica omerica, se in questa sezione si vuole scorgere un diretto tentativo da parte dell’autore di partecipare a un dibattito filologico legato a passi ed elementi particolarmente significativi, come la detta Coppa di Nestore. Murray tenta di inviduare

56 quantomeno a grandi linee le caratteristiche delle fonti cui attinse Filodemo e, oltre al citato ‘filone filologico’, ritiene che Filodemo abbia attinto anche a non meglio tratteggiate opere moraleggianti che influenzarono l’esegesi della scoliografia omerica: riportiamo qui questa seconda ipotesi a segnalarne la necessariamente minore attendibilità a fronte dell’assenza di chiare indicazioni testuali, assimilabili a quelle ora ripercorse rispetto alla Coppa.

- Colonna XXXIV

In questa colonna, molto probabilmente leggiamo la difesa di alcuni eroi omerici, accusati di

boasting, da parte di Filodemo: gli eroi non fanno solo riferimento ai loro personali successi, ma

fanno spesso menzione delle vittorie altrui. Dorandi: .TWN Ṣ.|ga;r kai; …

Fish:oJ l[evg]wn “sh̃i ga;r kai; Priaṿ[moio] povlin diẹ|pevrsamen [aijph;]ṇ boulh̃<i>”kai;·| “dwvsw{i} d’eJ̣p̣ta; gunaĩkaς aj|muvmonaς ej;rg’ eijduivaς, Lesbiv|daς, aJvς, oJvte Levsbon

ejuktimev|nhn eJvlen aujtovς, <ejxelovmhn>”

Il testo che presenta Filodemo non lo ritroviamo in alcun passo dell’Odissea: la comprensione dello stesso dipende innanzitutto dal significato che attribuiamo a levgwn. Se con l’inserzione del participio Filodemo intendesse alludere alla sovrapposizione della persona dei due parlanti, avemmo il problea di assegnare la prima citazione ad Agamennone, essendo la seconda a lui indisputabilmente da attribuire. Se così fosse, dovremmo ipotizzare che tali versi fossero da collegare alla narrazione da parte di Agamennone della storia della sua rovina in Odissea XI 404- 34. Sembra dunque più ragionevole leggere nel participio un semplice riferimento ad una personalità parlante non meglio identificata, la quale non ritorna anche per la seconda citazione (per la quale possiamo anche ipotizzare un’ellissi del medesimo participio).

Il passo più vicino a quello Filodemeo è costituito da una citazione presente in Strabone, 13.1.41, Ou{tw me;n dh; levgousin oiJ jIlieĩς, JvOmhroς de; rJhtw'" to;n ajfanismo;n th'" povlew" ei[rhken "e[ssetai h\mar o{tan pot’ ojlwvl h/ jvIlioς iJrhv. "h\ ga;r kai; Priavmoio povlin diepevrsamen aijphvn." Nel passo in questione, si parla della presa di Troia. Si riporta nuovamente il medesimo verso, con l’aggiunta di quella che pare essere la prima sezione di un altro verso, citato interamente in Strabone 1.2.4.

57 Mentre Filodemo non ha ragione di citare il verso fino alla fine, dal momento che risulta chiaro il riferimento ad Odisseo, Van der Valk47ha suggerito che la lacuna in Strabone 13.1 dopo i due dativi sia da ricollegarsi ad un tentativo di riavvicinare il testo all’originale omerico, cui era estranea la seconda parte che ritroviamo invece in Strabone 1.2.4.

L’unica differenza in Filodemo è data dalla presenza di sh§i in luogo di un semplice asseverativo: riportando forse il testo solo sulla base del proprio personale ricordo, magari Filodemo immagina che in questo passo non si parli di Odisseo, ma che qualcuno si rivolga direttamente a lui, come ad esempio accade in Odissea 22.230,

226-30

oujkevti soiv g’, jOduseũ, mevno" e[mpedon oujdev ti" ajlkhv,

oi{h o{t’ ajmf’ JElevnh/ leukwlevnw/ eujpatereivh/

eijnavete" Trwvessin ejmavrnao nwleme;" aijeiv,

pollou;" d’ a[ndra" e[pefne" ejn aijnh/' dhi>oth'ti,

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