• Non ci sono risultati.

Le citazioni omeriche nel De Bono Rege di Filodemo

N/A
N/A
Protected

Academic year: 2021

Condividi "Le citazioni omeriche nel De Bono Rege di Filodemo"

Copied!
96
0
0

Testo completo

(1)

1 Introduzione

Nel corso di questi anni, un inatteso fil rouge ha connesso le mie esperienze di ricerca: la curiosità di riscoprire un autore noto e meritatamente celebrato come Omero andando a cercarne gli echi più o meno nitidi nelle opere successive. Autori fra loro molto diversi per età, ispirazione, volontà comunicativa mi hanno nel tempo accompagnato in questo viaggio di costante scoperta e riscoperta delle opere omeriche.

In questa circostanza specifica, mi ha fatto da guida l’epicureo Filodemo, autore del De Bono Rege; analizzando i resti dell’opera (in quantità non particolarmente significativa, data la trasmissione del testo, consegnatoci da uno dei preziosissimi ma fragilissimi e tragicamente mutili papiri di Ercolano), mi sono dunque posto l’obiettivo di cercare la personalità autoriale anche in un momento preciso del suo emergere, quello del ricorso alla citazione. Le caratteristiche del testo omerico usato dal filosofo, le circostanze del suo utilizzo e la selezione operata hanno perciò offerto di volta in volta una preziosa occasione di riflessione, che spero sia stata almeno parzialmente (e proficuamente) colta.

Di Filodemo si aveva, prima dei ritrovamenti papiracei, una conoscenza molto limitata: ci erano giunti alcuni epigrammi e una indicazione bibliografica di Diogene Laerzio (X 3) sulla paternità filodemea di un trattato biografico (Suvntaxi" tw§n filosovfwn); ulteriori informazioni sono presenti nella Pisoniana di Cicerone, ‘il giambo oratorio più compiuto della letteratura latina’1, violenta invettiva contro Lucio Calpurnio Pisone Cesonino, patronus di Filodemo a Roma2.

1 W. Süss, Ethos. Studien zur älteren griechischen Rhetorik, Lipsia 1910, p. 259

2 Come sottolinea Gigante (Gigante 1969, pp. 23 e ss.), “alcuni interessanti dati si sono potuti guadagnare dalle sue

[scil. di Filodemo] opere in prosa e dai suoi epigrammi, ma per la vicenda fondamentale del rapporto di Filodemo col suo patrono Lucio Calpurnio Pisone Cesonino si è fatto ricorso ai §§ 68 – 72 della Pisoniana di Cicerone, considerati – quanto ad attendibilità – nella stessa dimensione dell’opera filodemea. Se la storicizzazione della testimonianza offerta dagli epigrammi può dar luogo a dubbi e riserve, l’utilizzazione – non discriminata – del passo di Cicerone è altrettanto pericolosa e ingannevole. Bisogna infatti chiaramente stabilire, in via preliminare, che il fango che Cicerone getta su Pisone colpisce e inquina anche Filodemo. Tale prospettiva – autorizzata, del resto, dallo stesso Cicerone (§ 72) – non può consentire l’affermazione di una generica “simpatia” di Cicerone verso Filodemo. Con minore imprecisione, si può parlare col Cichorius (Cichorius, Römische Studien, Lipsia 1922, p. 295) di ‘evidente rispetto e cauto riguarda’, ma in realtà tutto il passo mostra una voluta ambiguità, una deliberata doppiezza, magistralmente dispiegata, per coinvolgere nello scandalo, insieme col protettore, il protetto, col discepolo lussurioso il maestro lascivo. […]

Cicerone non nomina Filodemo, ma la sua identità fu già additata da Asconio (In Pisonianam, § 68). Tale silenzio è già ambiguo: è segno di prudenza nei riguardi del condiscepolo di Zenone Sidonio in Atene, ma anche di disprezzo per un professore della più aborrita filosofia, quale doveva esibire dinanzi ai suoi uditori, cui elargisce la qualifica chiaramente menzognera di homines eruditissimi et humanissimi. È certo, comunque, che Cicerone all’inizio (§ 68) dichiara che non vuole tracciare un profilo infamante per il gusto di offendere né, se pure volesse, potrebbe irritarsi con un uomo ricco di ingegno e cultura. Se, dunque, non lo infamerà è perché il contubernale di Pisone è ingeniosus homo atque eruditus: un apprezzamento che si muta presto in denigrazione, dal momento che Filodemo ha male impiegato il naturale talento e la sua cultura, nel diventare cantore di crimini e maestro di libidine. Cicerone confessa che per sua personale esperienza l’uomo che vive con Pisone è veramente un homo humanus, che tuttavia conserva la sua humanitas solo quando non rimane con Pisone, ma con gli altri o con se stesso. L’ambiguità continua: Filodemo è un uomo civile, tollerante, capace

(2)

2 Con i ritrovamenti ercolanesi, sorprendente si è dimostrata subito la mole di opere del filosofo, ancor di più a fronte delle notizie precedentemente note; come testimonia Boccadamo, “i suoi volumi venuti alla luce fino a questo momento hanno una trentina di titoli differenti e toccano svariati argomenti concernenti la religione, la morale, la logica e la gnoseologia, la rettorica e l’estetica”3.

Costante nelle opere di Filodemo è l’uso della citazione e del riferimento extratestuale, tanto da spingere Boccadamo ad affermare che complessivamente l’opera del discepolo epicureo in esame “non presenta più nessuna importanza per originalità di dottrina; e, come le altre sue opere, anche questa deve ritenersi semplice lavoro di compilazione e divulgazione.” Insiste su questo aspetto anche in riferimento ad un secondo trattto, il De Musica, ponendo ancora un deciso accento sulla sostanziale assenza di originalità ravvisata nel percorso intellettuale dell’autore: “che poi in tutto questo suo trattato, come negli altri, non si sia distaccato affatto dalla sua scuola, appare ben chiaro dalle sue ripetute citazioni e riferimenti, che fanno escludere ogni possibilità di trovare in lui una vera originalità di dottrina”4.

La posizione di Boccadamo, che difficilmente potremmo definire sfumata, corre il rischio di tralasciare elementi di sicuro interesse propri dell’opera di Filodemo, i quali solo una coscienza critica incomprensibilmente attardata può testardamente ostinarsi a voler ravvisare solo in una presuna originalità di dottrina. Questa ricerca ha dunque mosso i suoi passi dalla convinzione, si spera in conclusione dimostrata, che si possano trarre elementi di non secondaria importanza da una lettura del De Bono Rege condotta lungo il sentiero delle citazioni che ne puntellano il tessuto. Come si può facilmente comprendere, molteplici ostacoli hanno reso a volte impervio il sentiero di questa ricerca. Se la conoscenza attuale degli scritti di Filodemo, grazie agli importanti ritrovamenti papiracei e all’impegno indefesso profuso da personalità di riconosciuto valore nella lettura e pubblicazione dei testi, ha compiuto decisi passi in avanti, operiamo comunque su una base testuale di comprendere e di compatire, non duro né chiuso alla solidarietà verso gli altri, ma, quando estende tale sentimento alla convivenza con Pisone, perde la sua sostanza umana. […]

Probabilmente per un’ombra di riguardo, Cicerone attribuisce genericamente ai filosofi epicurei anzi che al solo Filodemo la diffusione della proposizione che ‘il piacere è la misura di tutte le cose che un uomo possa desiderare’, ma forse inconsapevolmente l’astioso avversario di Pisone e della dottrina epicurea rende testimonianza alla popolarità dei principali dogmi di quella poesia (audistis profecto…, § 70).”

L’ambiguità è dunque la cifra propria della descrizione di Filodemo tratteggiata da Cicerone, il quale intreccia sapientemente la lode dell’eleganza di Filodemo con la critica serrata all’epicureismo; ancora Gigante 1969, pag. 33: “ma Filodemo – continua Cicerone, con una franchezza di breve durata e tuttavia degna di molta attenzione – ‘coltiva con raffinata eleganza non solo la filosofia, ma anche tutte le altre discipline che, come si dice, sono neglette da quasi tutti gli epicurei’: est autem hic de quo loquor non philosophia solum ed etiam ceteris studiis quae fere ceteros

Epicureos neglegere dicunt perpolitus”. 3 Cfr. Boccadamo 1953, p. 280

(3)

3 mutila. Questa condizione di oggettiva parzialità del testo, assieme alla ineliminabile, residua opinabilità propria di ogni scelta compiuta in sede editoriale acuita dalle difficoltà proprie di un delicatissimo supporto materiale nelle dette condizioni, ha costantemente sollevato complessi interrogativi sullo statuto di una ricerca fondata sull’analisi della citazione e delle sue modalità di utilizzo, per la quale la stabilità testuale (ovvia precondizione utopica di ogni ricerca) è un requisito irrinunciabile. A fronte di queste premesse, si può ritenere che il lavoro editoriale condotto a più riprese, a più mani, con strumentazioni tecniche sempre più raffinate sul testo di Filodemo abbia fornito una base affidabile sulla quale operare, convinzione corroborata dalla quantità significativa di citazioni analizzate, che permetterà di raggiungere conclusioni di insieme non necessariamente smentite da eventuali nuove vicende editoriali future.

Nel corso della ricerca, come ovvio, sono emerse anche questioni accessorie rispetto al focus principale del progetto ma di certo di notevole peso specifico; si è tentato, ove necessario, quantomeno di riprenderle in maniera chiara e sempre orientata all’obiettivo ultimo, Filodemo e la sua lettura. Si avrà dunque occasione di riflettere sul background del personaggio, su alcuni elmenti propri dell’epicureismo e nello specifico sulle posizione espresse da Epicuro e a volte dai suoi discepoli sulla politica e sull’arte poetica, essendo questi i due vettori principali secondo lungo i quali si struttura l’identità letteraria del De Bono Rege.

Data la complessità delle tematiche in questione, ho rinunciato consapevolmente a ogni tentativo di completezza nell’esposizione, che sarebbe rimasto necessariamente inevaso, optando per una più modesta panoramica su alcuni dei punti fermi di una riflessione critica condotta da decenni e dall’ancora inesausta fertilità.

Spero che quest’indagine, scevra dalla presunzione di consegnare un contributo di peso alla riflessione del mondo accademico sulla materia, abbia quantomeno una sua dignità e correttezza e che possa degnamente ospitare le riflessioni di studiosi ben più abili.

Per la guida, il prezioso aiuto e gli utilissimi consigli ringrazio il Professor M. Tulli, sottolineando che di tutte le imprecisioni presenti nel testo rimango ovviamente l’unico responsabile.

(4)

4 1 - Il papiro

Il PHerc. 1507, che ospita il testo di Filodemo, conserva resti di 44 colonne, l’ultima delle quali è costituita dal titolo e dalla soscrizione sticometrica.

P venne svolto nel 1808 da L. Corazza e dallo stesso disegnato prima del 181. Carlo Malesci ne eseguì i due disegni indicati come ‘Col. 6a’ e ‘F:to20’, rispettivamente nel 1845 e nel 1852. Se ne posseggono 43 disegni napoletani (N), mancano quelli oxoniensi. L’incisione venne affidata a F. Casanaova e compiuta entro il 1812.

Paleograficamente il PHerc. 1507 si presenta sotto un aspetto interessante. L’osservazione dell’Olivieri (p. vi): “Litterae numquam inter se coniunctae omni ornamento carent” è inesatta. P è vergato in una bella scrittura caratterizzata dallo stile “epsilon-theta’, da apici ornamentali e da lettere di modulo diverso. La mano mostra contatti con la capitale romana; quanto alla datazione, si potrebbe pensare, con largo margine di sicurezza, alla seconda metà del I sec. a. C.5

Il ductus è chiaro, si scorgono segni di interpunzione indicata da uno spazio vuoto e da una

paragraphos o da una diplè. Alla fine della l. 15 di col. XXVIII, della l.17 di col. XXXVIII e delle

ll. 29 e 32 della col. XL troviamo dei segni simili a un =, adoperati come riempitivi (segni peraltro rinvenuti anche in altri papiri di Ercolano).

Accanto alle ll. 19 e 20 di col. XXIV si scorge una coronis (la lacunosità del passo impedisce però di valutare il significato e lo scopo della coronide in questo passo). Un segno di richiamo nel margine inferiore di col. XX. Nella colonna XXVII 28-30 il periodo è racchiuso fra due apici. Di grande interesse infine tracce di punti di allineamento all’inizio e alla fine della linea, forse non regolarmente distribuiti.

Lo scriba non commette gravi inesattezze; le rare correzioni sono aggiunte nell’interlinea. L’espunzione delle lettere errate viene effettuata con un punto sopra le medesime. Due volte si individuano residui di linee aggiunte nel margine inferiore, pare da una mano diversa.

Lo iota mutum è rispettato nella quasi totalità dei casi; alcune volte è erroneamente ascritto o aggiunto nell’interlinea.

Delle peculiarità ortografiche segnalate dall’Olivieri (p. vi e ss.) e non tutte confermate dall’autopsia compiuta da Dorandi, sono particolarmente da notare:

ei per i col XXXVII 19: Neireva

5 Una discussione del problema è già in G. Cavallo, Unità e particolarismo grafico nella scrittura dei papiri, in Proc. XII Intern. Congr. Of Papyrology (Toronto 1970), pp. 78 – 79.

Su questioni generali sollevate dallo studio della paleografia ercolanese, segnalo ancora, con Dorandi, G. Cavallo, Un

(5)

5

u per i in col XXI 22: sunevdruon

w per o in fr. 56, 3: yegwmevnou

t per q in col XXXI 34: jItakhsivwn6

La mancata assimilazione in e[npeda (col. IV 6). Di contro, l’assimilazione della nasale a]m mhv (col. XXIV 31) e ejg konivhsi (col. XXXVII 10). Il raddoppiamento del r in parrevchi (col. IV 6) e del s in parevssthse (col. XLII 31). La presenza del n efelcistico è irregolare.

La prima edizione del Peri; tou' kaq’ {Omhron ajgaqou' basilevwς veniva pubblicata da Salvatore Cirillo nell’ottavo tomo della Collectio Prior nel 1844, con il titolo di Peri; tou' kaq’ {Omhron

ajgaqou' law'i: De eo quod ex Homeri doctrina bonum, atque utile sit populo.

Il titolo esatto fu restituito dal Comparetti e, indipendentemente, dal Diels. L’accordo dei due studiosi non in contatto fra di loro è già di per sé un forte indizio della validità della congettura. L’edizione del Cirillo è accompagnata dalla stampa delle incisioni calcotipe dei disegni e da una traduzione latina. Le varie sezioni sono arricchite da un breve commentario latino, sul quale pesa la censura dell’Olivieri (p. viii): “Commentaria silentio preterire licet”.

Dopo il Cirillo, Franz Bücheler studiò con profitto il De Bono Rege. Il suo articolo è ricco di preziosi spunti di critica testuale; purtroppo il fatto che si sia servito esclusivamente dell’edizione del Cirillo senza ricorrere all’autopsia di P, è spesso motivo di erronee integrazioni e interpretazioni. Bücheler continuò nell’orma del predecessore l’opera di esegesi e riuscì anche a scorgere nelle tracce superstiti passi di Omero sfuggiti al Cirillo e a correggere la lettura di altri. Spesso le sue integrazioni sono state confermate dall’autopsia di P.

Fu appunto partendo dal Cirillo e dal Bücheler, nonché da un esame autoptico di P, che l’Olivieri intraprese, agli inizi di questo secolo, la vera e propria edizione del De Bono Rege.

Lavoro pregevole secondo il Dorandi, non scevro però di imprecisioni e non in tutto degno della valutazione che credette dovergli tributare il Philippson nella sua recensione: “… il nuovo editore… attraverso accurati esami del papiro e dei disegni napoletani, come attraverso alcune acute congetture, ha migliorato sostanzialmente il testo e insieme ha posto le basi su cui anche altri che non possono attingere alla fonte abbiano modo di continuare a costruire”. La sua pubblicazione è completata da un modesto subsidium interpretationis posto a piè di pagina.

L’edizione del Dorandi è basata su una revisione del papiro effettuati con microscopi bioculari, che ha consentito di migliorare il testo dell’Olivieri e di recuperare lettere o residui di scrittura rimasti precedentemente inosservati. L’autopsia di P se ha convalidato in diversi punti congetture o

(6)

6 supplementi dei precedenti studiosi ha anche – in particolar modo – permesso di liberare il testo dalle scorie che, con il passare degli anni, lo avevano incrostato: molte integrazioni dell’Olivieri e del Philippson sono risultate impossibili. Alcuni frammenti e colonne si presentano ora forse irriconoscibili nella loro scarna nudità. Tale edizione si giova anche degli apografi napoletani per lo più accurati e attenti. Rispetto a quello che si legge in P i disegni offrono materiale più abbondante conservando pezzi di papiro oggi perduto. Anche quando non si legga in P, una lezione di N, riconosciuta attendibile, è data senz’altro come lezione del papiro.

Nella sistemazione del testo, Dorandi, rispetto all’annoso problema dell’alternanza di strati diversi, spesso bi- o trisovrapposti, numera i resti in 43 colonne e 89 frammenti, considerando colonne 'papiro isolati, anche tutti i sottoposti rintracciati ma di incerta collocazione. Tale, di fatto, è il metodo di pubblicazione cui si conformano la maggior parte degli editori dei papiri di Ercolano.

Aggiungiamo, a margine delle indicazioni fornite da Dorandi nell’introduzione alla sua edizione, una interessante ipotesi avanzata dal Murray7: questi ritiene che le caratteristiche del papiro possano consentirne una ben precisa identificazione. Ci troviamo di fronte ad un manufatto di valore, scritto con estrema attenzione; non certo un autografo, forse qualcosa di meglio. Lo studioso arriva a congetturare che questa papiro potè essere la copia originale presentata da Filodemo al suo patrono, L. Calpurnio Pisone Cesonino. L’attuale condizione del papiro, disperatamente precaria, sarebbe quindi – con un ironia quasi tragica – l’ultimo e intermittente barbaglio di un originario splendore materiale.

7 Cfr. Murray 1984, p. 157: Potremmo congetturare che questo papiro potè essere la copia originale presentata da

Filodemo al suo patrono L. Calpurnio Pisone Cesonino. Il papiro è “scritto in maniera particolarmente accurata”, con “punti di allineamento all’inizio e alla fine della riga”: G. Cavallo, Libri, scritture, scribi a Ercolano, CErc 13 1983, p. 18 s.

(7)

7 2 – Sul rapporto fra Epicuro, gli epicurei e la poesia

Diogene Laerzio, Vite dei filosofi, 10. 121b

movnon te to;n sofo;n ojrqw'ς a]n periv te mousikh'ς kai; poihtikh'ς dialevxasqai· poihvmatav te

ejnergeiva/ oujk a[n poih'sai.

Plutarco, De Audiendis Poetis 15d

povteron ou\n tw'n nevwn w{sper tw'n jIqakhsivwn sklhrw/' tini ta; w\ta kai; ajtevgktw/ khrw/'

kataplavttonte" ajnagkavzwmen aujtou;" to; jEpikouvreion ajkavtion ajramevnou" poihtikh;n feuvgein

kai; parexelauvnein, h] ma'llon ojrqw/' tini logismw/' paristavnte" kai; katadevonte", th;n krivsin,

o{pw" mh; parafevrhtai tw/' tevrponti pro;" to; blavpton, ajpeuquvnwmen kai; parafulavttwmen;

L’eco di queste riflessioni sul rapporto fra Epicuro e la poesia rimase vigorosa e raggiunge anche gli autori latini, come possiamo verificare da un passaggio di Quintiliano:

Institutio Oratoria XII 2, 24

In primis nos Epicurus a se ipse dimittit, qui fugere omnem disciplinam navigazione quam velocissima iubet

Una delle fonti principali, facilmente identificabile, è l’epicurea epistola a Pitocle, in uno dei suoi passi più celebri e successivamente ripresi, 163 Usener = 89 Arrighetti:

Diogene Laerzio 10, 6

e[n te th/' pro;" Puqokleva ejpistolh/' gravfein· Paideivan de; pa'san, makavrie, feu'ge tajkavtion

ajravmeno" (= Usener 163)

Tali 4 passi, dei quali il primo pare essere quello più equilibrato rispetto ad una questione spinosa e molto dibattuta sin dall’antichità, ci aiutano a gettare luce sul complesso problema del rapporto fra Epicuro e la poesia. Come possiamo dedurre da alcuni di essi, nonché da molteplici passi ciceroniani8, Epicuro condannava in toto ogni forma di cultura e quindi ogni forma di poesia e soprattutto quella omerica, o almeno tale visione dell’epicureismo risulta poi maggioritaria in sede di esegesi successiva (a tal proposito cfr. oltre, la posizione di Eraclito, che nelle Allegorie Omeriche in questa condanna lo accosta a Platone)

(8)

8 A tale condanna si aggiunge, come già vediamo ad esempio nel variamente e lungamente dibattuto passo di Diogene Laerzio, un rapporto ugualmente problematico con ogni forma di educazione in generale; la necessità cui allude Epicuro è quella di accostarsi alla conoscenza essendo kaqarov"

pavsh" paideiva"; lo stesso studio dei fenomeni celesti doveva svolgersi per osservazione diretta, privo di assiomi, così come possiamo dedurre da un passo della lettera a Pitocle, Epistula ad

Pythoclem 86 – 87:

ouj ga;r kata; ajvxiwvmata kena; kai; nomoqesiva" fusiologhtevon, ajll’ wJ" ta; fainovmena

ejkkalei§tai: ouj ga;r h[dh ajlogiva" kai; kenh§" dovxh" oJ bivo" hJmw§n e[cei creivan, ajlla; tou§ ajqoruvbw" hJma§" zh§n. pavnta me;n ouj§n givnetai ajseivstw" kata; pavntwn kata; pleonaco;n trovpon ejkkaqairomevnwn sumfwvnw" toi§" fainomevnoi", o{tan ti" to; piqanologouvmenon uJpe;r aujtw§n deovntw" katalivph/: o{tan dev ti" to; me;n ajpolivph/ to; de; ejkbavlh/ oJmoivw" suvmfwnon o]n tw§/ fainomevnw/, dh§lon o{ti kai; ejk panto;" ejkpivptei fusiologhvmato", ejpi; de; to;n mu§qon katarrei§.

“Non bisogna indagare la scienza della natura secondo vacui assiomi e legiferazioni, ma come richiedono i fenomeni. Perché la nostra vita non ha bisogno di irragionevolezza e di vuote opinioni, ma di trascorrere tranquilla. E si ottiene la massima serenità riguardo a tutti i problemi che vengono risolti secondo il metodo delle molteplici spiegazioni in ccordo coi fenomeni, quando si ammetta in proposito, come è evidente, il verosimile. Ma quando qualcosa si ammette, qualcos’altro invece si rifiuta, pur essendo in accorda coi fenomeni, è chiaro che allora si abbandona qualsiasi genere di scienza della natura per cadere nella mitologia”9

Epicuro viene nello specifico criticato non esclusivamente per la singola posizione che si ritiene egli abbia rispetto alla produzione poetica, ma per l’evidente (all’occhio dei suoi detrattori) contraddizione insita nel condannare la poesia facendo però degli argomenti da essa proposti un fondamento della riflessione filosofica.

Se dai suoi critici più feroci la filosofia del Giardino veniva rappresentata come un semplice cedimento all’edonismo, tale linea polemica in ultima istanza identificava in un noto passo omerico il nucleo di irradiazione contenutistica di questa posizione epicurea; nello specifico, il passo in questione è Od. IX 5-11:

ouj ga;r ejgwv gev tiv fhmi tevlo" carievsteron ei\nai

h] o{t’ a]n eju>frosuvnh me;n e[ch/ kavta dh'mon a{panta,

(9)

9

daitumovne" d’ ajna; dwmat’ ajkouavzwntai ajoidou'

h{menoi eJxeivh", para; de; plhvqwsi travpezai

sivtou kai; kreiw'n, mevqu d’ ejk krhth'ro" ajfuvsswn

oijnocovo" forevh/si kai; ejgceivh/ depavessi:

tou'tov tiv moi kavlliston ejni; fresi;n ei[detai ei\nai.

6 hj; oJvt’ aj;n U; cfr. Heraclit. Alleg. c.79 (ajll’ oJvtan) 7-10 ajq. Aristarchus (ut fort. vidit Ludwich)

Come si spiegava dunque tale rifiuto della produzione poetica se proprio a più grande dei poeti Epicuro aveva sottratto uno degli elementi caratterizzanti della propria riflessione filosofica? Come anticipato poco sopra e come si può agilmente ipotizzare, tale argomento polemico ebbe grande fortuna fra i detrattori dell’epicureismo, come vediamo ad esempio in:

Eraclito, Allegorie Omeriche 79

JO de; Faivax filovsofo" jEpivkouroς, oJ th'" hJdonh'" ejn toi'" ijdivoi" khvpoi" gewrgov", oJ pa'san

poihtikh;n a[stroi" shmhnavmeno" oujk ejxairevtw" movnon JvOmhron, a\r’ oujci; kai; tau'q’ a} movna tw/'

bivw/ parevdwken aijscrw'" ajgnohvsa" par’ JOmhvrou kevklofen a} ga;r jOdusseu;ς uJpokrivsei par’ jAlkivnw/ mh; fronw'n ejyeuvsato, tau'q’ wJ" ajlhqeuvwn ajpefhvnato tevlh bivou:

[Od. 9, 6-7;11]

L’eco di tale polemica fu tale da condensarsi anche nella tradizione scoliografica, come possiamo facilmente osservare da queste due attestazioni:

Schol. Il. XXIV 526

<a u j t o i ; d e v t ’ > a j k h d e v e " <e i j s i v > : nu'n to; fuvsei qei'ovn fhsi, tou;" de; poihtikou;"

lupoumevnou" eijsavgei. kai; jEpivkouroς ejnteu'qevn fhsin o{ti to; ajqavnaton kai; a[fqarton ou[t’ aujto;

pra'gm’ e[cei ou[t’ a[lloi" parevcei: dio; ou[te ojrgai'" ou[te luvpai" sunevcetai". dhloi' de; kai; to;

ajqeravpeuton. T

Schol. Od. IX 28 (vol. II Dindorf, pag. 408)

Gnw'qi o{ti kalw'ς levgei kai; jEpivkouroς … a[riston tevloς eij'nai pavntwn th;n hJdonh;n ejx JOmhvrou

tou'to labwvn.

A tal proposito, rispetto ad una polemica che come è facile immaginare interessò molteplici personaggi in ambito filosofico e letterario, possiamo riportare una fonte molto interessante (abbandonando ogni speranza di enciclopedica completezza) costituita da Demetrio Lacone, autore

(10)

10 delle Aporie testuali ed esegetiche in Epicuro (PHerc 1012, edito da E. Puglia). Il filosofo esamina alcuni passi di Epicuro corrotti da un’errata tradizione manoscritta o fraintesi dalla critica avversaria. Il trattato è l’unico a noi giunto, fra quelli degli epicurei, che si possa sicuramente assegnare alla letteratura filologico-esegetica. Non si tratta invero di un libro che, in forma di commentario continuo, procedendo da proposizione a proposizione, esamini il testo intero di una singola opera, in quanto gli scritti di Epicuro citati nel papiro sono molteplici. Neppure è lecito dire che le questioni discusse siano tutte della stessa natura, tanto poco sono omogenee fra di loro. È invece plausibile che si possa parlare di questo libro di Demetrio come di una raccolta di brevi saggi esegetico-filosofici su punti particolari e problematici della dottrina di Epicuro10.

Esaminiamo ad esempio la col. 48 De Falco = LXX Puglia (PHerc. 1012):

aJmartavnousi de;] favskonteς wJς jEpivkouroς ejx] JOmhvrou ei[lhfe tajgaqo;n eij']nai th;n sivtou

kai; potou' ajpov]lausin. e[nqen kai; ejpevoiken, ejxousiva gavr moi levgein, ta; taiken, ejxousiva

gavr moi levgein, ta; tai'ς kenai'ς sofistw'n ajreskhvaiς uJpenantiva. {Omhroς me;n ga;r oujde;n

plh'on peri; tw'n toiouvtwn dievgnwken h[per oiJ loi[po]i; a[nq[rw]poi. hJmeiς d[ev], wj'

Puqovklei", . . . TH . . . tosouvtou d[evomen . . ]

In questo breve passaggio, Demetrio sostiene che il fine epicureo della vita – il piacere – non era stato attinto, come nelle accuse mosse da molti, da Omero; il frammento è estremamente importante piché Demetrio è l’unico testimone epicureo di questa polemica11.

Complessivamente nel testo Demetrio, polemizzando contro gli avversari del Maestro, corregge false interpretazioni e lezioni delle opere di lui e reca a conferma delle sue affermazioni testi desunti dagli scritti di Epicuro. Nella riportata colonna 48, l’autore, dopo aver alluso evidentemente alla tendenziosa interpretazione degli avversari circa la presunta origine omerica (nello specifico, da Od. IX 5 – 11) di un punto cardine della filosofia del Giardino, consistente secondo loro nella semplice vita godereccia (quell’ ajpolaustiko;ς bivoς che Aristotele criticava nell’ Etica Eudemea 1215b) così risponde: “di qui anche consegue, mi sia lecito parlare liberamente, la confutazione di queste ciance di sofisti. Perché Omero, in verità, null’altro determinò intorno a questo argomento se non ciò che può recare godimento riguardo alla gioia del banchetto, noi invece o Pitocle siamo lontanti da ciò…”12

10 Sul testo, Demetrio Lacone, Aporie testuali ed esegetiche in Epicuro (PHerc 1012), ed., trad. e commento a cura di E.

Puglia, Napoli 1988. Cfr. nello specifico le pagg. 80 – 83 per le valutazioni generali qui riportate sulla natura del testo.

11 Come sottolinea Puglia (1988, p. 306), questo frammento “illumina i rapporti già più volte evidenziati fra il Lacone e

Sesto Empirico. Già il Crönert infatti notò che questa colonna presenta straordinarie attinenze con Sext. Emp., Adv.

(11)

11 Qui è tronco il testo, ma il senso non è dubbio. Ed è anche ipotizzabile, come già fa lo stesso De Falco, che almeno le parole “noi, invece, o Pitocle”, se non anche le precedenti, siano di Epicuro, come provato, oltre che dall’uso consueto delle colonne precedenti13, in cui si recano le parole del Maestro per confutare gli argomenti degli avversari, anche dal vocativo “o Pitocle”; perché Pitocle è appunto uno dei più cari e ferventi discepoli di Epicuro, a cui Epicuro rivolse non solamente la celebre lettera sopra i fenomeni astronomici, ma anche una serie di altre missive (fr. 161 e ss. Usener). E che veramente qui si tratti di un frammento di un’epistola di Epicuro diretta a quel giovane lo possiamo vedere confermato per vie indirette. Le testimonianze a noi giunte di quelle lettere di Epicuro a Pitocle ci rivelano che a lui il Maestro scriveva appunto per allontanarlo in ogni modo da quegli studi liberali che erano il fondamento primo della scuola platonico-aristotelica (cfr. fr. 162, 163, 164 Usener).

È ora dunque ben chiaro perché proprio a Pitocle dovesse rivolgersi Epicuro per confutare l’argomentazione degli avversari che sostenevano che egli avesse desunto da Omero il suo fine etico. Tale polemica era infatti di matrice platonico-aristotelica e proprio le riflessioni filosofiche degli esponenti di tale linea di pensiero erano spesso bollate come “ciance dei sofisti” (come appunto nella colonna 48, PHerc 1012) da parte degli epicurei.

12Come si desume dal testo greco, le prime parole furono integrate dal De Falco; pur essendo queste completamente

congetturali, il senso – corretto – delle medesime è chiaro dal contesto che segue e all’argomentazione degli avversari.

13 Per queste ultime e in generale per valutazioni più approfondite si rimanda a De Falco 1923. Come sottolinea Puglia

1988 ad locum, pag. 398, “esiste comunque realmente il problema dell’esatta separazione della citazione contenente l’indirizzo a Pitocle dal resto della colonna.” La presenza di una originale citazione epicurea, ipotizzata da De Falco, è postulata anche da Crönert 1903, pag. 11: con hJmei§" avrebbe inizio il brano di un’epistola di Epicuro a Pitocle ma, come segnala Puglia, il vocativo Puqovklei", che è la principale prova di ciò, è molto incerto. Per il Bignone (1936, p. 283 n.72 e p. 446), il frammento risale a una lettera polemica contro la scuola di Aristotele a Mitilene, indirizzata a Pitocle per persuaderlo a dubitare delle ciance dei “sofisti” (i platonico-peripatetici) e perché fuggisse con ogni cura (cfr. fr. 163 Usener) gli studi liberali.

(12)

12 3 – Sulla poesia: le parole del Maestro (De Natura XIV)

Un dubbio molto serio può essere dunque destato dalla presenza di passi poetici nel libro di un epicureo, come abbiamo non solo iniziato a verificare analizzando in precedenza alcune posizioni sul rapporto fra il Giardino e la poesia, ma come vedremo oltre a proposito delle presenze poetiche in Filodemo. Un articolo di G. Leone14 contribuisce a gettar luce sulla questione, spingendo di fatto la studiosa ad assumere tale posizione: “è noto infatti che Epicuro innanzitutto non giudicò utili le fonti poetiche, sofistiche e retoriche nell’indagine filosofica.”

Ciò risulta evidente dall’analisi del testo, pur mutilo, del Peri; fuvsew" di Epicuro restituito dal PHerc. 1148, contenente stralci del libro XIV dell’opera, edito da G. Leone nel detto articolo. Nella colonna XXXIX, quale punto di partenza abbiamo la proposizione di principi metodologici di ordine linguistico:

XXXIX:

ajlla; ga;r taũta me;n| aujtoũ katestrevfqw·|- pro;ς de; tou;ς oijomevnouς| katazhloũn, oJvtan

ouj|sivan tiς ojnomavzhi, tou;ς| tauvtaiς taĩς fwnaĩς crw|mev[n]ouς, [kai; p]avlin, oJv[t]an lev|xẹẉς

ajṇag[k]aivan tina;| d[i]ạv[q]eṣiṇ poihvshtai, tou;ς| sofisteuvontaς ajpo; touv|twṇ tw̃[n] merw̃n,

mikra;| bouvloṃạ[i] diạlecqh̃nai·| fasi; g[a;]r dh; tou;ς m[e]ta|[d]ọxạvẓont[aς....] toĩς ọ|[- XL

Oijkeĩon eĩj]|nai, toũ sunavyantoς to;| suvmfwnon auJtw̃i kai; ajkov|louqon, ejkeivnou de;

ajllovtri|on, toũ kukhvsantoς meta;| tw̃n oujk ọijkeivwn dogmav|twn tovde ti ojrqo;̣n dovgma,| kaj;n

provteroς ejpipesw;n| aujtw̃i tuvchi· sumpefo|rhmevnoς gavr ejst[i]n oujc oJ;ς| a]n to;

di[e]sparmevnon dov|g̣ma meq’ eJtevrw[n] ajllotriv|ẉn eJautoũ dogmavtwn eijς| [t]aujto; sụṇavghi,

ajll’oJ;ς a]n | ạjn{i}omoḷ[og]ouvmen’ ajḷl[hv]|loiς tinav, [ei[]te par’a[uJtoũ]| ei[te par’ a[[ll]wn,

ṣuntiq̣h̃i·| ka[n [tiς] toṿ[de] me;n jEmpedo|[k]leṿouς lev[gh]i pro;̣[ς] noũn, tov|[d]ẹ d’ a[n[e]u [noũ] tuvchi [sun]a[r]|tw̃n[….]anon[.]naṇ|gḥ ….[.] utou [.]di.. aṇ|[.]o[..]rou[..]m’e[…]hṇ|[---]t[---]

XLI

Suntiv]qhsin· ou[te ga;r ejpaineĩ| ejxapivnhς tond’e viv tina, [e]ĩ|jta pavlin to;n ajntidoxav|zonta

touvtwi, ou[te todiv| ti ejgkwmiavzei oJ; oJvde tiς| levgei, eĩjta pavlin to; ajnt[i]keivmenon touvtwi

oJ; a[lloς| tiς levgei, ajll’oJvtan ejpai|nh̃i to; toũdev tinoς ejpifo|rãς ojrqh̃ς eij̃doς, eĩjta pavlin|

to; toũde, ouj to; uJpenan|tivon tw̃i toũde ejpaineĩ,| ajll’ oJ; a]n suvmfwnon hJ̃i, kai;| ouJvtwς̣ [ej]p̣i; pavntwn pravt|tei· ajrch;n deṿ, wJvsper ejvle|gon, oụjd’ ejkeivnwn oi[eta[i]| divkaioṇ nomivẓein

(13)

13 [ti]nav,| touvtwn oujqevn, wJvsṭe o[uj]k ej|p̣avgẹṭ[ai poih]ta;ς kai; so|f[i]sta;̣[ς kai; rJhvto]raς, oiJv

g[e] pãn| [to;] ṭh;n ojrqh;n e[con ejpifo|[ra;]ṇ ọuj[--- XLII

Tw̃n toĩς prosev|cousi qoruvbouς ejnqumh|matikou;ς kai; ajpofqe{g}|gmatikou;ς

paraskeua|zovntwn· soloikivzei{n} t’ ejn| dovxaiς to; me;n oJvḷon oJ̣ mh|q̣e;n ajkovlọ[u]qon

sunartw̃n·| ọuj mh;n ajlla; ka[i;] oJ ejpiba|lovmenoς me;ṇ kạta; tou|ton[iv] tina bad[ivzei]n,

ejxapiv|n[h]ς̣ ḍ’ aj[r]covme[noς kaq’] eJvte|ron, eJṿna kaq’eJv[n’·ajll’]oujc oJ;ς| a]n tw̃i me;n oJvlẉ[i

trov]pwi| mh; ej̣pi|bavllhtai| tw̃[i l]ovgw[i]| tw̃i touvtou crh̃[sq]ại, auj|ṭ[o;n d]e; movnon t[i

par]apoi|h̃[i ej]p̣i[thd]euv[saς aJvma]| kai; [p]ro;ς to;̣ ọ[ij]keĩo[n dovgma]| ajpokatasthvs[i---]|

tucovnta[..]maị tọ[---]| mikrovn tịṇa[---]| go[---]| ṃizontị[---|..]nt[---

XLIII

Aujtou;ς ga;r divkaion favs|ke[i]n sol[o]ikivzein h] sum|pẹforh̃sqai, lelumaṣmev|nouς kai; to;

ajpo; tuvchς| t[h̃]ς fuvs[e]wς aujtw̃n ojrqo;n| ejp̣[i]forãς eĩjdoς· oiJ de; dh;| di[av] tinoς ojnovmatoς

h;j oj|no[mas]ivaς ajdiạfoṿr[o]u koi|novṭhta, tw̃i te lelogis|meṿ[n]wi kại; tw̃i tucovn| ti

g[i]nomevnhn, th̃ς di|afọrãς oujkevti ejpaisqa|novmeno[i], p̣antelw̃[ς] hJ|sucivan [ej]cevtwsan

“Ma qui si ponga fine a questo argomento. Voglio invece che siano dette poche cose contro coloro che presumono, qualora uno di essi per caso dia nome ad una sostanza, di emulare quelli che usano (con proprietà) questi termini, e ancora di nuovo, qualora uno di essi abbia ritenuto necessario un certo modo di strutturare l’espressione, di emulare quelli che esercitano la sofistica in base all’uso di questi termini. Dicono, infatti, che quelli che mutano parere…

(Il modo corretto di praticare la filosofia sembra, infatti, essere (proprio) di chi unì ciò che è in accordo con sé e conseguente, è estraneo, invece, a chi mescolò alla rinfusa con dottrine non appropriate una dottrina in qualche modo corrette, anche se per caso precedentemente gli capitò di imbattersi in essa. Confusionario è infatti chi non riconduca ad identità la (sua)dottrina cosparsa di altre dottrine estranee a sé, ma chi metta insieme dottrine tra loro inconciliabili, sia che provengano da lui, sia da altri; anche se qualcuno dica con intelligenza questa dottrina di Empedocle, ma senza intelligenza congiunga a caso quest’altra…

(Il sapiente infatti non) mette insieme (assolutamente dottrine che sono in contrasto fra di loro):né in fatti loda tutt’ad un tratto questo tale, e poi di nuovo chi ha una opinione opposta a costui, né elogia una cosa che ad esempio questo tale afferma, e poi di nuovo una affermazione fatta da un altro che a questa si oppone, ma qualora lodi questa specie di retta conclusione di un tale, e poi ancora quella di un tale altro, non ne loda una contraria a quella del primo, ma una che sia in

(14)

14 accordo con essa, e così si comporta in ogni occasione. Egli poi, come dicevo, non ritiene assolutamente giusto dare credito ad alcune osservazioni di certi e non farlo assolutamente per altri, così che non cita poeti, sofisti e retori, i quali non..tutto ciò che contiene la retta conclusione… …di quelli che procurano tumulti in forma di entimemi e di sentenze a chi dà loro retta; e in generale solecizza nelle dottrine chi non congiunge nulla di coerente; nondimeno anche chi, propostosi di procedere sulle orme di un tale, all’improvviso comincia a seguire un altro, uno dopo l’altro; ma non chi assolutamente non intenda servirsi del ragionamento di questo tale, ma questo solo in qualche modo adotti alterandolo a bella posta e reintegri nella propria dottrina.

…questi infatti è giusto dire che solecizzano o sono confusionari, in quanto hanno rovinato anche la corretta, pur se casuale, specie di conclusione, propria della loro natura. E dunque essi che, a causa dell’ambiguità di un nome o di una denominazione indifferenziata- ambiguità che si verifica in base al calcolo e per caso-, non percepiscono più la differenza, se ne stiano assolutamente tranquilli.”15 Epicuro attacca quelli che presumono scioccamente di emulare, quando applicano casualmente i nome alle cose senza alcuna chiara coscienza del loro significato, quelli che, al contrario, adoperano gli stessi nomi in modo consapevole e appropriato. Epicuro e gli epicurei, dunque, appaiono pienamente consapevoli dei rischi impliciti nell’uso di termini generici e indifferenziati. Ciò apre la strada alla riflessione sviluppata da Epicuro nelle colonne XL-XLII: in riferimento alla figura del

sumpeforhmevno", ci presenta un personaggio incapace di cogliere l’inconciliabilità di dottrine, proprie o altrui, che comunque finisce con il mettere insieme. Il saggio, al contrario, nel valutare i principi dottrinari (ancora una volta propri o altrui), segue sempre un ineludibile criterio di coerenza; inoltre, egli non ritiene di dovere aprioristicamente escludere dalla propria considerazione le opinioni di alcuni a favore delle opinioni di altri, e pertanto non cita poeti, sofisti e retori, che a tale scopo non gli sarebbero utili. Si nega pertanto la possibilità di fare della poesia una base dottrinale o una polarità dialettica di dottrina alla quale attingere o con la quale confrontarsi per la determinazione di un pensiero filosofico contenutisticamente coerente. Come visto in precedenza, anche altrove risuonava decisa l’eco della posizione di Epicuro rispetto alla inutilità della poesia. Grande risonanza ebbero nell’antichità le accuse di plagio mosse al filosofo, reo di aver attinto le dottrine portanti della propria costruzione filosofica da molteplici opere poetiche: oltre al precedentemente riportato passo dell’Odissea, l’identificazione del piacere massimo con la rimozione di ogni dolore di ugualmente omerica memoria (Iliade I 469), l’affermazione che la morte è nulla per noi, questa volta tratta da Epicarmo (23 B 11 DK = 230 Kassel-Austin)

(15)

15 Sesto Empirico, Adv. Math. I 273 (cfr. Epicarmo, 23 B11 DK)

ajpoqanei'n h] teqnavnai ou[ moi diafevrei.

Ancora, un nuovo debito contratto con l’epica (cfr. Il. XXIV 54) nel ritenere i morti privi di sensibilità, una ripresa dal Frisso euripideo nelle valutazioni sulla natura della divinità (fr. 820b Kannicht). La condanna epicurea pare però essere circoscritta a un ambito ben preciso, quello della ricerca filosofica e delle sue caratteristiche metodologiche e semantiche; ciò lasciava comunque spazio alla rivalutazione di queste forme culturali in altri campi di applicazione, eminentemente pratico-strumentali, anche all’interno della scrittura filosofica.

La poesia, al di là di tali criticità rispetto alla posizione filosofica, risultava essere causa di passioni e dannosi turbamenti.

Se nello stesso Epicuro, come detto, lo statuto della poesia è di definizione estremamente problematica per molteplici ragioni, delle quali ricordiamo la limitatissima accessibilità e sopravvivenza di fonti dirette e le maliziose storture che fanno da inciampo all’esegeta che utilizzi le fonti indirette, la poesia fu comunque oggetto di rivalutazione all’interno del Giardino. Si possono forse intravedere tracce di questo processo nell’opera Sull’utilità della poesia di Zenone Sidonio, fr. 12 Angeli-Colaizzo16:

[ejn toĩς| Pe]ṛ[i; th̃ς tw̃n aj]|tov[mwn ajn]|omoi[ov]tht[o]ς̣ kai; peri; pa|regklivsewς kai; th̃ς [t]oũ aj|qrovoụ prokatarch̃[ς] kai;| peri; teleiwvṣẹwς [a[kraς]| kai; ṭ[h̃ς eujdaim]on[ivaς ejn]|

toĩς Peri; telw̃n. Provς gẹ| mh;n ta; kathgorouvmẹṇạ| toũ lovgou kai; toũ bivou tw̃n| peri;

to;n jEpivkouron, di’| aujtw̃n ajpeloghvqh tw̃n| ejn toĩς bublivoiς aj[m]uvqh|ta peri; eJkavstou

parạti|qeivς, wJς Peri; grammati|kh̃ς kai; Peri; iJstorivaς kai;| Peri; paroimiw̃n kai; tw̃n|

oJmoivwn kai; Peri; l[ev]xewς| kai; Peri; poihmavṭẉṇ crhv|[sewς] kai; Peri; eu;sebe[ivaς].

“(Zenone) trattò nei libri Sulla disuguaglianza degli atomi sia della deviazione sia dell’origine degli aggregati e nei libri Sui fini del perfetto compimento e della felicità. Quanto poi alle accuse mosse alla dottrina e al modo di vita dei seguaci di Epicuro, si difese proprio con quelle argomentazioni che troviamo nei suoi libri, portando per ciascuna di esse innumerevoli prove, come nel trattato sulla grammatica, sulla storia, sui proverbi e sui simili e sullo stile e sull’utilità della poesia e sulla religiosità.”

Come possiamo dedurre da tale frammento Zenone, forse in polemica con chi tacciava Epicuro di incoerenza e contraddizione per aver respinto la poesia in quanto causa di turbamento ricorrendo

(16)

16 poi a citazioni poetiche per sostenere le sue dottrine, chiarì il ruolo che la citazione letteraria aveva nella esposizione dottrinale della cerchia epicurea. L’utilità della poesia, per Zenone, sarebbe consistita nel considerare i riferimenti letterari strumento talvolta di dimostrazione, talaltra di critica e di confutazione. In sostanza Zenone avrebbe teorizzato un uso strumentale della poesia, insostituibile patrimonio culturale comune a tutti i Greci, al quale poter fare riferimento in ogni momento. Su questo, molto importante è un passo dello stesso Filodemo che, in PHerc.1005, riferendosi a Zenone Sidonio, ci fornisce notizia delle sue opere, affermando: “quanto poi alle accuse mosse alla dottrina e al modo di vita dei seguaci di Epicuro, si difese proprio con quelle argomentazioni che troviamo nei suoi libri, portando per ciascuna di esse innumerevoli prove, come nel trattato Sulla Grammatica, Sulla storia, Sui Proverbi e sui simili, Sullo stile, Sull’utilità della poesia e sulla Religiosità”. Il concetto di utilità (crh§si") sul quale Zenone il suo trattato sulla poesia potrebbe essere una conferma di una continuità con la plausibilmente ricostruita posizione di Epicuro nel considerare i riferimenti letterari quali strumento talvolta di dimostrazione, talvolta di confutazione. Lo stesso Epicuro (Diogene Laerzio X 121 b, per il quale cfr. supra) aveva esplicitamente ammesso, affermando che ‘solo il sapiente discorrerà correttamente della musica e della poesia, che la poesia potesse e dovesse far parte delle conoscenze del saggio. Anche Filodemo, come vedremo, dimostrò di aver perfettamente compreso l’utilità didascalica della poesia nel De Bono Rege, opera nella quale una nutrita messe di versi omerici concorre a definire la figura del buon politico. Tali opere si possono pertanto considerare pienamente in linea con la tradizione epicurea dell’uso strumentale delle citazioni poetiche. Ogni menzione di un’opera poetica non è altro che strumento didascalico, un saldo fondamento culturale riscontrabile comune a tutte le individualità coinvolte nella vita testuale, l’autore e i suoi destinatari, epicurei e non, sul quale impiantare con chiarezza la riflessione filosofica – o politica, come attesta Filodemo.

Demetrio Lacone analizza il rapporto fra Epicuro e Omero e rifeltte sul possibile riutilizzo del verso Od. IX 5 per la definizione della teoria del piacere nella colonna LXX. Già il Crönert aveva notato che questa colonna presenta straordinarie affinità con Sesto Empirico, Adversus Mathematicos I 273:

dia; tou'to th;n grammatikh;n ajnagkaivan, oJ de; jEpivkouroς fwra'tai ta; kravtista tw'n dogmavtwn

para; poihtw'n ajnhrpakwv": tovn te ga;r o{ron tou' megevqou" tw'n hJdonw'n, o{ti hJ pantov" ejsti tou' ajl

gou'nto" uJpexaivresi",ejx eJno;" stivcou devdeiktai labwvn <tou'> aujta;r ejpei; povsio" kai; ejdhtuvo"

ejx e[ron e{nto (Iliade I, 569):to;n de; qavnaton, o{ti oujdevn ejsti pro;" hJma'", jEpivcarmoς aujtw/'

(17)

17

wJsauvtw" de; kai; ta; nekra; tw'n swmavtwn ajnaisqhtei'n par’ JOmhvrou kevklofe,gravfonto"

kwfh;n ga;r dh; gai'an ajeikivzei meneaivnwn (Iliade XXIV, 54)

“si è scoperto che Epicuro rapisce le più importanti sue dottrine dai poeti; si è infatti dimostrato che la sua definizione dell’intensità dei piaceri come ‘eliminazione di tutto ciò che provoca dolore’ è stata desunta da un unico verso [e cioè da]: ‘ quando la brama del bere e del cibo essi ebber cacciata [Omero, Iliade I 469 e altrove, essendo verso formulare]’”.

Che cosa gli epicurei rispondessero a quest’accusa e a quella di aver ripreso da Omero le affermazioni secondo le quali la morte è nulla per l’uomo e che i corpi morti sono privi di sensibilità e da Euripide alcune massime sugli dei, è riferito dallo stesso Sesto in Adversus Mathematicos I 283-288, in particolare nei paragrafi 283-284:

Sesto Empirico, Adv. Math. 283-284

oJ de; jEpivkouroς oujk ejk tw'n JOmhrikw'n ei[lhfe to;n o{ron tou' megevqou" tw'n hJdonw'n: makrw/' ga;r

diafevrei to; levgein o{ti ejpauvsantov tine" pivnonte" kai; ejsqivonte" kai; th;n auJtw'n ejpiqumivan

plhrou'nte" (tou'to gavr ejsti to; aujta;r ejpei; povsio" kai; ejdhtuvo" ejx e[ron e{nto) tou' favnai o{ron

ei\nai tw'n peri; ta;" hJdona;" megeqw'n th;n tou' ajlgou'nto" uJpexaivresin: tou'to ga;r ouj pavntw"

krevasikai; oi[nw/ ajlla; kai; toi'" litotavtoi" pevfuke givnesqai.

a[llw" te oJ me;n poihth;" ejpi; prosferomevnwn movnwn ejpoihvsato th;n ajpovfasin, jEpivkouroς de; ejpi;

pavntwn tw'n ajpolaustw'n, ejn oi|" ejsti kai; hJ ajfrodivsio" mi'xi", peri; h|" pavnte" i[sasin oi{an e[sce

gnwvmhn JvOmhroς.

“e così anche Epicuro non desunse dai versi omerici la definizione dell’intensità dei piaceri, giacché c’è grande differenza fra il dire che alcune persone smisero di bere e di mangiare e saziarono il loro desiderio (ciò, infatti, vuol dire il verso ‘quando la brama del bere e del cibo essi ebber cacciata’) e il dare la definizione dell’intensità dei piaceri dicendo che essa è l’eliminazione di ciò che provoca dolore, giacché questo naturalmente si ottiene non solo con carni e con vino, ma anche con le vivande più semplici. Inoltre, il poeta ha fatto la sua dichiarazione riferendosi alle sole vivande, invece Epicuro l’ha fatta riferendosi a tutto ciò che provoca piacere, tra cui c’è anche l’amoroso congiungimento, a proposito del quale tutti sanno quale opinione avesse Omero”

La linea difensiva epicurea, tanto in Demetrio quanto in Sesto, mira a svalutare la presunta formulazione etica di Omero, affermando che il poeta in materia etica non disse nulla più di qualsiasi altro uomo. Tale affermazione demetriaca, secondo la quale Omero non diede definizioni

(18)

18 in materia etica più di quanto abbia fatto qualunque altro uomo, è sorprendentemente simile ad alcune frasi della difesa epicurea riportate da Sesto: “e che i corpi morti siano insensibili lo sa non solo il poeta, ma tutto il genere umano” (Adv. Math. I 285),

to; me;n ga;r ajnaisqhtei'n ta; nekra; tw'n swmavtwn oujc oJ poihth;" movno" oi\den ajlla; kai; oJ suvmpa" b -ivo"

“e quanto poi a ciò che Euripide ha detto intorno agli dei, esso corrisponde all’opinione che ne ha la gente comune” (ibid.287), “anzi, se ci si mette a indagare si scoprirà che i detti dei poeti sono al di sotto delle nozioni della gente comune” (ibid. 288).

a]n de; kai; ejxetavsh/ ti", pollw/' ceivrona th'" tw'n ijdiwtw'n uJpolhvyew" euJrhvsei ta; tw'n poihtw'n

Ciò conferma che l’Empirico conosceva molto probabilmente il libro di Demetrio o comunque che tale argomento apologetico era piuttosto diffuso nella scuola epicurea.

Demetrio Lacone, dunque, riteneva che Epicuro avesse ripreso un passo in cui si parlava di un tipo di piacere diverso da quello che egli proponeva: Epicuro dunque non prende la sua teoria da Omero, come affermavano i detrattori, ma confuta la poesia. La critica espressa da Demetrio Lacone e Sesto Empirico muove in realtà da una matrice contenutistica: gli autori non problematizzano il rapporto fra la riflessione filosofica e la poesia ma, ritenendo la trasposizione semantica da un medium all’altro l’unica possibile forma di interazione (o quantomeno quella oggetto della loro analisi), negano ogni equivalenza di contenuto fra la filosofia epicurea e le sue presunte fonti poetiche, individuate da un agguerrito gruppo di detrattori; tale negazione è sufficiente a riscattare l’originalità della riflessione di Epicuro e non propone una diversa modulazione dell’interazione fra filosofia e poesia.

Secondo Ronconi, abbiamo una scissione Teoria-Prassi (presente anche nel rapporto fra Platone e Omero): da un lato la critica della poesia omerica, dall’altro la necessità di rifarsi ad essa come conseguenza della propria educazione e per avvicinarsi al linguaggio dei destinatari.

Ciò risulta evidente anche in Filodemo nel quale, ancora secondo Ronconi, l’epicureismo è una esperienza dottrinale, il poetare è una esperienza vissuta, sono due valori indipendenti e non interferenti.

(19)

19 Molto importanti, sul tema del rapporto fra la scuola epicurea e la poesia, sono gli studi della

Asmis17, secondo la quale in ultima istanza le posizioni di Epicuro sulla poesia, per quanto a noi noto, sono riassumibili in tre fondamentali precetti: la poesia non è appropriata in ambito educativo, l’esegesi della poesia non ha valore, la poesia può essere fruita solo per godimento. Fonte

principale di questa sintesi è per noi Plutarco (Non posse suaviter vivi secundum Epicurum), ovviamente a patto di ricordare che la virulenza della polemica antiepicurea sviluppatasi nei secoli richiede grande cautela a chi si accosti ai testi dei polemisti per trarne lumi sulla dottrina del Giardino. Seguendo Epicuro, possiamo affermare che Filodemo respingeva la necessità di una finalità didattica per la poesia, cui si richiedeva solo intrattenimento: questa posizione della studiosa, come vedremo, pur non essendo del tutto in contrasto con quanto emergerà dalla lettura dell’opera filodemea, non evita il tranello di un approccio inutilmente manicheo, che traccia un solco di incomunicabilità fra un utilizzo puramente esornativo della poesia e una sua piena e indipendente dignità contenutistica (e quindi didattica) all’interno della riflessione filosofica.

Un testo non di Filodemo ci aiuta a contestualizzare i suoi scritti di poetica e stiamo parlando del

Contra grammaticos di Sesto Empirico, già citato in precedenza, il quale probabilmente ha un

corposo debito verso perdute opere di Zenone, maestro di Filodemo. In sostanza, è compito della filosofia identificare e spiegare che cosa vi è di potenzialmente utile nella poesia, essendo l’utile un obiettivo raggiunto da questa incidentalmente, da quella per statuto; la filosofia produce le proprie valutazioni indipendenti e solo allora può cogliere nella poesia ciò che vi può essere di conforme a questi.

Nel De Pietate, la teologia omerica è oggetto di durissime critiche da parte di Filodemo; vi sono altri passi nell’opera filodemea in cui il giudizio su Omero – o meglio, sulla condivisibilità contenutistica di alcuni passi – è molto meno negativo18: questa apparente incongruenza fra le posizioni espresse nelle diverse opere di Filodemo risponde in realtà ad una attribuzione di duttile strumentalità alla poesia, un approccio che risulterà evidente nel paragone fra l’utilizzo delle citazioni del De Bono Rege e nel De Poematis, su cui per questioni statistiche (la quantità considerevole di stralci poetici presente in entrambi i testi) si è indirizzata la valutazione.

17 Cfr. bibliografia; una guida indispensabile sul tema è data dal volume Philodemus and Poetry, a cura di D.Obbink, in

cui si cerca di instaurare un dialogo fra i diversi contributi presentati.

(20)

20 4 – Epicuro, Filodemo e la politica

Il De Bono Rege manifesta, come visto, un primo aspetto di apparente conflittualità rispetto alle presunte posizioni di Epicuro: l’utilizzo della poesia. La cristallizzazione di tale contrapposizione si incrina innestando nella riflessione alcuni dei fattori precedentemente citati: la strutturale complessità della posizione di Epicuro, l’opinabilità della nostra ricostruzione, legata alle caratteristiche della trasmissione indiretta che ci ha permesso di strutturarla, le differente condizioni storiche in cui hanno operato Epicuro e i suoi discepoli19. Di tale questione si è data una visione panoramica, con l’intenzione di contribuire in minima parte al dibattito con le riflessioni rese possibili dalla lettura di Filodemo, mantenendo salda la coscienza di una articolazione e dimensione del dibattito sul rapporto fra Epicuro (e discepoli) e poesia che trascende di necessità i limiti di questo elaborato.

Vi è, però, un secondo aspetto di potenziale problematicità, ancora una volta connesso con una seconda e ugualmente vasta e ramificata vexata quaestio: il rapporto fra Epicuro (e le conseguenze che esso può avere avuto sui discepoli del filosofo) e la politica. Se questa ricerca si focalizza in particolar modo su una precisa sfaccettatura dell’identità letteraria del testo filodemo, ossia il rapporto con il referente omerico nell’atto della citazione, non è possibile ignorare il contenuto politico del testo, costruito come un prontuario del buon governo. Questo elemento ha dato i natali a una riflessione speculare a quella precedentemente riportata, questa volta incentrata sul tentativo di modulare in maniera coerente il rapporto fra Filodemo, autore di un testo dallo spiccato valore politico, e il maestro Epicuro, di cui parte della vulgata (vulgata dei testi o degli interpreti in questi casi sembrano quasi sovrapporsi e confondersi) testimonia un violento rifiuto di ogni coinvolgimento nella vicende pubbliche e politiche.

Come già fatto per la poesia, si pongono qui le basi – note e variamente riportate - per un semplice inquadramento della questione, la cui esistenza non pareva lecito ignorare.

Un primo e celebre frammento epicureo pare sottolineare come il saggio non debba preoccuparsi del contesto in cui si trovi a vivere, 8 Usener = Diogene Laerzio 10, 119:

19 Su questo tema ha riflettuto Erler 1992, sottolineando le peculiarità del profilo intellettuale di Filodemo più distanti

dalla presunta ortodossia epicurea, dettate dal differente contesto socio-culturale in cui si trova a operare nel mondo romano.

Riflette sul medesimo tema Sedley 1989, il quale pur riconoscendo – in riferimento ai primi momenti della scuola epicurea – che among Epicurus’ immediate pupils there was a degree of philosophical independence which, if slight by

most standards, was striking for a later, traditional Epicurean like Philodemus (pag. 98), pur riconosce che la dottrina

epicurea aveva comunque compiuto un processo di maturazione e assestamento in parte indipendente dalle posizioni del fondatore: Philodemus, it should be added, supplies plenty of evidence that in his day Epicurean theories had been

(21)

21

Oujde; politeuvsetai (oJ sofovς), wJς ejn th̃/ prwvth/ Peri; bivwn. Oujde; turanneuvsein

In realtà si fa riferimento alla capacità del saggio di mantenere in ogni circostanza la sua imperturbabilità più che all’effettiva ininfluenza della forma di governo e tale interpretazione di questo snodo della filosofia epicurea si stratifica giungendo fino a Cicerone (Ad Atticum XIV 20, 5):

iudicavit mihi Pansa meus Epicureum te esse factum…quid fieret porro populo Vlubrano, si tu statueris politeuvesqai non oportere?

Oltre a Cicerone, anche Seneca accoglie la medesima suggestione in Epist. 90, 35:

non de ea philosophia loquor, quae civem extra patriam posuit, extra mundum deos, quae virtutem donavit voluptati.

Epicuro pare avere una buona opinione dei monarchi; un saggio, però, potrà anche trovarsi a dover rendere omaggio a un monarca per salvaguardare la sua atarassia (577 Usener)20.

Diogene Laerzio X 121 (= 577 Usener)

Kai; movnarcon ejn kairw̃/ qerapeuvsein

Il testo di Filodemo, nel quale fra poco ci addentreremo con maggiore precisione, sarebbe un Fürstenspiegel, destinato a personaggi romani che aspiravano a posizioni di potenza e non vede quindi direttamente e profondamente coinvolte le posizioni filosofiche di Filodemo che in Rhet. II (frammento XIX, 6-23; 158)21 si riferisce chiaramente alla necessità, per il saggio, di astenersi dalla politica. In Rhet. I 259, Filodemo pare indicare la sostanziale irrilevanza della forma di governo, a fronte della possibilità di trasferirsi altrove; in questo, si torna vicini a Epicuro.

Tale rapporto conflittuale con la realtà politica non deve essere condotto alle sue ultime istanze in sede ermeneutica: per Epicuro l’esistenza dello stato è la sola condizione della pace del saggio (frammento 530 Usener).

20 La preferenza accordata da Epicuro alla monarchia, fra le varie forme di governo possibili, è una ipotesi ermeneutica

in realtà dibattuta; come sottolinea Roskam (2007, pag. 54): the question remains, however, whether so much emphasis

should be but on the term movnarcon. Schofield rightly insists that there is no good evidence that Epicurus epressed his opinion on the comparative merits of the different constitutions. Perhaps the question was of no great importance to him. In any case, the sage will pay court to influential statesmen (such as Idomeneus or Mithres) no less than to kings. Accordingly, the interpretation of the scope and meaning of the doctrine should not rest primarily on the term movnarcon, but rather on ejn kairw§/.

Roskam 2007 concentra l’attenzione anche sugli epicurei di prima e più tarda generazione, fra i quali ovviamente Filodemo, sul quale cfr. pp. 101 – 128.

(22)

22 Stobeo, Antologia 4, 1.143 (= 530 Usener)

oiJ novmoi cavrin tw̃n sofw̃n keĩntai, ouJc oJvpwς mh; ajdikw̃sin ajll’ oJvpwς mh; ajdikw̃ntai Come difendere il sapiente e la sua imperturbabilità dal turbine degli eventi politici? È questa la domanda cui Epicuro tenta di rispondere nel precedente frammento. La riposta prima è, come abbiamo visto: astenersene e coltivare la filosofia, cioè approfondire la scienza della natura allo scopo di ottenere la pacata tranquillità dell’anima. C’è però anche una risposta diversa, che Epicuro non disdegna di dare seppure in secondo luogo, come proposta di ideale secondario: il sapiente potrà trovare un appoggio nel monarca, come alcuni dei frammenti precedenti ci hanno mostrato, potrà avere dalla forma monarchica del governo, per precaria che sia ogni potenza politica, una più sicura garanzia contro ogni possibile turbamento che, a fronte di una differente forma di governo, lo costringerebbe se non altro a immergersi più a fondo nel turbine degli eventi politici: il gradimento accordato alle diverse forme di governo esiste solo in relazione al problema etico fondamentale, la salvaguardia della serenità del saggio. Ma, fissati questi limiti precisi, si può legittimamente ritenere che Epicuro abbia accordato una chiara preferenza alla forma monarchica, dal momento che il filosofo associa al sospetto con cui guarda all’attività politica in generale, una concessione riguardante i rapporti con il monarca, che sono permessi al sapiente come una possibilità sostanzialmente mente positiva (cfr. Diogene Laerzio 121 b: in determinate circostanze, saprà anche servire il principe): Vediamo dunque come Epicuro non rifiuti l’idea di una qualche forma di comunanza e vicinanza fra filosofo e il re, dalla quale non potrà non scaturire per quest’ultimo un effetto etico positivo. Lo stesso Momigliano ha messo in luce i rapporti di amicizia che Epicuro intrattenne con sovrani quali Antigono Monoftalmo e Demetrio Poliorcete, nonché con alti funzionari di corte.

Sviluppando la riflessione in traiettoria diacronica, possiamo accostarci a Filodemo, riportando un passo di Rhetorica, I 375,2:

O[iJ] de; [rJ]hv-

to[r]eς ej[n] tw'[i] tw'n poli-

teumavtwn ajsunetw- tavtwi, thi dhmokrativ- a/ pov[da] i{stasqai [boul]on-

tai, ka[peiq’ hJ'tton ajn<ei-

(23)

23 in cui riferendosi alla democrazia si utilizza il termine ajsunetwtavtwi. Questa è dunque la posizione che lo stesso Filodemo esprime intorno al 70 d.C., dunque nei suoi primi anni di soggiorno in città (è ancora un epicureo ortodosso, se così vogliamo semplificare): la democrazia, in quanto governo popolare, richiede la partecipazione attiva di tutti i cittadini, quindi implica anche la presenza attiva del saggio tale da condurlo a compromettere la sua atarassia.

Alcuni anni più tardi, quando la situazione politica inizia a deteriorarsi e tutto lascia pensare a una ormai prossima instaurazione di un governo tirannico, egli vi si oppone apertamente: pare essere questa la posizione espressa nel I libro Peri; qew§n22 (col. XXV 22-37 Diels).

L’ascendenza epicurea delle posizioni filosofico-politiche dell’autore lo porta a rigettare sia la democrazia sia la tirannide, entrambe nocive alla serenità dell’animo. Non pare dunque essere un caso che anche nel presente trattato Filodemo sviluppi la tematica, di cui certo non si ignora il valore topico nella trattatistica, della contrapposizione fra il basileus e il tyrannos, con l’evidente primazia accordata alla prima figura (colonne I-V)

Il problema si pone con nettezza agli epicurei romani, i quali devono conciliare il loro ingresso nell’agone politico con la loro fede filosofica. Nell’intrecciare agli insegnamenti di Epicuro l’epos di Omero, Filodemo avanza una riflessione sull’etica politica dinanzi ad un mondo ormai diverso rispetto a quello nel quale si era sviluppato il primo Kh'poς.

Filodemo dunque consigliere del princeps; rispetto alle posizioni attribuite ad Epicuro sulla politica e sulle ricadute della stessa sulla vita del saggio, nel testo filodemeo emerge la necessità che il buon politico renda sicura e stabile la polis che amministra. Tale risultato nel De bono rege sembra coincidere con la costituzione di una eujstaqh;ς monarciva; l’aggettivo eujstaqhvς con cui Filodemo definisce la migliore forma di governo possibile è tipico del linguaggio del Khvpoς. Le qualità del basileuvς tratteggiate da Filodemo sono organizzate in un unitario sistema di virtù che ne distinguono il più alto profilo morale. Il re evita la filomaciva (PHerc 1507, col. XXVII 14-18), non deve indulgere a divertimenti eccessivi e compagnie volgari (col. XXII 927), né deve avere un carattere filogevloioς (col. XXI, 18-39); Filodemo inoltre consiglia al re il rifiuto di passioni nocive che producono turbamento, come l’invidia (col. XXIX).

Rispetto alla declinazione del valore politico del testo, secondo il Murray23il De bono rege dovette essere progettato per un vasto uditorio, adattando ad un contesto romano-latino delle concettualizzazioni di ambito greco: il testo pertanto non sarebbe un de regalitate propriamente

22 Diels 1970 (1915) 23 Cfr. Bibliografia

(24)

24 detto, ma un’epanorthosis, come già visto. L’autore non avrebbe in mente un singolo uomo, ma una classe di uomini, analoga ai basileis omerici.

Difficilmente accettabili paiono, rimanendo nel medesimo ambito di contestualizzazione politica, le considerazioni di Grimal, secondo il quale il testo costituirebbe un manifesto politico atto a

sostenere la causa cesariana.

Queste valutazioni sulla destinazione politica dell’opera, si incrociano necessariamente con il dibattito sulla datazione della stessa; si è in maniera abbastanza concorde giunti ad accettare l’ipotesi del Murray, che suggerisce il 59, anno in cui Pisone rivestì la carica consolare ed entrò a far parte dei principes grazie al matrimonio contratto dalla figlia Calpurnia con Cesare.

In una delle ultime colonne del testo (XLI 34 ss.) del suo scritto, Filodemo, sotto le spoglie del mantis Teoclimeo, si rivolge a Telemaco/Pisone per chiedere protezione e per offrirgli i suoi consigli di filosofo e letterato. Filodemo, giunto in Italia verso la metà degli anni Settanta, incontra Pisone e tra i due si instaura quel rapporto di solidale amicizia che si protrasse poi per tutto il resto della loro vita. Il filosofo aveva lasciato Atene con il compito di diffondere il verbo epicureo anche in terra italica: l’amicizia di un influente membro dell’aristocrazia romana gli si sarà presentata dunque come una occasione opportuna che avrebbe facilitato l’adempimento del suo incarico. Nello scrivere questo testo, desiderava certamente cementare l’amicizia con Pisone e nello stesso tempo rinsaldare la sua posizione. L’opera riflette dunque palesemente il clima di rinnovato (ma circoscritto ad una relazione binaria patronus-cliens) patronato letterario nella tarda età repubblicana. Il fatto che il testo sia chiaramente ispirato alla tradizione omerica non può far sì che esso venga considerato alla stregua di una semplice esercitazione retorica, ma piuttosto come un abile adattamento di contenuti resi convenzionali dalla grande diffusione dei poemi omerici ad una nuova realtà politica e sociale.

Possiamo dunque pensare che l’opera sia stata concepita a favore di Pisone, amico e protettore di Filodemo a Roma, in procinto di ottenere il proconsolato in Macedonia. Non era certo inconcepibile individuare una continuità fra l’antica regalità orientale e le nuove figure amministrative romane (con Antonio, di lì a pochi anni, questa continuità raggiungerà piena evidenza). Secondo Gentile24, è però difficile respingere l’idea che tale riflessione sia da generalizzare: troppi elementi indicano che il re cui pensa Filodemo è destinato a un governo più duraturo di quello di un proconsole, la cui finestra di potere è cronologicamente molto più limitata.

Riferimenti

Documenti correlati

Che si tratti di un’opera composita non può esservi dubbio: due dei resoconti sono addirittura in latino; le modalità dell’esposi- zione mutano a strati, allargandosi

Il dialogo sempre più serrato in atto fra i di- versi media arricchisce e rigenera i singoli lin- guaggi artistici all’insegna dell’ibridazione; 8 una ricchezza inestimabile,

Mercoledì 10 aprile, alle ore 20.30, presso la Biblioteca Comunale “Don Lorenzo Milani” di San Martino Buon Albergo in piazza del Popolo 26, sarà presentato il libro di Simone

La specificità del discorso filosofico consiste nel pensare oltre la maniera tecnica, la quale si restringe alla determinatezza del problema: non più o non solo nel tentativo

Jonas, Gnosis und Spätiker Geist (vol. I: Die mythologische Gnosis; vol. II: Von der Mythologie zur mystischen Philosophie), Vandenhoeck &amp; Ruprecht, Göttingen 1954.. Non

To address these questions, the present study investigates the influence of language system and visual features of signs on numerical spatial representation, looking for the SNARC

Il metodo di Pacini e quello proposto qual- che anno prima da Henry Robert Silvester (1863) sono, nella seconda metà dell’Ottocento, una va- lida alternativa ai poco efficaci e

Heredes condam Joannis de Curlo militis pro certis terris quas tenet in eodem tenimento oz 30 (c. 240r)v. Heredes quondam Joannis de Turla militis pro certis terris, quas