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ktamevnoisin W; fqtimevnoisin Stob Flor CXXV 2 (4, 57.2), Plin Epist IX, 1

33 Nel momento in cui Odisseo invita Euriclea a trattenere il suo entusiasmo dinanzi alla strage appena compiutasi dei pretendenti poiché ‘è empio esultare su uomini uccisi’. Nel testo di Filodemo, tale verso è utilizzato per esemplificare la proposizione precedente, secondo la quale un soggetto indefinito (molto probabilmente Omero) ‘non ritiene di acclamare (secondo la lettura di Dorandi) oppure ‘ritiene di dover rimproverare (secondo la ricostruzione di Olivieri), esprime comunque un guidizio negativo circa gli individui che pur giustamente traggono vendetta (ENDIKWS). Con molta difficoltà si potrebbe attribuire una tale prolessi della citazione ad Odisseo, che pure le parole successive pronuncia nell’Odissea, certamente non per esprimere ripensamenti circa la propria vendetta. Su questo punto si tornerà a breve, una volta espresse ulteriori e necessarie valutazioni su altre caratteristiche della citazione.

Si cita un verso dell’Odissea, XXII 412 (oujc oJsivh ktamevnoisin ejp’ajndravsin eujcetavasqai), come si è detto, ma non può essere trascurata una importante variazione: in luogo della forma

ktamevnoisin, tràdita dall’universalità delle fonti codicologiche (nonché da Clemente Alessandrino, Strom. VI 5, 9 e Eustazio, nel commento ad l.), Filodemo riporta fqimevnoisin.

È da dire che in Clemente Alessandrino la citazione omerica è collocata nella sezione delle imitazioni epiche ed è indicata quale modello di un verso di Archiloco (tale verso lirico è citato anche dagli scholia ad loc., che ne mettono in evidenza il parallelismo rispetto al dettato epico):

ouj ga;r ejsqla; katqanou'si kertomei'n ejp’ ajndravsin (fr. 134 West2)

Oltre ad Archiloco, Clemente Alessandrino riporta anche un passo di Cratino, ejn toi'ς Lavkwsi(fr. 102 Kassel-Austin):

fobero;n ajnqrwvpoiς tovd’ auj'

ktamevnoiς ejp’aijzhoi'si[n] kauca'sqai mevga

Queste citazioni – indicate come una voluta eco letteraria da Clemente Alessandrino – sono state spesso oggetto di una inversione generativa rispetto al testo epico da parte della critica moderna. Tali versi lirici non sarebbero cioè esemplati sul testo epico, bensì a tali versi si sarebbe ispirato un anonimo interpolatore per intervenire sul dettato omerico, plasmando il verso 412, la cui spia di paternità posteriore rispetto al tessuto epico in cui è inserito sarebbe l’uso inconsueto della forma

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ojsivh; questa torna due volte nell’Odissea (in questo luogo e in XVI 423), preceduta dalla negazione, in simmetria semantica con l’espressione latina non fas est.

Date due tracce testuali in riconosciuta – o ipotizzata sin dai primi commentatori – continuità, complesso è stabilire la direzione del vettore genitoriale: rovesciando l’assunto precedente, Merkelbach35 ad esempio riteneva che il verso di Archiloco fosse terminus ante quem e non fonte di una interpolazione posteriore nel testo epico; sottolineava inoltre un ulteriore elemento di continuità fra i due testi: alla gebräuchliche Konstruktion dell’eujcetavasqai ejpiv epico, corrisponde un

ungewöhnlich kertomei'n ejpiv (kertomevw risulta costruito con ejpiv solo in questo passo) in

Archiloco. Lo studioso giunge inoltre ad affermare che “Archilochos hat also die Konstruktion der

Odyseestelle unbewußt nachgebildet.

ojsivh come già detto torna in XVI 423; rispetto al pur complesso tema dell’etica omerica quale entità omogenea e non contraddittoria nelle sue parti, non pare probante che tali parole di Odisseo, piene di umanità e clemenza, paiano in contrasto con la ferocia che domina nel libro XXII: si tenga a mente che qui Odisseo si rivolge a Euriclea, sua nutrice e fedele custode del palazzo, esponente di una quotidianità precedente e futura (essendo la presenza dei Proci a palazzo il terminus da fissare per questa indicazione temporale) alla quale si deve intrecciare una tensione etico-didattica che trascende la violenza dell’episodio della mnesterofonia.

Gli argomenti a favore dell’atetizzazione del verso 412 non sembrano molto convincenti.

Una possibile alternanza o confusione fra le forme di kteivnw e di fqivw non è in alcuna occasione avvalorata dalla tradizione manoscritta che, rispetto ai participi di tali forme verbali (un campione comunque corposo, composto da oltre 40 attestazioni nell’epica omerica), non presenta ad esempio mai divergenze d’attestazione ma sostiene universalmente una delle due possibilità, kteivnw o fqivw. Solo in Od. XXII 412 abbiamo tale ambiguità; è significativo che essa sia alimentata da più fonti indirette ma da nessuna attestazione diretta nei codici. Non pare peregrino ipotizzare un’unica fonte all’origine di tale geminazione in più testi diversi della forma fqivmenoisin, sia stata essa un centone di citazioni omeriche o un commento; il valore fortemente gnomico del verso ne avrà agevolato l’approdo in opere di tal genere.

Fqimevnoisin è attestato anche in Plinio, con un accento netto sul valore gnomico del verso, citato per metà; Ep. IX 1, 3:

Erit autem, si notum aequis iniquisque fuerit non post inimici mortem scribendi tibi natam esse fiduciam, sed iam paratam edizione morte praeventam. Et simul vitabis illud oujc oJsivh fqimevnoisi

35 Il verso omerico con la variante fqimevnoisin torna anche in Stobeo (CXXV 2) e nella raccolta dei Paroemiographi (II, pag. 757): quest’ultima attestazione di certo legittima la riflessione precedente su una ipotetica fonte antologica.

Ricordiamo in conclusione un dato lessicale riportato da Dorandi36: Omero di solito distingue con riconoscibile precisione fra kteivnw e fqivw: kteivnw è usato con il valore semantico più deciso di “uccidere, massacrare”37, mentre fqivw ha il significato più blando e meno circoscritto di “morire, essere defunto”38. Ktamevnoisin è pertanto preferibile in questo passo, in cui si parla della strage dei Proci compiuta da Odisseo.

La citazione è introdotta dal participio di ejpifwnevw, che non ha attestazioni nell’epica (acclamo,

dictum aliquod cum acclamatione iis quae dixi subjungo secondo lo Stephanus) e presenta una

maggiore intensità gnomica rispetto alla lettera epica, Od. XXII 410: (scil. jOduseuvς) kai; min

fwnhvsaς e[pea pteroventa proshuvda, peraltro accentuata dal subito successivo katamhnuvei (indico, significo, patefacio). Possiamo notare una sovrapposizione fra personalità autoriale e personaggio (Omero – Odisseo) nella citazione di Filodemo, il quale attribuisce direttamente ad Omero, sottolineandone il valore quasi non narrativo di sentenza, le parole di Odisseo, pertanto trascurando ogni possibile mediazione concettuale fra intenzione dell’autore, persona dell’autore, personaggio fittizio, contesto narrativo.

Un altro passo è costituito da XXXIX 21-26 Dorandi (=XXI 22 Olivieri), anticipato però da citazioni con un soggetto diverso da Omero chiaramente esplicitato (Odisseo), tanto da lasciare spazio all’ipotesi che la disastrata sezione papiriacea che precede la citazione diretta serbasse il nome di Nestore, al quale queste parole sono attribuite nell’Iliade (IX 104-105).

euj̃ <di>|aṛrhvdhn e[fh ṇ[ũ]n, wJς· “oujv| tiς novọn ajvḷḷoς ajmeivṇọ[n]ạ| toũde nohvsei, oi|̣on

ejgw{;i}|25noevw, hJme;n pavlai h;d’ e;v|ti kai; nũn”

…molto chiaramente dice ora che ‘non si potrà pensare pensiero migliore di questo/ch’io penso da tempo; sì come adesso’

36 Cfr. Dorandi 1978 ad l.

37 Cfr. Il. III 375, V 21, XV 554, XVIII 337; Od. XXII 401 e XXIII 45. Ovviamente tale casistica non è da intendersi

quale esaustiva, ma esclusivamente esemplificativa.

36 Introdotta dalla forma euj' diarrhvdhn e[fh nu'n wJς, abbiamo come detto la citazione di Il IX 104 – 105:

ouj gavr tiς novon a[lloς ajmeivnona tou'de nohvsei,

oiJ'on ejgw; noevw, hjme;n pavlai hjd’e[ti kai; nu'n

La citazione è letterale, con la sola omissione del gavr, cui Filodemo non sostituisce alcuna particella; possiamo qui vedere – e questa valutazione si può estendere ad un numero estremamente corposo di citazioni tanto da cristallizzarsi in modalità operativa propria dell’autore – come l’equivalenza metrica non sia un elemento discriminante nella scelta delle modalità di citazione, a fronte di un intervento sul testo.

I riferimenti ad un determinato libro o episodio dei poemi omerici sono alquanto vaghi e vi è un solo caso nel testo in questione, XXXIII 29-37 (= Olivieri XV 29-39), in cui compare il sostantivo

nuktegersiva. Tale sostantivo risulta già presente nella tradizione scoliastica per indicare il libro X: Schol. Il. 10, 0a (vol. III Erbse, pag. 1):

au{th hJ rJayw/diva ejpigravfetai “nuktegersiva”, <dia; to;> ejpanastavnta" tou;" prwvtou" tw'n

JEllhvnwn kataskovpou" pevmyai gnwvmh/ Nevstoro" Diomhvdh kai; jOdusseva. A Tale sostantivo, come detto, torna anche in Filodemo, XXXIII 29 - 37:

oij [k]ata; t[h;]n nuk[tegersiv]|30an [b]ouleuovmenoị [peri; tw̃]n| oJvlwn ajristeĩς· to;[n ga;r

M]heri|ovn[hn] kai; to;n jAnt[iv]locon,| oujḍevpẉ katatetagme|vnoụς eijς to; sunevdṛịon, ajpa|v 35gonteς, wJς a;jn eJwrakovteς| aujtw̃n th;n frovnhsin [e[]n| te toĩς ajvlloiς kai; th̃i peri;|| [th̃ς

fulakh̃ς ---]

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