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Nell’analisi delle due opere nel presente capitolo, ci si concentrerà sul contenuto piuttosto che sulla forma: questo non perché i pattern formali visti nel capitolo 3 non siano più presenti, ma perché In cammino e La mano dell’uomo sono molto più densi rispetto ad Altre Americhe e Terra, per quanto riguarda i soggetti e le loro storie: se nei primi due lavori analizzati la critica si costruiva in gran parte attraverso l’estetica, qui – pur non dimenticando l’importanza della dimensione formale- è il contenuto a dare il contributo maggiore, insieme alle ricche didascalie- commento dell’autore presenti nei supplementi ai due volumi. Inoltre, come scrive Nair a

proposito di In cammino, in queste fotografie (ancor di più che in Terra o Altre Americhe, il cui contesto narrativo è uno solo, ma molto più ampio)

379S. Salgado in The spectre of Hope 380 Ibidem

“the question of representation os itself blurred (…) A wider story unfolds when one turns the pages and sees the image in the fuller context of the many pitfalls and intricacies of border crossing between continents” 382. Per costruire una narrativa critica è quindi necessario concentrarsi, più che sulla forma o sulla tecnica del singolo scatto, sul contenuto degli stessi e sulle storie comuni che attraverso di essi si sviluppano.

Salgado fotografa diversi generi di migrazione: la prima sezione della raccolta ne scorre diverse, dai migranti internazionali ai rifugiati, ai migranti clandestini. È con quest’ultima categoria che inizieremo l’analisi, a partire da uno scatto effettuato negli Stati Uniti, giusto a qualche metro dal confine con il Messico383. Il fotografo prende parte al viaggio dei migranti

provenienti dal Messico e dall’America Centrale e ne documenta il percorso verso gli Stati Uniti: in questa immagine, divisa a metà dal muro di lastre metalliche che separa i due Stati, un migrante ritorna correndo sui suoi passi dopo essere stato sorpreso da una pattuglia della Border Patrol, che presidia la zona di confine statunitense. Negli USA, i migranti clandestini non sono passibili di detenzione, a meno che non vengano trovati in possesso di documenti falsi; in caso contrario, verranno deportati e costretti a rientrare in Messico384. Probabilmente, è proprio per questo motivo che il migrante in

questione teneva a rientrare in Messico prima di essere arrestato. Egli appare minuscolo anche di fronte alla brevissima distanza che lo separa dal muro; l’inquadratura dell’immagine permette allo sguardo dell’osservatore di spaziare tra due Stati, e di fatto tra due mondi.

L’analisi della prossima fotografia porta all’attenzione le sorti di chi non solo non è riuscito a giungere a destinazione, ma nel tragitto ha perso la vita. Si tratta, in questo caso, dei migranti africani diretti verso l’Europa

attraverso lo stretto di Gibilterra. L’immagine385 mostra il cimitero di Tarifa: metà dell’inquadratura è occupata da una fossa comune nella quale si

trovano i resti dei migranti morti durante la traversata, in molti casi

irriconoscibili al momento del ritrovamento, o mai reclamati dalle famiglie

382 P. Nair, op. cit., 93

383 S. Salgado, Su un treno diretto nel Messico settentrionale, 1998, In cammino, Contrasto, 25

384 S. Salgado, supplemento a In cammino, Contrasto, 3 385 S. Salgado, Tarifa, Spagna, 1997, op. cit., 37

che non sono mai state rintracciate386. Mentre la prospettiva grandangolare

“celebra” la fossa comune, dietro di essa si vedono i loculi, ben ordinati e curati, di chi non ha avuto questo destino.

Nella prossima immagine non sono visibili migranti, ma solo un grigio profilo di grattacieli, visibile attraverso un’angusta apertura nella cornice di una parete di metallo e da barriere di filo spinato387. Si tratta del centro di detenzione per migranti clandestini vietnamiti di Hong Kong, in cui dal 1975, racconta Salgado, arrivavano dal Vietnam migliaia di boat people all’anno388. L’abbondante flusso di migranti clandestini aveva portato alla

formulazione di una legge che ne stabiliva lo status di illegalità e ne prescriveva la detenzione in centri come quello della foto, in attesa del rimpatrio forzato. La stessa situazione si presenta in Indonesia, nell’Isola di Galang389: i migranti vietnamiti sono detenuti o rimpatriati forzatamente; ironicamente, sull’isola è presente una bizzarra copia in legno della statua della libertà, accanto alla quale posano due migranti vietnamiti, a

simboleggiare la speranza che essi ripongono nel poter partecipare, un giorno, del “sogno americano”.

Dai centri di detenzione di Hong Kong alle campagne della Serbia, dallo stretto di Gibilterra ai treni che attraversano il Messico, ai campi profughi dei Curdi in Turchia, Salgado ritrae i migranti internazionali dell’epoca contemporanea, i “volti della globalizzazione”. Ma le ripercussioni della globalizzazione causano fenomeni migratori anche interni e cambiamenti radicali dei modi di vita presso le comunità indigene di diverse zone della Terra, come testimoniano le fotografie degli indios Yanomami del Brasile. Lo scatto qui analizzato mostra il ritratto quasi idilliaco di quattro giovani indie presso un corso d’acqua, attorniate da sciami di farfalle bianche390. Il

fiume è l’Igarape, nello Stato di Roraima, il cui corso fu deviato tra gli anni ’70 e ’80 dai minatori per fare spazio ad un aeroporto prossimo ai fruttuosi giacimenti di cassiterite della zona391, nonostante le zone in questione siano territori indigeni protetti e in teoria tutelati dalla FUNAI.

386 S. Salgado, op. cit., 3

387 S. Salgado, Hong Kong, 1995, op. cit., 65 388 S. Salgado, op. cit., 5

389 S. Salgado, Isola di Galang, Indonesia, 1995, op. cit., 71 390 S. Salgado, Stato di Roraima, Brasile, 1998, op. cit., 252-253 391 S. Salgado, op. cit., 18

Alla fine degli anni ’80, lamenta Salgado, il numero dei minatori nella regione era salito a 50000392, con pesanti conseguenze sul corso e

sull’inquinamento delle acque, sulla vegetazione e sulle vite delle comunità ivi residenti.

I modi di vita tradizionali, mostra Salgado, mutano anche per gli indios delle Ande ecuadoriane: l’immagine qui presa in considerazione ritrae un paesaggio montano diviso a metà diagonalmente da una lunga fila di donne in cammino verso la città di Quito per vendere i prodotti dei loro villaggi393. Sono costrette a recarsi in città da sole perché gli uomini si sono stabiliti nei centri urbani, in particolare Quito e Guayaquil, cresciuta di 200000 unità tra il 1997 e il 1998394. Questo scatto vuole ricordare che, mentre le bidonville delle città si espandono, gli indigeni devono trovare modalità di sussistenza alternative, spesso abbandonando tradizioni e adattandosi allo stile di vita urbano.

Le ultime fotografie qui analizzate sono, appunto, istantanee di tale stile di vita in alcune megalopoli del mondo: la facciata di un palazzo di Ho Chi Minh, in cui gli abitanti, ed contadini, siedono sui davanzali come facevano in campagna, nonostante l’altezza dei loro appartamenti395; la moschea di

Istiqlal, a Giakarta, gremita di una distesa di uomini in preghiera396; la

bidonville di Mahim a Bombay, in cui un acquedotto che fornisce d’acqua i quartieri benestanti passa tra baracca e baracca397.

Dopo aver mostrato la migrazione dell’epoca globalizzata in tutti i suoi aspetti, Salgado si concentra su ciò che accade alla Terra a causa di essa: dall’abbandono delle aree rurali, ai mutamenti negli stili di vita tradizionali, al sovraffollamento e alla crescita abnorme dei grandi centri urbani di tutto il globo; l’umanità è “in cammino” verso una nuova modernità, che cambia i modi in cui l’essere umano si relaziona con il territorio.