• Non ci sono risultati.

La discussione di questi due generi fotografici rientra nel dibattito sulla politica della fotografia. L'altra principale ragione per la quale si dedica loro uno spazio di discussione è il fatto che Salgado sia stato più volte definito un fotogiornalista – tra l'altro, lo stesso fotografo dissente da questa definizione attribuitagli163.

Questo paragrafo esplora la definizione di fotogiornalismo e le implicazioni di utilizzare la fotografia come testimonianza - sedicente oggettiva - di fatti ed eventi. Innanzitutto, deve essere specificato che il termine non è sinonimo di fotografia documentale, anche spesso viene considerato tale e i due generi presentano caratteristiche comuni. Il secondo è una categoria estremamente ampia e, secondo Radich164, in un certo senso

la maggioranza delle fotografie esistenti rientra in essa: può essere definita come la fotografia che mira alla ricerca sociale. Nelle prime decadi del ventesimo secolo, questo genere era associato alla politica liberale (in particolare come strumento di documentazione delle condizioni delle classi sociali meno abbienti, per promuoverne il riscatto tramite l'azione dello Stato) e le immagini ad esso appartenenti facevano spesso parte di un corpus più ampio e quindi non destinato alla pubblicazione immediata. Un esempio può essere riscontrato nel lavoro di Lewis Hine, che portò alla luce le condizioni della classe operaia statunitense, concentrandosi in particolare sul lavoro minorile, Dorothea Lange, divenuta celebre per la sua Madre Migrante ma autrice di un enorme corpus di fotografia sociale negli Stati Uniti, o Walker Evans, conosciuto (insieme alla Lange) come il fotografo della Grande Depressione.

Il fotogiornalismo, invece, non ha nulla a che vedere con reportage di

163 Si è ripetuto il dissenso di Salgado dalla definizione della sia figura come “artista”, “antropologo” o qualsivoglia attributo che non si limiti a quello di “fotografo”: operando a cavallo tra diversi generi, Salgado rifugge categorizzazioni precise affermando che la fotografia sia per lui niente meno e niente più che la propria vita.

ampio respiro mirati a raccontare i vari aspetti di una situazione; il suo scopo primario è catturare un evento, di solito di cronaca, nel momento esatto in cui accade, affinché la fotografia sia pubblicata sulla stampa prima possibile, e prima delle altre. Erich Salomon, presentato dalla critica Gisèle Freund come il primo fotogiornalista della storia, parlando del proprio lavoro affermò: “L'attività di un fotografo di giornali (…) è una lotta

continua per l'immagine. Come il cacciatore è ossessionato dalla passione di cacciare, così il fotografo è ossessionato dalla fotografia unica che vuole ottenere. È una battaglia continua” 165. Le scadenze diventano il nemico:

questo implica, in primo luogo, che una diversa quantità di tempo venga dedicata alla creazione del prodotto finale. In secondo luogo, a differenza degli operatori della fotografia documentale, i fotogiornalisti non hanno tempo di dare spazio al contesto dei loro scatti; il singolo fotogramma viene così scollegato da una storia più complessa, che rende più difficile far giungere al pubblico un'informazione visiva completa166. I due termini, fotografia documentale e fotogiornalismo, indicano due approcci diversi alla realtà sociale. Secondo il fotografo Antonin Kratochvil, che riprende

l'urgenza di Salomon, lo scopo principale dei fotogiornalisti è il sensazionalismo.

As a fellow photographer, I respect what they do under the difficult conditions in which they must produce. But the product they create comes from the need for speed, and this necessity simplifies (and sensationalizes) the images most people see.167

Il problema del fotogiornalismo, dunque, è di ordine strutturale (ovvero, dal tipo di metodologie necessariamente adottate da chi vi opera) e dipende dal sistema informativo adottato dalla nostra società. Nel giornalismo e la stampa, il fattore velocità è sempre stato fondamentale; oggi, tuttavia, la tecnologia dell'informazione ha accelerato ulteriormente i ritmi e abbreviato la vita delle immagini di cronaca, che diventano un prodotto voracemente

165 G. Freund, op. cit., 102

166 Già per sua natura, la fotografia è incompleta perché mostra un solo momento, uno spaccato parziale della realtà e non un flusso lineare di informazioni. Se nella fotografia documentale si ha un corpus di immagini che mira a supplire, in parte, a questa

incompletezza, l'inevitabile decontestualizzazione propria del fotogiornalismo aggiunge invece lacune alla lacuna già esistente.

167 A. Kratochvil, Photojournalism and Documentary Photography,

consumato e gettato nel giro di pochi secondi. Alla luce di questa distinzione (che tuttavia alcuni critici tendono a non tenere in considerazione, trattando i due termini come sinonimi), si può affermare che la fotografia di Salgado non possa in alcun modo rientrare nel genere fotogiornalismo

contemporaneo. Certo, vi sono stati tempi in cui, presso Gamma e Magnum, il fotografo era tenuto a rispettare modalità di lavoro e scadenze imposte, ma se Amazonas Images è stata fondata, lo si deve anche ad un'istanza di

Salgado di cambiare ritmo e regole. Tutte le sue raccolte, da Altre Americhe a Genesi, sono parte di una visione più ampia, al punto che si potrebbe dire che i singoli scatti stiano ad una raccolta di foto documentale come ognuno dei libri di Salgado sta alla sua opera omnia, che forma un unicum coerente e guidato dalle stesse preoccupazioni e urgenze.

Come ogni genere di fotografia, anche le due categorie di cui sopra si trovano ad affrontare il problema dell'oggettività, reso più acuto dal fatto che entrambe, almeno in linea di principio, raccontano fatti oggettivi per definizione. Come si è dimostrato, la fotografia non può mai essere lo specchio della Verità, tantomeno nel caso del fotogiornalismo, in cui il contesto dell'intera situazione viene sacrificato per concentrarsi invece sull'“attimo fuggente”. La Verità non è accessibile attraverso l'immagine fotografica per due motivi: primo, perché, come è stato detto più volte, essa non funziona tramite universali oggettivi e incontestabili. Questo lascia ogni fotografia aperta a diverse interpretazioni, il che non è un vantaggio per coloro che cercano informazioni oggettive – ed è, invece, un gran vantaggio per coloro il cui scopo è utilizzare l'immagine per i propri interessi e fini. Secondo, suggerisce Susan Sontag, perché i fotografi stessi operano una scelta che non può essere che arbitraria, dato che è ovviamente impossibile riportare la realtà nella sua totalità: si ricorderà che il lavoro del cacciatore d'immagini viene paragonato a quello di un collezionista che mostra solo campioni e parti incomplete di una realtà complessa. Si potrebbe obiettare che nemmeno la stampa scritta racconta la realtà in modo totale, ma ne mostra solo una prospettiva. È vero, ma la differenza con la fotografia è che nel caso della stampa il difetto informativo non è necessariamente

strutturale, ma dipende da posizioni politiche ed ideologiche. Per i

ma anche e soprattutto di fattibilità. Un giornalista può decidere di non raccontare una parte di realtà, ma ha la possibilità (almeno teorica) ed i mezzi per farlo; un fotogiornalista, invece, non può che mostrare l'unica cosa che possiede, cioè un singolo fotogramma (o un paio, se è stato abbastanza fortunato) in cui deve far entrare tutto il carico informativo. Inoltre, l'intervento della soggettività e fattori politici/ideologici rendono il lavoro del fotogiornalista ancora più complicato. Soggettività, perché la persona che scatta – come in ogni altro tipo di fotografia – appartiene ad una determinata cultura ed è quindi parte di un discorso, di una narrazione che crea un bias inevitabile. Non può, nemmeno volendolo, essere oggettivo: sarà sempre vittima del proprio ambiente, educazione, storia personale. Fattori politici ed ideologici, perché nessuna informazione - né quella visiva contenuta in uno scatto fotografico, né tantomeno quella verbale utilizzata dalla stampa - è ingenua o neutrale, ma è una potenziale arma nella lotta per il potere di definire la realtà. La realtà scelta da questo potere, come si è visto nel capitolo 1, è il discorso dominante, che si impone su tutte le altre versioni di realtà che vengono silenziate o tacciate di falsità. Fintanto che esisteranno interessi per la strumentalizzazione dell'informazione, il mezzo visivo fotografico sarà in qualche misura reso funzionale a chi è in grado di appropriarsene per i propri scopi. Così, anche la fotografia scattata con le migliori intenzioni può rischiare di traviare l'osservatore se viene accostata ad un testo appartenente al discorso dominante168.

Gisèle Freund fornisce un esempio scrivendo di un episodio accadutole al tempo in cui lavorava come fotografa negli anni '50: la stessa foto da lei scattata fu usata da due testate diverse per dare due notizie opposte! Freund sottolinea che quando si verificano tali eventi, non si tratta certo di errori, ma di decisioni ben consapevoli di una stampa che manipola l'informazione visiva per diffondere un messaggio conveniente ai poteri politici ed alle istituzioni che la controllano169. La tesi di Sontag170 per spiegare questo fenomeno è che la cultura della società capitalista sia basata su immagini per soddisfare i suoi bisogni di raccogliere informazioni, intrattenere il

168 Un esempio di come le immagini possano essere manipolate a livello ideologico sarà fornito nel capitolo 3, in occasione dell'analisi di Altre Americhe.

169 G. Freund, op. cit., 145 170 S. Sontag., op. cit., 154

pubblico (o anestetizzarlo), mantenere l'ordine sociale. In questo contesto, le fotografie funzionano in due modi: come spettacolo, per le masse, e come mezzo di controllo, per i governanti. Sono asservite all'ideologia dominante. Sontag scrive, inoltre, sul ruolo del fotografo in questo contesto sociale: secondo lei, nel fotogiornalismo e nella fotografia sociale “fotografare è essenzialmente un atto di non intervento”171, in quanto il fotografo si

estrania dall'agire scegliendo di rappresentare la scena invece che di

parteciparvi. Questo argomento rivela una contraddizione: il paradosso della documentazione è che, se un fotografo desidera ottenere buone foto, sarà impossibilitato ad intervenire nell'evento che sta ritraendo. Ma cosa accede se diamo alla parola “intervento” un significato più ampio? In altre parole, se riportare qualcosa e far sì che il pubblico sappia può ben essere

considerata una posizione attiva, allora il fotografo interviene, pur senza intervenire, per risvegliare quel pubblico addormentato/anestetizzato. Questo tipo di “intervento a distanza” ha dimostrato la sua efficacia a livello politico in più di un'occasione. Due celebri esempi del passato sono l'attività del sociologo Lewis Hine, il la cui opera documentale dell'inizio del

Novecento fu un fattore fondamentale nel mobilitare l'opinione pubblica in favore di una riforma sui diritti dei lavoratori minori, e la testimonianza fornita da Helmut Herzfeld (divenuto famoso con lo pseudonimo di John Heartfield), che fotografò le condizioni della classe operaia negli Stati Uniti facendo della fotografia “un'arma temibile della lotta di classe”172.

Un altro esempio di “intervento indiretto” da parte del fotogiornalista è fornito dall'analisi del lavoro di Salgado da parte del critico fotografico statunitense Fred Ritchin (che da decenni collabora con il fotografo

brasiliano e si interessa al suo lavoro). Per Salgado, afferma Ritchin, non è sufficiente assolvere i compiti minimi assegnati dal fotogiornalismo, ovvero “to show what's going on”173: le sue colleborazioni con enti umanitari e

ONG quali Medici senza Frontiere dimostra, secondo Ritchin174, un senso di responsabilità del fotografo che supera il mero scattare e mostrare al mondo.

171 Ivi, 11

172 G. Freund, op. cit., 165

173 F. Ritchin in Sebastião Salgado: The Photographer as Activist, UCTV, 06/11/2008 174 Ibidem

Del resto, nota Ritchin175, sia nella fotografia documentale che nel

fotogiornalismo contemporaneo si può assistere ad una progressiva tendenza nel lavorare con ONG che possano effettivamente intervenire sui problemi documentati dai fotografi. Questa tendenza, esulando dal dibattito

sull'efficacia o possibile parzialità politica delle ONG, risulta

particolarmente interessante se inserita nel contesto contemporaneo della globalizzazione, con tutte le sue criticità per un ruolo politico e sociale della fotografia.

Ad oggi, la fotografia come strumento di azione politica, e ancor di più di mobilitazione sociale, si trova di fronte a molte più difficoltà rispetto ai tempi di Lange e Hine: la già discussa struttura del sistema informativo nel neoliberismo ed il tramonto della lotta di classe fanno sì che le possibilità della fotografia di “cambiare le cose” siano molto ridotte rispetto a solo qualche decennio fa. Basti pensare alla reazione del pubblico alla fotografia di un bambino siriano morto sulle spiagge di un'isola del mar Egeo: il grande scalpore iniziale è durato qualche giorno sui social network, per poi sfumare nel nulla senza lasciare tracce. Nell'era postmoderna caratterizzata da un ordine sociale globale di tipo neoliberale, l'effetto politico della fotografia è in crisi. Cosa è possibile fare per non perdere la pregnanza della fotografia in questo senso? Ancora una volta, la chiave è la consapevolezza, sia da parte del fotografo, sia da quella dell'osservatore. Consapevolezza del più ampio contesto che comprende, ma non è del tutto compreso, dalla fotografia; consapevolezza degli obiettivi per i quali la fotografia potrebbe potenzialmente essere utilizzata/strumentalizzata; consapevolezza degli interessi delle parti coinvolte nella sua produzione e pubblicazione. Questa è una presa di coscienza necessaria se si desidera che la fotografia conservi un ruolo politico valido e problematizzante.