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CAPENA. UNA BROCCA DI BRONZO CON DEDICA A NUMISIUS MARTIUS DALLA NECROPOLI DELLE SALIERE

Dalla tomba 180 della necropoli capenate delle Saliere136 proviene una delle tre sole attestazioni epigrafiche finora note del culto di Numisius Martius, una divinità altrimenti sconosciuta137.

L’iscrizione138 fu rinvenuta tra il 1909 e il 1912. Ne diede notizia per la prima volta, nel 1917, Paul Kretschmer, su segnalazione del Bormann, in poche righe di un articolo citato in bibliografia da Lommatzsch, nell’edizione di CIL I², nel 1918. Nello stesso anno il testo fu registrato nel catalogo del Museo di Villa Giulia di Della Seta, che non fornì nessuna indicazione bibliografica. In seguito comparve in varie raccolte epigrafiche, ultima delle quali, l’aggiornamento del CIL curato da Degrassi e Krummrey nel 1986139. Il testo è il seguente:

Mar(aeus) Popi(dius) St(ati) f(ilius) N(umisio) Mart(io) d(onum) d(at) me(rito).

Il praenomen del dedicante è stato in genere sciolto Mar(cus)140, nome, che, però, tranne rare eccezioni, è sempre abbreviato M.141

Mar. è l’abbreviazione usata più di frequente per Mar(aeus)142, che è una delle forme in cui il praenomen osco maras compare nelle fonti letterarie ed epigrafiche latine e greche, insieme alle varianti Marius, Marus, Mares.

136

Il Colle Le Saliere si trova a circa m. 300 ad ovest del colle della Civitucola, sede dell’antica Capena. La necropoli fu indagata dallo Stefani nel corso di quattro campagne di scavo tra il 1909 e il 1912 e i risultati furono pubblicati nel 1958 (Stefani 1958). La parte centrale del colle era occupata quasi esclusivamente da tombe a fossa, mentre sul versante meridionale, soprattutto nella parte occidentale, erano le tombe a camera, tra cui anche la tomba 180 (Tav. VII, fig. 1). Le tombe a camera erano state quasi tutte precedentemente depredate.

137

Le altre due attestazioni del culto di Numisius Martius sono costituite da una dedica incisa su una base rotonda di calcare rinvenuta nell’alveo del Tevere, e ora a Roma, al Museo Nazionale (CIL VI, 30986= =ILS 3148=ILLRP 247=CIL I², 32: [---]onius Q(uinti) f(ilius) / Numisio Martio / donom dedit / meretod. L’iscrizione è datata dal Degrassi al III sec. a.C.), e da una basetta

conservata al Museo Archeologico di Firenze, ma di provenienza urbana (CIL VI, 476= ILS 3147=ILLRP 248=CIL I², 33: [Nu]misio Mar[tio] / M(arcus) Trebonio(s) C(ai) l(ibertus) / donum dat liben[s] / meritod).

138

CIL I², 2435 (p. 713, 718, 831, 1067)=ILLRP 249; Kretschmer 1917, 139; Della Seta 1918, 335; Stefani 1958, 177; Warmington 1959, 70-71 n. 34; Briquel 1972, 826.

139

CIL I², 2435, p. 1067 (Tav. VII, fig. 2).

140

Della Seta 1918, 335; Stefani 1958, 177; ILLRP 249; Briquel 1972, 826; CIL I², 2435, p. 1067. Warmington 1959, 70-71 n. 34 riporta Mar(ius) (?).

141

Maraeus è la forma attestata più spesso nelle iscrizioni143. Marius compare soprattutto nelle fonti letterarie, e in una sola iscrizione greca, dove è scritto per intero144, come pure compaiono, in genere, per intero, nelle iscrizioni, Marus e il più raro Mares145.

La lettura Mar(aeus) si adatta bene al resto della formula onomastica, dato che anche il patronimico, Statius, è un praenomen di origine osca, molto diffuso146.

Tutti coloro che hanno preso in considerazione il testo, hanno restituito il gentilizio del dedicante con la rara forma Popi(us), nota solo da un’iscrizione di Teate Marrucinorum147. Sono, tuttavia, plausibili anche altre soluzioni, come Popi(dius), forma latinizzata di un nomen di origine osca148, particolarmente attestato a Pompei149, ma anche a Capua150 e ad Aquino151; oppure Popi(llius), che è nome romano di una importante famiglia di origine plebea, che in età repubblicana entrò in competizione con le principali gentes della nobilitas152.

Si è preferita la lettura Popi(dius) perché è sembrato che un gentilizio di origine osca potesse accordarsi meglio con i due praenomina. Questa impressione pare trovare sostegno negli indici onomastici del CIL, i quali registrano Popillius un po’ ovunque, e sempre con i prenomi latini più comunemente diffusi, tranne in un caso, da Fabrateria Nova153, dove compare uno St(atius) Popillius Theon.

142

Il nome è abbreviato anche Mr., forma che compare spesso in iscrizioni osche. Molto più raramente, e con qualche dubbio, Ma. Cfr. esempi in Salomies 1987, 77-78.

143

Salomies 1987, 77-78.

144

IG XIV 637 (Petelia): Μάριος Κρίττιος Μινάτου. In CIL IX 1015=I² 1716: C(aius) Pontius Mari f(ilius), dall’ager Compsinus, il patronimico è Marius o Marus.

145

Sul nome e sulla diffusione delle varie forme in cui questo è attestato cfr. Salomies 1987, 76-78, che è il primo a proporre la lettura Mar(aeus) per questa iscrizione di Capena.

146

F. Münzer, RE III A2, 1929, 2214; Briquel 1972, 825-826; Salomies 1987, 90-91.

147

Eph. Epigr. 8, 28, n. 124: [S]ex. Popius Hel[---]. Popius: Schulze 1966, 213.

148

Il gentilizio compare in varie iscrizioni osche, citate qui di seguito con le abbreviazioni usate dal Rix (Rix 2002, 144). Pupdiis: dalla Campania (luogo di provenienza incerto): Cm 34; da Pratola Peligna: Pg 1 (popdis). Púpidiis: da Pompei: Po 5, Po 6; Po 12, Po 39; Da Crimisa (Lucania): Lu 44. Púpied(ieís): da Pompei: Po 91. Púpiedis: da Pompei: Po 64. Cfr., inoltre, alcune tegole da Pompei: tPo 7: ni. púpie; tPo 9: ni. púpie m; tPo 8 ni. pupie.

149

Popidius: F. Münzer, RE XXII 1, 1953, 50; Schulze 1966, 213..

150

CIL X, 4300.

151

CIL X, 5512, 5418.

152

Popillius: K. Ziegler, RE XXII 1, 1953, 50.

153

Popidius, invece, che compare, in iscrizioni latine, praticamente solo in CIL X154, si accompagna più spesso a prenomi di origine osca, o comunque molto diffusi in territorio osco155. Noteremo, inoltre, che un m(a)r(a(his)s). pú[p]idiis è menzionato in un’iscrizione osca da Pompei156.

L’iscrizione presa in esame nel presente lavoro è incisa su un supporto di bronzo, che risulta praticamente inedito. Di questo non si conoscono riproduzioni grafiche, né fotografiche, inoltre si riscontrano delle discordanze nell’indicazione della sua forma da parte di chi si è occupato del testo epigrafico.

La descrizione più precisa è fornita dallo Stefani, il quale parla di ”olpe di lamina di rame, con corpo a doppio tronco di cono, orlo aperto ed ansa fusa, staccata, terminata superiormente, ai lati, con due teste di cigno e inferiormente con una protome muliebre tra due delfini…”157. Il pezzo è stato, però, indicato anche come boccale158, situla159, urna160. La definizione di olpe torna nel più recente aggiornamento del CIL, dove compare un calco dell’iscrizione, di cui il Degrassi non indica chi lo abbia eseguito, e in una nota di M. R. Torelli161.

Per una migliore comprensione del testo epigrafico, e per un suo corretto inquadramento cronologico, si è ritenuto indispensabile prendere visione del reperto, attualmente conservato nei magazzini del Museo di Lucus Feroniae, e non più al Museo di Villa Giulia, come era noto dalla principale bibliografia relativa all’iscrizione162.

154

Un solo esempio da Roma, CIL VI, 34292: M(arcus) Popidius Charito(n).

155

CIL X, 794=IILRP 640=I², 1627: V(ibius) Popidius Ep(i) f(ilius) (da Pompei. Sui nomi di origine osca Vibius e Ep(p)ius: Salomies 1987, 96, 70). Popidius compare, inoltre, più volte, col prenome N(umerius) (CIL X, 846, 847, 848, 890, 921, 922, 8058 da Pompei; 5512 da Aquino), della cui origine non si può dire nulla di certo, tuttavia è molto diffuso in territorio osco, mentre non è particolarmente in uso a Roma. Su Numerius: Salomies 1987, 39-40.

156

Po 12. Il testo è inciso su una lastra di travertino spezzata in due, conservata al Museo di Napoli. Pubblicata priva di datazione.

157

Stefani 1958, 177.

158

Della Seta 1918, 335.

159

Kretschmer 1917, 139 (Bronzeeimers); CIL I², 2435, p. 713, 718; ILLRP 249; Briquel 1972, 826; Lejeune 1972, 410. 160 Warmington 1959, 70-71 n. 34. 161 Torelli 1990, 92, n. 55. 162

Indicano come luogo di conservazione il Museo di Villa Giulia: Della Seta 1918, 335, n. inv. 23549; CIL I², 2435, p. 718; ILLRP 249; CIL I², 2435, p. 1067. Già M. R. Torelli, nella nota del suo studio sui culti di Rossano di Vaglio, precedentemente ricordata, specifica che il pezzo di Capena si trova a Lucus Feroniae, anche se questo viene indicato come proveniente dalla tomba 215 della necropoli (Torelli 1990, 92, n. 55). (Tav. VIII, figg. 1-2).

Si tratta di una brocca di bronzo (Ø orlo = cm 12; h = cm 18,5) in lamina martellata e rifinita al tornio, ad imboccatura tonda, labbro svasato, iscritto, munito di un breve orlo obliquo. Il labbro è distinto con una strozzatura, sotto la quale sono due sottili solcature. La brocca presenta un corpo ovoide tendente al biconico, con carenatura non molto accentuata, impostata nella metà inferiore del ventre; fondo leggermente convesso; ansa a bastoncello realizzata a fusione, che si incurva sui 2/3 superiori della propria altezza, per poi assumere un andamento verticale. L’attacco superiore dell’ansa è modellato alle estremità in forma di teste di anatra, al centro è un poggiapollice a rocchetto. Il fusto presenta tracce di una decorazione a spina di pesce, non molto ben leggibile; l’attacco inferiore, impostato sul diametro massimo del ventre, presenta una protome gorgonica tra due elementi, interpretabili probabilmente come delfini, ed è sormontato da tre costolature orizzontali definite da solcature.

Nonostante la resa piuttosto grossolana dell’applique inferiore, sembra possibile notare che il gorgoneion è leggermente piegato a destra di chi guarda, secondo uno schema di matrice ellenistica, ricorrente in questa tipologia di brocche163. Al di sotto del volto potremmo forse riconoscere una schematizzazione dei serpenti in genere annodati sotto al collo della Gorgone164.

I confronti165 si trovano per la maggior parte in Etruria166, dove si deve riconoscere il luogo d’origine di questi recipienti, qui di gran lunga più numerosi

163

Cfr., ad esempio, un esemplare dalla tomba di Montefiascone: Guzzo 1970, 168; da Tarquinia: Bini-Caramella-Buccioli 1995, 51, n. 90, tav. XXXIV 2 (inizi del II sec. a.C.); p. 52, n. 91, tav. XXXIV 3 (II sec. a.C.); p. 52, n. 92, tav. XXIV, 4.

164

Come ipotizzato per l’esemplare di Montefiascone: cfr. Guzzo 1970, 169, con altri esempi.

165

Una prima lista di diffusione di questo tipo di brocche è stata recentemente redatta da M. Castoldi, solo sulla base del materiale edito e di quanto è esposto nei musei: Castoldi 2000, 414-415, IIa.

166

I confronti provenienti dai contesti più utili ai fini della datazione sono: Tuscania, tomba II dei Curunas (Moretti 1983, 105, n. 33; 106, n. 34. Il sepolcro appare in uso dagli ultimi decenni del IV a tutto il II sec. a.C., con sporadiche manifestazioni di I); Volterra, necropoli della Badia, tomba 61/4, utilizzata tra il secondo quarto del III e la metà del II sec. a.C. (Fiumi 1972, 94, fig. 50, a destra. Per la data d’inizio della frequentazione della tomba, si accetta la proposta di Michelucci 1977, 99, avanzata in base all’elenco dei materiali di corredo. Secondo Fiumi la tomba risalirebbe al 330/320 a.C.); Tuscania, tomba in Loc. S. Lazzaro, con oggetti di corredo databili nel corso del III sec. a.C. (Cristofani 1985 a, 15, 17, fig. 28, n. 8); Gioiella, tomba 7, camera principale, deposizione inquadrabile tra la seconda metà del III-prima metà del II sec. a.C. (Bonomi Ponzi 1977, 107, 195, fig. 61); Chiusi, tomba della Barcaccia, dal loculo D, fine III-seconda metà II a.C. (Levi 1932, 11-12; fig. 2 n. 3; Michelucci 1977, p. 99; Cristofani 1975, 27-28. Dal loculo D proviene un’urna di terracotta colorata, datata dal Michelucci attorno al 170-160 a.C. Cristofani propone, invece, per questa deposizione una datazione alla seconda metà del II sec. a.C.); Goiella, tomba 1, nicchia I, urna II: prima metà del II sec. a.C.( Bonomi Ponzi 1977, 104). Si vedano,

che altrove, anche se resta problematica l’identificazione del centro o dei centri di produzione. Altri esemplari sono in area adriatica167, in Campania168, nell’Italia settentrionale169 e in Sicilia170.

In attesa di una completa e aggiornata pubblicazione della necropoli delle Saliere, attualmente in corso di studio, i dati relativi al contesto di rinvenimento si limitano all’elenco dei materiali della tomba, redatto dallo Stefani nel 1958171, dal quale difficilmente si ricavano valide indicazioni cronologiche.

inoltre, gli esemplari da Tarquinia, provenienti da vecchi scavi: Bini-Caramella-Buccioli 1995, 36-39, n. 56-64, con datazione, in base ai confronti, alla fine del IV-III sec. a.C. (n. 56-58) e tra il III e gli inizi I sec. a.C. (59-64). Cfr., in particolare, l’attacco inferiore dell’ansa dell’esemplare n. 60, tav. XXV b (III-II sec. a.C.), con due pesci, forse delfini, uniti per la pancia: sembrerebbe trattarsi dello stesso motivo che ricorre ai lati del gorgoneion del nostro esemplare. Da Tarquinia, inoltre, confronti meno puntuali con il pezzo di Capena, ma riconducibili, più in generale al tipo di brocca, sono costituiti da altri sei esemplari (Bini-Caramella-Buccioli 1995, 39-44) e da 13 anse isolate (Bini-Caramella-Buccioli 1995, n. 90-92, 96-100, 106, 114-116, 118, 124-125). Particolarmente significativo il confronto della placchetta inferiore dell’ansa della brocca di Capena con quella, di più accurata esecuzione, di uno dei due esemplari rinvenuti in una tomba di Montefiascone, che presenta lo stesso motivo a testa di Gorgone fiancheggiata da due delfini (Guzzo 1970, 176). Altri confronti da area Etrusca vengono da Cerveteri (Bolla 1994, 23, tav. VIII, Cat. 14); da Viterbo (dalla collezione Rossi-Danielli, due esemplari elencati tra il materiale di provenienza varia o incerta, pubblicati privi di confronti e datazione: Emiliozzi 1974, 254, n. 574, tav. CLXXXV; n. 576, tav. CLXXXVI, che manca del manico). Per la lista di diffusione del tipo, si rimanda a Castoldi 2000, 414-415, tipo II a.

167

Dal sepolcreto di Montefortino di Arcevia: tomba 47, un esemplare (Landolfi 1978, 174, n. 460) con attacco inferiore d’ansa con testa umana (probabile gorgoneion), tra due elementi, interpretati come floreali dal Landolfi, ma forse corrispondenti al motivo a delfini presente sulla brocca di Capena; tomba 32: Brizio 1899, tav. VIII n. 7. Le tombe 47 e 32 appartengono alla fase più recente della necropoli (275-225 a.C.): cfr. De Marinis 1998, 146; Castoldi 2000, 411. Altri confronti, non provenienti, però, da contesti chiusi, da Fermignano (un’ansa analoga a quella di Montefiascone: Galli 1938, 11, n. 4, fig. 2; Castoldi 2000, 415, n. 23); da Vasto (Castoldi 2000, 415, n. 24).

168

Un’ansa proveniente da vecchi scavi di Capua, con placchetta inferiore configurata in forma di testa umana (gorgoneion): Grassi 2000, 67-69, n. 3, tav. XXV.

169

Un esemplare dello stesso tipo della brocca di Capena, ma a profilo più convesso, proviene dalla tomba 23 di Este, databile con sicurezza, sulla base del corredo, ai primi decenni del III sec. a.C. (Chieco Bianchi 1987, 204, n. 52). Altri confronti da Cozzo Lomellina (PV) e dalla Val di Cembra, nel Trentino orientale (Castoldi 2000, 415, IIa 27-28; Castoldi 2001, 75-78).

170

Ansa da una tomba a incinerazione da Monte Riparato, Necropoli di S. Venere, sepolcreto in uso tra III e II sec. a.C. (Pancucci 1993).

171

Stefani 1958, 177-178. La tomba 180 è a tre celle, due ai lati dell’ingresso, l’altra di fronte ad esso. A differenza di quasi tutte le altre tombe a camera esplorate dallo Stefani nella necropoli delle Saliere, questa non mostrava tracce di precedenti spoliazioni, ma a causa dello stato di rovina della volta, e per il pericolo di altre frane, si poté esplorare solo la cella centrale e quella a destra dell’ingresso. Ogni cella aveva sei loculi, due per ciascun lato, su doppia fila. Il sepolcro era preceduto da un dromos lungo m 3,30, divergente verso la porta, che si trovò chiusa da due blocchi accuratamente squadrati. Un riferimento cronologico per il contesto di rinvenimento è fornito dall’iscrizione dipinta su un’anfora vinaria rinvenuta sul pavimento della cella di fondo: CIL I², 2929, col nome del console del 160 a.C. Solo lo studio complessivo del materiale della tomba, tuttavia, potrà fornire un quadro cronologico completo.

La brocca era “sul pavimento della tomba, dinanzi all’ingresso”, insieme ad altri oggetti, tra cui un’altra brocca dello stesso tipo, ma probabilmente di forma più arrotondata. Lo Stefani la definisce “ovoidale”, e con attacco inferiore d’ansa a “foglia d’edera risolventesi in fiore di loto al vertice”, variante del motivo a foglia cuoriforme, che è l’altro modo in cui viene configurata la placchetta inferiore delle brocche di questo tipo.

Per un inquadramento cronologico del pezzo in esame, possiamo servirci dell’aiuto dei confronti con altri esemplari provenienti da contesti meglio datati.

Esso rientra nella tipologia della brocca ovoide-carenata, indicata, fino a una decina di anni fa, col nome di Boesterd 273, dall’esemplare conservato al museo di Nijmegen, che era stato datato al II sec. a.C.172 Questo tipo di brocca è stato oggetto di studio, negli ultimi anni, da parte di M. Castoldi, che ne ha esaminato l’area di diffusione e l’influenza sul vasellame bronzeo di età tardo-repubblicana173.

La sua presenza in contesti funerari dei primi decenni del III sec. a.C., quali la tomba 23 di Este e le tombe 47 e 32, della fase più recente della necropoli di Montefortino di Arcevia174, databile all’incirca tra il 275 e il 225 a.C., indica che esso era già in produzione all’inizio del III sec. a.C., se non alla fine del secolo precedente.175 Il tipo continua a essere in circolazione fino al I sec. a.C.176

M. Castoldi ne ha individuato due varianti contemporanee, una a profilo più convesso, l’altra, cui appartiene anche l’esemplare di Capena, a profilo più decisamente biconico177.

In un momento collocabile probabilmente nell’ambito della prima metà del II sec. a.C., la brocca ovoide-carenata viene affiancata, e progressivamente 172 Boesterd 1956, 76, n. 273. 173 Castoldi 1991, 2000, 2001, 77-78. 174

Per i riferimenti a Este e a Montefortino di Arcevia, si rimanda a quanto indicato, rispettivamente, alle note 34 e 32. (Tav. IX, figg. 1-2).

175

Questa datazione sembrerebbe confermata anche dalla matrice ellenistica delle protomi raffigurate sulle placchette inferiori delle anse: Pfrommer 1983, 235-265; Castoldi 1991, 140; Castoldi 2000, 411.

176

Due esemplari compaiono, ad esempio, nella tomba di Montefiascone, del I sec. a.C. Poiché si tratta dei più preziosi oggetti della tomba, l’editore ipotizza per essi una certa lunghezza d’uso prima della destinazione funeraria: Guzzo 1970, 176.

177

Castoldi 1991, 140; Castoldi 2000, 409. Le due varianti sono presenti nelle due tombe di Montefortino (47 e 32), nella tomba di Montefiascone e, probabilmente, come accennato sopra, anche nella tomba di Capena: Stefani 1958, 177.

sostituita, da una a corpo bitroncoconico, con carenatura a spigolo vivo, nota come tipo Gallarate. Entrambi i tipi compaiono già nella tomba 61/4 della necropoli della Badia a Volterra, utilizzata tra il secondo quarto del III e la metà II del sec. a.C.178 Quest’ultimo termine cronologico costituisce la datazione più alta finora nota per il tipo di brocca bitroncoconica tardo-repubblicana, ampiamente testimoniata in contesti di metà II-I sec. a.C.

La brocca ovoide-carenata doveva essere adibita a contenere acqua: si trova spesso associata, in contesti funerari, alle padelle179 tipo Montefortino, in servizi da abluzione180.

La stessa funzione sarà svolta dalle brocche tipo Gallarate, associate di frequente alle padelle tardo-repubblicane di tipo Aylesford, che compaiono a partire dall’ultimo quarto del II sec. a.C.181

Il solo punto di riferimento sicuro per la datazione della padella tipo Montefortino è costituito dalla necropoli omonima, dove è presente in sette tombe della fase più recente. De Marinis, che da ultimo ha riesaminato il tipo, ha proposto una datazione tra il secondo quarto e la fine del III sec. a.C., notandone

178

Fiume 1972, 94, fig. 50; Michelucci 1977, 99; Castoldi 1991, 139; Castoldi 2001, 77. Per le brocche tardo-repubblicane tipo Gallarate, bitroncoconiche, a carena bassa, cfr. Boube 1991; Bolla 1994, 22-23.

179

Il termine convenzionale di padella, usato per indicare un recipiente piatto, con vasca circolare prolungata da un manico generalmente terminante con una parte ricurva, di solito a forma di testa d’uccelo stilizzata, è ormai correntemente accettato, cfr. Feugère-De Marinis 1991, 97.

180

Le brocche ovoidi-carenate e le padelle tipo Montefortino si trovano associate nelle tombe 32 e 47 della necropoli di Montefortino (Brizio 1899, tav. VIII, n. 7, 10; Landolfi 1978, 173-174; Landolfi 1991); nella tomba II dei Curunas a Tuscania (Moretti 1983, 107-108, n. 53-54. Non c’è una foto dei pezzi, ma l’editore propone un confronto con l’esemplare della tomba 23 di

Montefortino, che rientra in questa tipologia di padelle. Noteremo, tuttavia, che la tomba II dei Curunas, in uso tra la fine del IV e la fine del II sec. a.C., è a deposizioni multiple, sembra in totale 27, e gli oggetti di corredo non sono più distinguibili per singola deposizione); a Povegliano, loc. Madonna dell’Uva Secca (necropoli di IV e III sec. a.C.: De Marinis 1998, 173); a Cozzo Lomellina, in provincia di Pavia (De Marinis 1998, 144-145; Castoldi 2001, 75-76). Probabilmente erano in origine associate anche la brocca ovoide-carenata e la padella tipo Montefortino, confluite nelle Civiche Raccolte Archeologiche di Milano, che sono state acquistate contemporaneamente da E. Seletti a Roma nell’inverno del 1878, con indicazione di provenienza da Cerveteri (Bolla 1994, 18, cat. 1; 23, cat. 14). Sull’associazione e sulla funzione della coppia funzionale padella-brocca, cfr. Feugère-De Marinis 1991, 108; De Marinis 1998, 164-167; Castoldi 2000, 411.

181

Bolla 1991, 143-154; Feugère-De Marinis 1991, 98-100; Bolla 1994, 17, 22; De Marinis 1998, 138-141 con riferimenti bibliografici sulle padelle tipo Aylesford.

l’assenza nei corredi di necropoli che si esauriscono nei primi decenni del secolo182.

In base ai dati raccolti, possiamo, con una certa sicurezza, datare il pezzo di Capena nel corso del III sec. a.C., mentre il dato epigrafico sembra farci più precisamente orientare verso i decenni finali del secolo.

Secondo uno studio di S. Panciera183, che ha preso in esame tutte le iscrizioni sacre anteriori alla morte di Cesare, contenute in CIL I², l’espressione dell’offerta attraverso le formule donom o dono dedit o dono dat, entra nell’uso corrente nel corso del III sec. a.C., e in questo periodo si conosce qualche esempio abbreviato alle sole iniziali, come avviene anche nel nostro caso.

A partire dalla prima metà del III sec. a.C., a queste formule si affiancano le espressioni lubens / libens e meretod / mereto / merito / merite, che compaiono insieme, scritte per esteso. Nello stesso periodo, o poco dopo, la seconda è documentata anche da sola, mentre le due parole, insieme o da sole, possono comparire abbreviate alle sole iniziali, già sullo scorcio del III, e poi, correntemente, nel II sec. a.C.

Per lo scioglimento della formula di dedica dell’iscrizione di Capena si è accolta, nel presente lavoro, la proposta degli altri editori del testo184: d(onum) d(edit) me(rito), dato che nel III sec. e tra III e II sec. a.C., con dare si ha tanto donum quanto donom185, e lo stesso vale per meretod / mereto / merito / merite.

La brocca della necropoli delle Saliere costituisce l’unico caso in cui si conosca la provenienza di una dedica a Numisius Martius186. Il rinvenimento in un contesto funerario è stato attribuito a una valenza ctonia del culto187; potremmo tuttavia chiederci se fosse quella la destinazione originaria dell’oggetto votivo, e

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Le padelle bronzee sono assenti, ad esempio, dai corredi delle necropoli di Monte Bibele, Bologna, Genova-via XX settembre, Ameglia, Aleria, tutte necropoli che si esauriscono o si