• Non ci sono risultati.

FONTI CHE ATTESTANO LUOGHI DI CULTO

AREA SACRA (IL LUCUS FERONIAE) Fonti letterarie:

Cato 48 Peter.

Sed lucus Capenatis . . . «Ma il lucus capenate…»

Verg., Aen., 7, 695-697.

Hi Fescenninas acies Aequosque Faliscos, hi Soractis habent arces Flauiniaque arua et Cimini cum monte lacum lucosque Capenos.

«Ecco le schiere fescennine, gli Equi Falisci, e coloro che tengono le cime del Soratte, i campi Flavini, il lago e il monte Cimino e i boschi sacri di Capena».

Serv. A. 7, 695-697.

Lucosque capenos hos dicit Cato Veientum <iuvenes> condidisse auxilio regis Propertii, qui eos Capenam cum adolevissent, miserat.

«E i luci capeni dice Catone che li fondarono giovani di Veio con l’aiuto del re Properzio, che li aveva mandati a Capena quando erano cresciuti».

Liv. 1, 30, 4-5 (672-641 a.C.).

Hac fiducia virium Tullus Sabinis bellum indicit, genti ea tempestate secundum Etruscos opulentissimae viris armisque. Utrimque iniuriae factae ac res nequiquam erant repetitae. Tullus ad Feroniae fanum mercatu frequenti negotiatores Romanos comprehensos querebatur, Sabini suos prius in lucum confugisse ac Romae retentos. Hae causae belli ferebantur.

«Allora confidando nelle sue forze Tullus dichiarò guerra ai Sabini, popolo che a quel tempo era, dopo gli Etruschi, il più ricco in uomini e armi. Da entrambe le parti erano state recate offese, e inutilmente se ne era chiesto il risarcimento.

Tullus lamentava che presso il santuario di Feronia, nel corso di un affollato mercato, dei mercanti romani fossero stati catturati; i Sabini (lamentavano) che alcuni di loro, già rifugiatisi nel lucus, fossero stati trattenuti a Roma. Questi pretesti venivano addotti per la guerra».

D. H. 3, 32, 1-2 Μετƒ δ το◊τον τ∏ν πλεµον τεροϕ ′ν- στη Ρωµα οιϕ κ το ◊ Σαβ νων θνουϕ , ′ρχ δ α∧το◊ κα πρφασιϕ γ νετο τοι≤δε · ερν στι κοιν⊆ τιµµενον ¬π∏ Σαβ νων τε κα Λατ νων ⁄γιον ν το ϕ π≤νυ θε♥ϕ Φερωνε αϕ ∇νοµαζοµ νηϕ , ↵ν ο µεταφρ≤- ζοντεϕ ε ϕ τν Ελλ≤δα γλσσαν ο µ ν ∋Ανθοφρον , ο δ Φιλοστ φανον , ο δ Φερσεφνην καλο ◊σιν· ε ϕ δ τ∏ ερ∏ν το◊το συν∩εσαν κ τν περιο κων πλεων κατƒ τƒϕ ′ποδεδειγµ ναϕ ορτƒϕ πολλο µ ν ε∧χƒϕ ′ποδιδντεϕ κα θυσ αϕ τ⊆ θε , πολλο δ χρηµα - τιο∨µενοι διƒ τν παν≈γυριν µπορο τε κα χειρο - τ χναι κα γεωργο , ′γορα τε α∧τθι λαµπρταται τν ν ∞λλοιϕ τισ τποιϕ τℑϕ ∋Ιταλ αϕ ′γοµ νων γ - νοντο. ε ϕ τα∨την δ τν παν≈γυριν λθνταϕ ποτ Ρωµα ων ∞νδραϕ ο∧κ ′φανε ϕ Σαβ νο τινεϕ [∞νδρεσ] συναρπ≤σαντεϕ δησαν κα τƒ χρ≈µατα ′φε λοντο , πρε- σβε αϕ τε περ α∧τ ν ′φικοµ νηϕ ο∧δ ν βο∨λοντο τν δικα ων ποιε ν , ′λλƒ κα τƒ σµατα κα τƒ χρ≈µατα τν συλληφθ ντων κατε χον γκαλο ◊ντεϕ κα α∧το Ρωµα οιϕ , τι το⇑ϕ Σαβ νων φυγ≤δαϕ ¬πε- δ χοντο κατασκευ≤σαντεϕ ∞συλον ερν , ¬π ρ ν ν τ πρ∏ το∨του λγϑ δεδ≈λωτα µοι.

«Dopo questa guerra, un’altra fu provocata contro i Romani da parte dei Sabini; l’inizio e l’occasione furono questi: vi è un santuario venerato in comune dai

Sabini e dai Latini, sommamente sacro fra quelli della dea chiamata Feronia, nome che tradotto in greco taluni chiamano Anthophoros, altri Philostefanos, altri ancora Persefone. A questo santuario dunque convenivano dalle città circonvicine, in occasione delle feste che erano state annunciate, molti per offrire preghiere e sacrifici alla dea, molti invece erano commercianti venuti per fare affari durante la festività e così pure artigiani e contadini; lì si teneva infatti la fiera più splendida di quante si tenevano negli altri luoghi d’Italia. Accadde dunque che alcuni Sabini aggredirono, sequestrarono e spogliarono dei loro beni un gruppo di Romani, di condizione non oscura, che si erano recati a questa festività. E benché fosse stata inviata un’ambasceria al riguardo, i Sabini non avevano voluto rendere giustizia, ma trattenevano le persone ed i beni dei sequestrati mentre a loro volta accusavano i Romani per aver accolto i Sabini fuggitivi offrendo loro asilo sacro, su questi fatti ho dato conto nel libro precedente335».

Str. 5, 2, 9. ¬π∏ δ τ Σωρ≤κτϑ ρει Φερων α πλιϕ στ ν, ∠µ νυµοϕ πιχωρ ϖ τι ν δα µονι τιµωµ νς σφδρα ¬π∏ τ ν περιο κων, ℜϕ τ µενϕ στιν ν τ τπϑ θαυµαστν εροποι αν χον: γυµνο ϕ γƒρ ποσ διεξ ασιν ′νθ ρ ακιƒν κα σποδιƒν µεγ≤λην ο κατεχµενοι ¬π∏ τℑϕ δα µονοϕ τα∨ τηϕ ′ παθε ϕ, κα συν ρχεται πλℑθοϕ ′νθρ πων ⁄µα τℑϕ τε πανηγ∨ρεωϕ χ≤ριν, ↵ συντελε ται κατ∋ τοϕ, κα τℑϕ λεχθε σηϕ θ αϕ.

«Ai piedi del monte Soratte c’è una città chiamata Feronia, omonima di una divinità locale molto venerata dai popoli circostanti, il cui santuario è in quel luogo e vi si celebra una singolare cerimonia: infatti quelli che sono guidati da questa dea, a piedi nudi camminano su una grande superficie di carbone e cenere senza sentire dolore, e una moltitudine di uomini si raccoglie qui insieme sia per la festività che si celebra ogni anno, sia per il suddetto spettacolo».

Liv. 26, 11, 8 (211 a.C.)

335

His motus ad Tutiam fluvium castra rettulit sex milia passuum ab urbe. Inde ad lucum Feroniae pergit ire, templum ea tempestate inclutum divitiis. Capenates aliique <qui> accolae eius erant primitias frugum eo donaque alia pro copia portantes multo auro argentoque id exornatum habebant. Iis omnibus donis tum spoliatum templum; aeris acervi cum rudera milites religione inducti iacerent post profectionem Hannibalis magni inventi. Huius populatio templi haud dubia inter scriptores est.

«Per questi motivi condusse l’accampamento presso il fiume Tutia, a sei miglia da Roma. Di là proseguì fino al lucus Feroniae, tempio all’epoca famoso per le sue ricchezze. I Capenati e gli altri che abitavano nelle sue vicinanze, portando le primizie dei raccolti e altri doni secondo la propria possibilità, lo avevano ornato con molto oro e argento. Di tutti questi doni fu allora spogliato il tempio; grandi cumuli di bronzo furono trovati dopo la partenza di Annibale, poichè i soldati spinti da un timore religioso avevano gettato i rottami. Sul saccheggio di questo tempio non v’è dubbio tra gli storici».

Sil. It. 13, 82-92 (211 a.C.)

His fractus ductor convelli signa maniplis optato laetis abitu iubet. Itur in agros dives ubi ante omnes colitur Feronia luco et sacer umectat Flavinia rura Capenas. Fama est intactas longaevi ab origine fani crevisse, in medium congestis undique donis, immensum per tempus opes, lustrisque relictum innumeris aurum solo servante pavore.

Hac avidas mentes ac barbara corda rapina polluit atque armat contemptu pectora divum.

«Colpito da queste parole il condottiero dà ordine di levare le insegne alle liete schiere per la partenza desiderata. Si marcia nel territorio dove la ricca Feronia gode di un culto privilegiato nel lucus e il sacro Capenas bagna i campi Flavinii.

È fama che le ricchezze, intatte dall’origine del santuario, siano cresciute, accumulati doni da ogni parte, nel vasto corso dei secoli e lasciato lì l’oro per innumerevoli anni lo custodiva solo il timore divino. Questa rapina macchia gli avidi animi e i barbari cuori e arma i loro petti del disprezzo degli dei».

Liv. 27, 4, 14 (210 a.C.)

Multa ea aestate qua haec facta sunt ex propinquis urbibus agrisque nuntiata sunt prodigia: [...] in agro Capenate ad lucum Feroniae quattuor signa sanguine multo diem ac noctem sudasse. Haec prodigia hostiis maioribus procurata decreto pontificum; et supplicatio diem unum Romae ad omnia pulvinaria, alterum in Capenati agro ad Feroniae lucum indicta.

«Durante l’estate in cui questi avvenimenti ebbero luogo furono annunciati molti prodigi dalle città e dalle campagne vicine: […] nel territorio capenate, presso il lucus Feroniae, quattro statue avevano sudato abbondante sangue notte e giorno. Questi prodigi furono espiati con vittime adulte per decreto dei pontefici; e fu prescritta una supplica di un giorno a Roma presso ogni altare, di un secondo giorno in territorio capenate presso il lucus Feroniae».

Liv. 33, 26, 8 (197 a.C.)

[…] aedis Feroniae in Capenati de caelo tacta erat […]

«Il tempio di Feronia in territorio capente era stato colpito da un fulmine».

Fonti epigrafiche:

CIL I² 2867; ILLRP 93 a; Bloch 1952, 620-625; Bloch-Foti 1953, 65-71; AE 1953, n. 195; Foti 1953, 16; Degrassi 1965, n. 42 a-b; Briquel 1972, 825; Torelli 1973, 333-334, n. 482; Torelli 1973-74, 741-746; Sgubini Moretti 1975 a, 145, n. 141.

Basetta quadrata in pietra arenaria, iscritta su due lati contigui. Fu rinvenuta nel 1952 in località Bambocci, durante lo scavo della stipe nel settore settentrionale

del santuario di Lucus Feroniae (h. cm 2,8; largh. cm 6,2-6,5; h. lettere cm 0,5-1). Nella parte superiore della base restano i segni per il fissaggio di una statuetta bronzea, divelta in antico. Si accoglie la proposta di Torelli 1973-74, seguita anche da Sgubini Moretti 1975 a, di leggere prima una faccia della base e poi l’altra. I primi editori, invece (Bloch-Foti 1953, seguiti anche dal Degrassi in ILLRP 93 a), lessero il testo come se le due facce su cui è inciso costituissero un’unica pagina (Tav. XIII, fig. 2, I-II).

I

[.]esco S6al(via) Plaria T(iti) l(iberta) Fero(nea) don(o)

II

[.]uod A[---] dedet libe(n)s m(erente) mereto.

r. 1 (I-II) [t]esco [s]al // vod -] (Bloch-Foti: luco salvo); [.]esco [.]al // vod A[---] (ILLRP); (I) Pesco (Torelli); (II) [q]uod a[f luc(o)] oppure a[b luc(o)] (Torelli) r. 2 (I-II) Plaria T(iti) l(iberta) // dedet libes (Bloch-Foti); libe(n)s (ILLRP); (II) libes (Torelli 1973-1974). r. 3 (I-II) Fero(niae) don[o] // m mereto (Bloch-Foti); Fero(nea) dono // m mereto (ILLRP); (I) Fero(niae) don(o) (Torelli).

«Nel bosco sacro. Salvia Plaria liberta di Titus diede in dono a Feronia [---?] per grazia ricevuta» (?).

Non è facile risolvere i problemi esegetici legati a questo difficile testo. Sembra convincente, tuttavia, la proposta di Torelli di leggere le due facce separatamente. Come già notato dallo studioso, infatti, oltre alla difficoltà di concepire una lettura

continua, riga per riga, su due lati diversi, dalla congettura dei primi editori risulterebbe un formulario dedicatorio assolutamente singolare. È difficile spiegare, infatti, la sequenza dedet libes / Fero(niae) don[o]m mereto, con l’inusitata posizione del nome della divinità tra le due locuzioni donum dare e libens merito, le quali appaiono, per di più, “sconvolte e mescolate”336.

L’abrasione della pietra rende particolarmente problematica l’integrazione della prima riga di ciascuna delle due facce. Secondo i primi editori il testo iniziava con [t]esco, ablativo del raro termine sacrale tescum337. Torelli corregge questa lettura in pesco, sulla base del tratto verticale della prima lettera, non visto da Bloch e Foti. Questo è giudicato troppo lontano dalla lettera successiva per costituire una t-, e dovrebbe essere leggibile piuttosto come parte di una p-. Pesco non è parola latina. Torelli la indica come “sabina”, anche se forse sarebbe più appropriato riferirla genericamente ad ambito italico, considerando che il sabino, scomparso come lingua autonoma con la conquista romana, manca di una propria tradizione scritta338. Ad ogni modo il termine pesco non è altrimenti noto in territorio falisco-capenate, ed è attestato, invece, in un’iscrizione di Lucus Angitiae, in territorio marso339, col significato di sacrificium o piaculum, che manterrebbe anche nel testo di Lucus Feroniae. È stato collegato, inoltre, all’umbro persklom340.

Lo stato di conservazione della basetta non rende tanto scontata, tuttavia, la ricostruzione della prima lettera come p-341. Inoltre, il fatto che la parola pesco non sia attestata in latino, potrebbe mal conciliarsi col resto della dedica, che non pare risentire di influssi italici, ma, anzi, presenta un formulario di offerta

336 Torelli 1973-1974, 742-744. 337 Bloch-Foti 1953, 67-68. 338

Anche l’iscrizione di Poggio Sommavilla, di VII sec. a.C., dalla quale si ricavano i pochi dati linguistici diretti sulla Sabina, presenta elementi di matrice oscoumbra. In proposito cfr., ad esempio, Ancillotti-Cerri 1996, 29-30.

339

Vetter 1953, n. 225: eVsos / nouesede / pesco pacre (che, secondo l’editore corrisponde al latino Di Novensides. Sacrificium piaculare: Dei Novensides. Sacrificio propizio).

340

Torelli 1973-1974, 744. Per il valore di persklum nelle Tavole di Gubbio, inteso come “cerimonia sacra”, distinta dall’azione sacrificale vera e propria (esonom) cfr. Ancillotti-Cerri 1996, 394.

341

A giudicare dall’immagine fotografica parrebbe, con molta cautela, che il tratto verticale della prima lettera non sia corrispondente al tratto verticale della sottostante p-, come visto da Torelli 1973-1974, 742, ma ricada piuttosto al centro del tratto superiore, orizzontale, della stessa lettera della seconda riga. Se questo è vero, la prima lettera del testo potrebbe anche essere una t-, perché non ci sarebbe poi troppa distanza dalla seconda lettera della prima riga.

tipicamente latino, ben attestato nel corso del III sec. a.C.342, nonostante la meno diffusa variante m(erente) mereto343.

La difficoltà di inserire una parola “sabina” in un testo in perfetto latino non verrebbe ricompensata neanche dal punto di vista semantico. Nella dedica di un dono fatto per grazia ricevuta344, che implica, appunto, il ringraziamento alla divinità per aver esaudito una richiesta, non appare molto chiaro, infatti, il riferimento a un sacrificio espiatorio - se la prima parola è da interpretare come piaculum -, col quale, invece, si intende ricomporre, con la divinità, un rapporto che qualcosa aveva incrinato o alterato.

La congettura [t]esco dei primi editori ha il merito di introdurre un vocabolo latino che, pur essendo molto raro e dall’etimologia non perfettamente trasparente, faceva parte del linguaggio augurale e pontificale345. Varrone spiega che «loca quaedam agrestia, quod alicuius dei sunt, dicuntur tesca»346 (alcuni luoghi agresti, per il fatto che sono di qualche dio, sono detti tesca), mentre nei poeti il termine compare raramente, ed ha valore di luogo selvaggio o deserto. Secondo uno scolio alle Epistole di Orazio tesca indicherebbe «loca deserta ac difficilia lingua Sabinorum» (luoghi deserti e di difficile accesso, nella lingua dei Sabini)347. Nonostante la difficoltà di pronunciarsi con sicurezza sull’origine “sabina” e sull’esatto significato del termine, non sembra, tuttavia, inappropriata l’associazione che Bloch e Foti avevano proposto tra tescum e la realtà agreste del lucus, la radura del bosco sacro dove era venerata Feronia. Il legame tra tescum e lucus è stato ribadito in un recente studio di John Scheid, nel quale, tra le altre cose, è stato ripreso in esame il dossier documentario relativo al termine tescum, e ne è stato messo in evidenza il valore di spazio incolto, selvaggio, proprietà di una divinità in virtù di una occupazione spontanea: tutti aspetti che sembrano potersi adattare anche a un lucus. L’intrinseco carattere sacro che pare accomunare luci e tesca, e che gli uomini devono limitarsi a riconoscere, è stato contrapposto alla

342

Sulle formule di dedica cfr. Panciera 1989-1990.

343

Per la quale cfr. CIL I², 2226=ILLRP 41 (da S. Nicolò Gerrei, in Sardegna); CIL I², 2231=ILLRP 308 (da Anfipoli) (Torelli 1973-1974, 745-746).

344

Questo sembra il senso dell’espressione don(o)…dedet libe(n)s m(erente) mereto: letteralmente, diede il dono volentieri e a buon diritto.

345

Fest. 488-489 L.; Var. L. 7, 8, che riporta una formula augurale relativa all’auguraculum dell’Arx (cfr. Magdelain 1969).

346

Var. L. 7, 10.

347

nozione di templum, che è un locus liberatus et effatus, e ai luoghi consacrati attraverso un rito ufficiale, nei quali si deve, invece, riconoscere l’intervento umano348.

Per tornare al nostro testo, i primi editori, ipotizzando una lettura continua dei due lati, avevano inteso [t]esco salvod in riferimento alla preservazione del bosco sacro da un pericolo non specificato349. Leggendo, come è più probabile, la prima faccia come testo autonomo, potremmo forse interpretare tesco come un complemento di luogo (nel bosco sacro?), mentre le successive tre lettere potrebbero costituire l’inizio del prenome della dedicante. Appare particolarmente problematica l’integrazione del primo rigo del secondo lato, ma se accogliessimo la suggestione di Torelli, troveremmo un’altra indicazione di luogo, nella supposta espressione a[f (o ab) luco], che ha valore di provenienza. Tale formula è sicuramente attestata a Lucus Feroniae, più o meno contemporaneamente alla dedica di Plaria350, e compare, nello stesso periodo, anche sul labbro di un colatoio di bronzo dal santuario di Nemi, nella dedica Diana af louco, “a Diana dal lucus”351.

Naturalmente anche questa lettura presta il fianco a critiche, non ultima la mancanza di attestazioni epigrafiche del termine tescum, difficile variante per indicare il bosco sacro. Inoltre il santuario tiberino di Feronia viene comunemente chiamato lucus, sia in fonti epigrafiche contemporanee alla dedica in esame352, che in successive fonti letterarie353. La presenza di un termine italico latinizzato, secondo la lettura pesco, potrebbe essere legittimata, d’altro canto, proprio dalla posizione di confine del lucus Feroniae, sottolineata anche dalle fonti letterarie, che ne fa un luogo permeabile a influssi culturali diversi. Pesco potrebbe tradire, forse, un’origine della dedicante da un’area posta al di là del Tevere, rispetto al Lucus Feroniae, probabilmente tra l’Umbria e la Marsica.

348

Scheid 1993, 19-20, con bibliografia precedente sul termine tescum. Cfr. anche de Cazanove 2000, 37-38.

349

La suggestione viene dal passo di Servio a proposito dell’incendio che scoppiò nel lucus di Feronia a Terracina e a causa del quale si volevano allontanare le statue delle divinità. Per impedire ciò il bosco improvvisamente rinverdì (Ser. A. 7, 800). Bloch-Foti 1953, 68.

350

Cfr., infra, CIL I², 2869; Bloch-Foti 1953, 73; Torelli 1973-1974, 745.

351

CIL I², 2444, incisa sul labbro di un colatoio di bronzo: Diana af louco, con teonimo al dativo arcaico in -a.

352

CIL I², 2869.

353

Cato 48 Peter.; Verg., Aen., 7, 697; Serv., Ad Aen. 7, 695-697; Liv. 26, 11, 8; Sil. It. 13, 84; Liv. 27, 4, 14. È indicato come fanum in Liv. 1, 30, 4-5; Sil. It. 13, 86.

Anche l’onomastica della donna sembra rispondere a questa caratteristica. Se accettiamo l’ipotesi che il praenomen fosse Salvia354, notiamo che questo, anche al maschile, è ampiamente attestato per schiavi e liberti, ed è diffuso soprattutto in Umbria e nella parte settentrionale del territorio osco355, praticamente nella stessa area in cui è attestato il termine pesco. Il gentilizio della dedicante è molto raro, e trova, in questa iscrizione, la sua attestazione più antica. Esso compare, poi, nel II sec. d.C. in un’iscrizione di Pesaro, che nomina una Arria L. f. Plaria Vera Priscilla flaminica, moglie del console M’. Acilius Glabrio356, e in alcune iscrizioni di Ostia, nelle quali è menzionata una Plaria Q. f. Vera, flaminica divae Augustae, madre del console A. Egrilius Plarianus pater357.

La paleografia del testo consente una datazione nella seconda metà del III sec. a.C., in particolare per la L con forma ad uncino fortemente accentuata, la P a tre tratti ad angolo retto (più breve quello di destra). Si notino, inoltre, la A con traversa disarticolata e parallela all’asta di sinistra, la R con l’occhiello aperto in basso e coda più breve rispetto all’asta verticale, la O e la D aperte in basso, la C con curvatura poco accentuata358. Anche la presenza di segni di interpunzione circolari e della forma dedet del verbo, con la pronuncia aperta della –i359, sono ben compatibili con questo orizzonte cronologico.

CIL I², 2868; ILLRP 93 b; Bloch 1952, 625; Bloch-Foti 1953, 71; AE 1953, 196; Foti 1953, 16; Degrassi 1965, n. 41; Briquel 1972, 823; Coarelli 1973, 334, n. 483; Sgubini Moretti 1975 a, 173, n. 39.

Piccolo frontone di calcare di destinazione votiva, iscritto sul timpano. Manca di parte degli spioventi e della parte posteriore, presenta scheggiature e incrostazioni (h. cm 9; largh. cm 38; spess. cm 20). Rinvenuto prima della scoperta del centro

354

Torelli 1973-974, 744; Kajava 1994, 69-70. Anche nel recente studio di Kajava sui praenomina romani femminili viene accolta l’ipotesi di Torelli di attribuire alla Plaria della nostra iscrizione il prenome di Salvia. Meno probabile è considerata l’interpretazione di Bloch-Foti 1953, 68, secondo cui il prenome di Plaria era identificabile nella A[---] del primo rigo della faccia II.

355

Salomies 1987, 88-90; Kajava 1994, 69-70, 194; Solin 1996, 9.

356

CIL XI, 6333. Secondo Bloch-Foti 1953, 70 si tratta del console del 153 d.C.

357

CIL XIV 399. Allo stesso personaggio si riferiscono le iscrizioni frammentarie CIL XIV 4446; 5346. Su Plaria Vera di Ostia cfr. Zevi 1970, 290-303, che ritiene che il figlio della donna sia il console del 128 d.C.

358

Per il carattere arcaico di questi elementi paleografici cfr., ad esempio, Gasperini 1972-1973, 531-534; Coarelli 1976, 159-160.

359

di Lucus Feroniae nella zona dell’area sacra. Fa parte della collezione Massimo (Tav. XIV, fig. 1).

L(ucius) Calpurnius