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LA COMPAGNIA DI GESÙ E IL TEATRO

I.2 Caratteristiche e consuetudini del teatro gesuitico.

Si è, in precedenza, definita l'esperienza rappresentativa di collegio come appartenente all'ambito del teatro «dilettante», area di difficile analisi perché non agevolmente documentabile a causa della scarsa produzione editoriale. Gli storici della letteratura e del teatro hanno incontrato grosse difficoltà nel reperire documenti diretti per la ricostruzione di questo genere di spettacoli. Infatti i Padri gesuiti, lungi dal farsi coinvolgere dal canone della professione, di rado hanno dato alle stampe le loro opere drammatiche che sono rimaste così inedite, dimenticate nelle biblioteche o negli archivi dei collegi dissestati dalle vicissitudini storiche. Gli studi di Benedetto Soldati, di Luigi Ferrari, Francesco Colagrosso e Gualtiero Gnerghi,8 sono stati tra i primi ad analizzare il fenomeno culturale dello spettacolo di collegio, spesso sostanzialmente ignorato o considerato quale momento di secondo piano nella storia del teatro e dello spettacolo.

Successivamente Mario Scaduto ha rivisitato gli aspetti della scena pedagogica inquadrandone le caratteristiche,9 mentre Marc Fumaroli ha ridestato l'interesse

soprattutto per l'aspetto legato alla pratica dell'eloquenza e della persuasione.10

L'attenzione di tali contributi si è concentrata in larga parte su alcuni drammaturghi notabili per la qualità del repertorio, nonché sulla normativa fissata dai teorici dell'Ordine, mentre è stata poco indagata la produzione teatrale «minore» presente in forma eterogenea nei manoscritti disseminati nelle biblioteche italiane.

Dal punto di vista strettamente teatrale, preziose notizie sono contenute nelle argomentazioni e nei documenti raccolti da Ferdinando Taviani, che inseriscono il teatro

8 Luigi Ferrari, Appunti sul teatro dei Gesuiti in Italia, in Rassegna bibliografica della letteratura

italiana, anno 7, Pisa, Mariotti, 1899, pp.124-130; Francesco Colagrosso, op. cit., 1901, passim;

Gualtiero Gnerghi, Il teatro gesuitico ne' suoi primordi a Roma, Roma, Officina Poligrafica, 1907; Benedetto Soldati, Il Collegio Mamertino e le origini del teatro gesuitico, Torino, Loescher, 1908.

9 Mario Scaduto, Il teatro gesuitico, in A.H.S.I., vol.XXXVI, Roma, Institutum Historicum Societatis Iesu, 1967, pp.194-215.

10 Il contributo di Fumaroli sulla retorica nel teatro dei Gesuiti è stato ingente. Ricordiamo Marc Fumaroli, Eroi e oratori, Bologna, Il Mulino, 1990; Id., Les Jesuites et la pedagogie de la parole in Maria Chiabò-Federico Doglio (a cura di), I Gesuiti e i primordi del teatro barocco in Europa, atti del XVIII convegno internazionale del Centro Studi per il Teatro Medievale e Rinascimentale (Roma-Anagni, 26-30 ottobre 1994), Roma, Torre d'Orfeo ed., 1995; Id., L'età dell'eloquenza.

Retorica e "res literaria" dal Rinascimento alle soglie dell'epoca classica, Milano, Adelphi,

religioso all’interno della composita realtà del teatro italiano del Seicento.11 Studiosi

come Mirella Saulini, Michela Sacco Messineo e Bruna Filippi12 hanno offerto, in tempi

più recenti, rilevanti spunti di riflessione tanto nell'analisi di autorevoli autori dell'Ordine, quanto nella ricostruzione storica del teatro gesuitico nelle varie sfaccettature regionali. Giovanni Isgrò ha, invece, approfondito il discorso sulla componente artigianale e scenografica delle rappresentazioni,13 così come Fabrizio

Manuel Sirignano ha analizzato lo spettacolo di collegio con una particolare attenzione al ruolo pedagogico e formativo della scena.14

Tuttavia si è cercato di investigare la zona d'ombra che per diverso tempo ha nascosto questo genere spettacolare la cui natura pedagogica era già stata segnalata da Mario Scaduto nel 1967.15 Sul fronte scientifico gli studi teatrali degli ultimi decenni hanno

impresso una decisa virata verso l'analisi dei linguaggi specifici della scena e della rappresentazione.

Ne è derivato, come si è già accennato, il definitivo superamento dell'identificazione fra teatro e letteratura drammatica e sono stati gradualmente delineati i contorni di tale fenomeno, con la costruzione di un quadro di riferimento provvisto di coordinate sia culturali che specificamente teatrali.16 In particolare un saggio di Ferdinando Taviani17

suona come un monito contro facili generalizzazioni. Risulta fondamentale, secondo lo

11 Ferdinando Taviani, La fascinazione del teatro, cit., passim.

12 L'incidenza di questi studi è stata fondamentale. A tal proposito ricordiamo Mirella Saulini, Il

teatro di un gesuita siciliano. Stefano Tuccio, Roma, Bulzoni, 2002; Michela Sacco Messineo, Il martire e il tiranno: Ortensio Scammacca e il teatro tragico barocco, Roma, Bulzoni, 1988.

Importante è anche lo studio di Bruna Filippi, Il teatro degli argomenti. Gli scenari seicenteschi

del teatro gesuitico romano. Catalogo analitico, Roma, Institutum Historicum Societatis Iesu,

2001, opera preziosa che ordina un vasto materiale proveniente dal Collegio Romano.

13 Giovanni Isgrò, Tra le invenzioni della scena gesuitica. Pedagogia e debordamento, Roma, Bulzoni, 2008.

14 Fabrizio Manuel Sirignano, op.cit, passim. 15 Mario Scaduto, op. cit., pp.194-215.

16 Tali coordinate sono tracciate nella miscellanea curata da Maria Chiabò-Federico Doglio, op. cit., passim, cui si aggiunge il lavoro di Bernadette Majorana, La scena dell'eloquenza in Storia del

teatro moderno e contemporaneo (diretta da Roberto Alonge e Guido Davico Bonino), vol.I: La nascita del teatro moderno. Cinquecento-Seicento, Torino, Einaudi, 2000, pp.1043-66.

17 Ferdinando Taviani, Il teatro per i Gesuiti: una questione di metodo, in Filippo Iappelli-Ulderico Parente (a cura di), Alle origini dell'Università dell'Aquila. Cultura, università, collegi gesuitici

all'inizio dell'età moderna in Italia meridionale, Atti del convegno internazionale di studi

promosso dalla Compagnia di Gesù e dall'Università dell'Aquila nel IV centenario dell'istituzione dell'Aquilanum Collegium (1596), L'Aquila, 8-11 novembre 1995, Roma, Institutum Historicum Societatis Iesu, 2000, pp.225-50.

studioso, individuare un approccio più idoneo ad esplorare un'esperienza bifronte che si colloca a metà strada fra la storia dei generi e della drammaturgia (cui appartiene in quanto scrittura) e la storia della teatralità, in cui rientra in qualità di evento sempre connesso ad un'occasione cerimoniale.

Secondo quanto emerso finora, l'esperienza teatrale gesuitica ebbe un legame vitale con il microcosmo cittadino facendo delle rappresentazioni di collegio un evento prettamente festivo. Inoltre, il professore di retorica, al quale era affidato il compito di allestire le recite, in qualità di chorago era regolarmente coinvolto nell'ideazione degli allestimenti effimeri e, in collaborazione con altri artisti, contribuiva alla promozione dell'istituto.

Più di ogni altra cosa il dramma gesuitico fu connotato da una strutturale natura pedagogica: il teatro della Compagnia fu una «scuola di virtù» che riconosceva nella tensione spirituale e morale l'esercizio a guardare la realtà per vivere nel mondo.

La vocazione pedagogica passò attraverso l'educazione retorica in una inesauribile oscillazione tra pedagogia, poetica e drammaturgia.

La strategia comunicativa dei testi drammatici ci consente di verificare, accanto alla portata conoscitiva dell'intero investimento retorico, anche le modalità con le quali esso fu impiegato a fini formativi. La tipizzazione dell'eroe costituì lo strumento principale della proposta pedagogica dei Gesuiti e, nella vasta gamma di personaggi che agirono sui palcoscenici dei collegi, il polo tipologico fondamentale fu quello martirologico.18

Il teatro gesuitico, in quanto teatro didattico, enfatizzò la contrapposizione fra buoni e malvagi: il martire, saldo nella fede, padrone assoluto della propria libertà in grado di stringere un braccio di ferro con la fortuna, era il protagonista di più spiccato taglio apologetico. Egli poteva esprimere il momento più alto, eroico ed agonistico della santità e, in questa diffusione tematica e scenica, è lecito intravedere la sfumatura combattiva della spiritualità della Compagnia, impegnata com'era nell'agguerrita polemica anti-protestante ed anti-giansenistica. Le discussioni teoriche sostenute da illustri Gesuiti, come Pietro Sforza Pallavicino e Tarquinio Galluzzi, toccarono i punti nevralgici della questione di una tipologia drammatica tesa all'invenzione di un modello

18 Michela Sacco Messineo ha fatto della dialettica fra il martire e il tiranno il focus del suo volume sul teatro del padre siciliano Ortensio Scammacca (Michela Sacco Messineo, op. cit., passim).

rinnovato di tragedia in grado di unire la tradizione classicistica con i principi etici del cattolicesimo riformato.

Il teatro collegiale fu generato da esigenze ed esperienze differenti, ciascuna delle quali era strettamente caratterizzata dalla realtà in cui si trovava ad operare. In questo senso il rischio di una dispersione centrifuga degli intenti pedagogici era già stato affrontato e superato con la redazione della Ratio studiorum ma, allo stesso modo, si rese necessaria l'identificazione di un centro unificante per l’elaborazione e lo sviluppo della drammaturgia dell’Ordine, soprattutto in virtù del fatto che il fenomeno si irradiò dal Portogallo ai Paesi dell’Europa orientale (come la Polonia), per poi raggiungere i confini del mondo conosciuto fino all’America latina.

Intorno al 1560, molte delle esperienze teatrali e drammaturgiche trovarono il loro naturale punto di confluenza all’interno del Collegio Romano che assunse i connotati del laboratorio, diventando prospera fucina di esperienze capace di forgiare il dramma gesuitico sia secondo i dettami della concezione retorico/pedagogica imposta dalla

Ratio, sia, come abbiamo già osservato, entro i canoni di una ricerca sperimentale delle

tecniche coreografiche e della messa in scena.19

La consuetudine prevedeva che il passaggio dal testo drammatico al contesto scenico seguisse una prassi ben definita. Si distribuiva un testo a stampa agli spettatori entro il quale era relegata la successione degli avvenimenti rappresentati in scena. Tale compendio, seppur definito generalmente negli scritti gesuitici del tempo «argomento universale e particolare», recava sul frontespizio differenti denominazioni: «argomento», «soggetto» o, più frequentemente, «scenario» o «argomento e scenario».

Spesso i convittori stendevano questa sorta di libretto (o programma) necessario a favorire la comprensione di tutto quanto veniva rappresentato in scena. Esso esordiva, di solito, con un breve sommario in cui si esponevano sinteticamente l'argomento, le ambientazioni sceniche e i personaggi. Tutti i cambiamenti di scena, gli interventi dei

19 Ignazio, per supplire alla carenza di scuole pubbliche a Roma e per provvedere a una migliore formazione del clero sia secolare che regolare fondò, il 18 febbraio 1551, il Collegio Romano, realizzandolo grazie ad una donazione fatta l’anno precedente, nel 1550, da Francesco Borgia, Duca di Gandia. Nel 1551 il Collegio Romano era appena una piccola casa in affitto situata ai piedi del Campidoglio dove si tennero, gratuitamente, le prime lezioni di latino e greco e poco dopo anche di ebraico, oltre alla dottrina cristiana. Cfr. Ricardo Garcia Villoslada, Storia del

Collegio Romano dal suo inizio (1551) alla soppressione della Compagnia di Gesù (1773),

cori e l’introduzione degli intermezzi erano illustrati dal prologo all’epilogo. Al termine di questa descrizione si trovava la lista delle «persone» o «attori» che prendevano parte alla rappresentazione con a fianco riportati i nomi degli allievi che impersonavano i personaggi del dramma. I frontespizi stessi dei primi esemplari di questi testi precisano che essi vogliono essere un «racconto Atto per Atto, Scena per Scena de’ Personaggi ch’escono a parlare o anche una «breve esposizione […] di quanto in essa si tratta».20

L’oggetto dello scenario elencava con la massima chiarezza possibile gli avvenimenti che la componevano per render conto, scena dopo scena, allo spettatore della successione delle azioni incentrate sui personaggi. La sua funzione principale era articolata sull'elenco delle azioni drammatiche che fornivano la base all’intreccio dell’opera, svolgendo un duplice ruolo di mediazione: verso lo spettatore, consentendogli di prevedere gli avvenimenti, mettendo in risalto ai suoi occhi i punti nodali della vicenda e le giuste chiavi di lettura; verso il testo drammatico, del quale s’incaricava di illustrare gli eventuali mutamenti o gli adattamenti subiti in occasione della rappresentazione.

L’autonomia dello scenario dal testo drammatico dunque non dipendeva esclusivamente dalla sua funzione, ma soprattutto dallo scarto (di cui lo scenario era testimone) fra il testo stesso e la sua effettiva messa in scena.

Da un punto di vista drammaturgico fu largamente condiviso il tentativo di far coesistere il principio aristotelico della divisione della tragedia in cinque atti con la distribuzione quantitativa dell'azione in un prologo, un episodio (diviso in quattro atti), un esodo (corrispondente al quinto atto) e i cori (considerando tra questi anche gli intermezzi). Proprio nello spazio/tempo riservato all'introduzione del prologo e negli intermezzi si lasciava campo libero alle ingegnose novità che, ai tentativi di approdo verso la stesura di drammi regolari, contrapposero (soprattutto a partire dalla seconda metà del XVII secolo) un variegato turbinio drammaturgico ricco di colpi di scena e magie. Parte degli effetti puntavano a immagini sanguinose e visioni paurose, mediante originali invenzioni sceniche supportate dalla presenza di musica e canto.

Le vicende drammatizzate trattavano di eroi che avrebbero potuto stimolare nel

20 A tal proposito si rimanda a Bruna Filippi, Il teatro al Collegio romano: dal testo drammatico al

pubblico un sentimento di imitazione originato dalla scelta estrema di difendere la fede con la vita, nello slancio eroico sublime e il fiducioso abbandono a Cristo. Questa tensione al martirio condannava il vizio, l'ignavia, la sceleratezza e la corruzione tipica dei miscredenti, il cui malvagio dibattersi nelle tenebre del peccato e dell'odio si scontrava con la titanica virtù del perfetto cristiano che viveva di coraggio, fraterna solidarietà e giustizia, nell'amorosa ed incondizionata dedizione al Signore. Tali caratteristiche dovevano incarnare il modus vivendi del giovane studente, oltre che rappresentare la base e il fine ultimo della precettistica gesuitica.

Sul piano della struttura scenica, così come nella forma poetica e drammaturgica, le rappresentazioni tendevano a conciliare la ricerca di regolarità classica con i modi rappresentativi del teatro coevo, traendo profitto dalle invenzioni e novità delle grandi messe in scena delle corti barocche. L'articolato e sovranazionale processo di pianificazione dell'attività teatrale dei Gesuiti, nella relazione tra tematiche, didattica e drammaturgia, diede origine a progetti ed esperimenti che si perfezionarono anche in rapporto alla specificità dei luoghi e delle tradizioni ove essi erano posti in essere.

Tra il XVI e il XVII secolo, soprattutto presso il Collegio Romano, drammaturghi, scenografi, architetti, musicisti, artigiani fra i più prestigiosi nel panorama artistico della Compagnia si impegnarono in uno sperimentalismo tecnico-artistico cercando, allo stesso tempo, di garantire una sorta di stabilità ai generi. Certo i Padri non si cimentarono in un mero, stravagante e multiforme teatralismo, bensì seppero rendere straordinarie le ingegnose «meraviglie» della messa in scena, accompagnando la pratica con una scrupolosa trattatistica di settore tesa, come fu sempre costume dei Gesuiti, al fine didattico più che ad un risultato meramente artistico.

All'interno dei collegi si affermò un senso costruttivo come di una bottega d'arte e ci si orientò, lentamente, verso la costruzione di uno spettacolo rivolto alle masse urbane, incapaci di fruire una retorica che non fosse anche visiva. Per dar corso alla pratica scenica, i Gesuiti si resero conto che bisognava trasmettere le esperienze (sia teoriche che pratiche) attraverso un punto di riferimento centrale che potesse evitare ogni sorta di frammentazione in una miriade di esperimenti lontani da una regola e da una condizione unificante che garantisse identità e durata: questo centro fu, ovviamente, il Collegio Romano, che accolse i risultati degli esperimenti scenici pionieristicamente condotti in

tutte le Province dell'Ordine, correggendoli ed epurandoli dove necessario, per consegnarli al pubblico nell'ottica di un processo educativo per immagini.

L'obiettivo di unificare entro regole precise la sperimentazione scenica non doveva essere un freno alle capacità innovative e alla creatività artistica tipica del periodo barocco: in questo senso anche i Padri preferirono non rinunciare all'originalità delle invenzioni spettacolari.

Ancorata ai problemi sociali, forte delle sue prospettive salvifiche, la scena di collegio imponeva puntualmente la sua lezione dialettica, abituando un pubblico sempre più vasto al confronto tra illusione e realtà. Lo spettacolo gesuitico divenne così una sorta di consuetudine culturale tipica delle famiglie aristocratiche, spettatrici compiaciute delle

performances dei loro rampolli, e fu, gradualmente, allargata ad altri ceti sociali, il più

delle volte con il patrocinio diretto dell'amministrazione civica.

Il connubio tra la novità scenica e i contenuti espressi permise al dramma gesuitico di competere positivamente con la scena laica, creando di volta in volta nuovi moduli espressivi o adattamenti di generi preesistenti, fino a giungere a prodotti artistici inusuali e spesso sorprendenti.