• Non ci sono risultati.

LA COMPAGNIA DI GESÙ E IL TEATRO

II.1 Il ruolo della scena nella pedagogia gesuitica.

Per tratteggiare un profilo del teatro teorizzato e praticato dai Gesuiti sarebbe opportuno procedere parallelamente su due linee di ricerca ormai consolidate nel tempo: la prima impone un riesame dei vecchi schemi interpretativi della storiografia gesuitica, mentre la seconda prende spunto da una rinnovata (seppur frastagliata) riflessione sul teatro. Quest'ultimo filone di studi, risalente a non più di un trentennio fa, è fiorito nell'ambito delle storie locali, in grado di cogliere sia le luci che le ombre dell'operato della Compagnia, portando in primo piano i rapporti tra i fenomeni culturali legati alle scuole dell'Ordine e, quindi, rinnovando la visione anche dello spettacolo gesuitico.

Dal punto di vista scientifico, gli studi teatrali, soprattutto in quest'ultimo decennio, hanno impresso una decisa virata in direzione dell'analisi dei linguaggi specifici della scena e della rappresentazione, portando al definitivo accantonamento della prospettiva di un'identificazione fra teatro e letteratura drammatica. Gli studi in questione hanno sottolineato come la parola rappresenti, in realtà, solo uno dei molti codici attivati dalla comunicazione teatrale che, vista nel significato più autentico del termine, si delinea come relazione unica ed irripetibile tra corpi emittenti e ricettori in un contesto e in un tempo condivisi.

Forse è proprio tale prospettiva ad offrire il punto di osservazione migliore per tentare di delineare, quanto meno parzialmente, una fenomenologia teatrale gesuitica, che prevede un testo drammatico creato esclusivamente per la rappresentazione tenuta dagli studenti. In quest'ottica la scena era considerata un luogo nel quale la finzione non era simulazione bensì ricerca di un metodo di confronto della collettività, intendendo con essa attori e pubblico. Questo sistema di comunicazione da una scena allegorica e retorica si irradiava ad un pubblico fortemente connotato come gruppo (l'élite urbana).

Il teatro dei Padri era occasione d'incontro tra il collegio e la città, utile a favorire una migliore relazione tra questi due poli. Questo tipo di spettacolo forniva ai docenti il

pretesto per comporre un'opera originale e consentiva agli allievi di sfoggiare i precetti retorici appresi al cospetto di un uditorio culturalmente elevato al quale veniva impartita, nelle forme del teatro, una lezione sui doveri relativi al loro stato sociale.1

Le interazioni tra autori, attori e protagonisti della vicenda rappresentata mettevano in luce il carattere «formativo» di questo genere di spettacolo, evidenziandone l' esercizio didattico e apologetico, carico di una spiritualità aperta ad ampio raggio sul mondo esterno. La scena gesuitica aspirava a diventare un vero e proprio strumento di formazione sociale per l'intera comunità, rimanendo sempre separata dal teatro mercenario.2 Sia che nascesse in corrispondenza delle tradizionali scadenze scolastiche,

sia che fosse pensata in concomitanza con avvenimenti di rilievo della vita politica della città (morte del re, ingresso di un sovrano o di un'autorità religiosa, nascita di un erede al trono, festeggiamento di una vittoria militare), la materia rappresentata era inscindibile dal vissuto degli attori e degli spettatori. Perciò il teatro gesuitico fu un'esperienza di forte presa comunitaria, la cui genesi è da ricercarsi esclusivamente nell'alveo dei collegi.

La rappresentazione tendeva a riprodurre in maniera speculare le gerarchie del gruppo, esattamente come accadeva nella società civile e religiosa. I fruitori dello spettacolo, intendendo per essi l'ampia fascia della nobiltà e del patriziato urbano (parenti dei convittori), si riunivano nel collegio e al suo interno si riconoscevano. Infatti il teatro di collegio si rivolgeva a una comunità che celebrava un evento di forte spessore simbolico: ancorato al tessuto civico, vi affondava radici profonde richiamando in sé la parallela esperienza composita della teatralità e della cerimonialità urbana.

Il dramma gesuitico fu sempre distante da quello professionistico e, anche quando le suggestioni provenienti dal dramma in musica fecero breccia nell'universo scolastico della Compagnia, non venne mai meno la consapevolezza della diversa funzione dello

1 Il professore di retorica, al quale era affidato il compito di allestire le rappresentazioni (chorago), era regolarmente coinvolto, insieme ai principali artisti attivi in città, anche nell'ideazione degli allestimenti effimeri che contribuivano alla spettacolarizzazione dei luoghi simbolici in occasione di eventi importanti. A tal proposito cfr. Giovanna Zanlonghi, Teatri di formazione. Actio, parola

e immagine nella scena gesuitica del Sei-Settecento a Milano, Milano, Vita e Pensiero, 2002,

p.226.

2 Cfr. Manuel Sirignano, Gesuiti e giansenisti. Modelli e metodi educativi a confronto, Napoli, Liguori, 2004. pp.90-91.

spettacolo pedagogico.3

Le note che lo contraddistinsero dal coevo spettacolo professionistico furono almeno due: la ricezione di tipo «corale» e la dimensione spiccatamente festiva che connotava la rappresentazione scolastica. Questa tipologia di spettacolo era, infatti, legata al momento celebrativo del Carnevale, che chiudeva la prima parte dell'anno scolastico, e al termine dei corsi, verso la fine di settembre, con la consegna dei premi.

La connotazione specifica del teatro di collegio era quella di essere un'esperienza formativa dietro la quale si annidava l'istanza pedagogica (teatro come «scuola di virtù»), unitamente ad un'attenzione antropologica (esplicitamente teorizzata dalla teologia dell'Ordine) spirituale e morale (esercizio a guardare la realtà per vivere nel mondo). Il teatro orientato alla formazione sia dell'uomo pubblico, signore della comunicazione, che dell'uomo religioso e etico, alimentava una spiritualità aperta all'impegno nel mondo, sollecitando meccanismi di condivisione dei valori.

Tali ambizioni formative richiedevano la padronanza di tecniche espressive lontane dal professionismo ma che pure necessitavano di un'alta formazione. La vocazione pedagogica dei Gesuiti dovette, quindi, necessariamente passare attraverso le maglie di una retorica chiamata a farsi «grammatica» e veicolo della visione del mondo tipica dell'Ordine, in un continuo sconfinamento fra pedagogia, poetica e drammaturgia.

Le rappresentazioni tenute nei collegi, in quanto appartenenti all'area del teatro dilettantistico, restano, ancora poco documentabili, soprattutto a causa della scarsa produzione editoriale, visto che i Padri non entrarono nel sistema produttivo e solo in casi rari diedero alle stampe le loro opere. Nonostante sia sufficientemente nota l'attività dei maggiori tragediografi gesuiti, molto più grande è la difficoltà di reperire la produzione della moltitudine di maestri di retorica che operarono sul territorio nazionale e che coordinavano le attività teatrali.

Il ritrovamento di tali documenti sarebbe un passo fondamentale per sostenere un'indagine acuta sulla scena gesuitica, cogliendo in essa non solo la dimensione artistica, ma anche le implicazioni culturali. Ciò amplierebbe la visione del teatro di

3 L'ipotesi di una contiguità di gusto fra il teatro di collegio e il coevo dramma musicale è stata avanzata da Giovanni Morelli-Elena Sala, Teatro gesuitico e melodramma: incontri, complicità e

convergenze, in Mario Zanardi (a cura di), I Gesuiti a Venezia. Momenti e problemi di storia veneziana della Compagnia di Gesù, Atti del convegno di studi (Venezia, 2-5 ottobre 1990),

collegio come fenomeno di costume visto che, per almeno due secoli, è stata (nella maggior parte delle città italiane e ancor più nei centri urbani minori) la sola forma di rappresentazione teatrale dotata di sicura continuità.

L'esperienza della scena come momento integrante dell'attività educativa non fu una prerogativa dei collegi della Compagnia, ma i Gesuiti furono in grado di creare un loro teatro tragico con caratteri puntualmente teorizzati e, se anche l'incidenza di questo teatro non risultò superiore alle altre analoghe esperienze, si deve considerare che questo genere di attività fu presente in istituzioni (convitti o seminari) non legate alla Compagnia. Occorre appunto sottolineare la presenza di un teatro di collegio che seguiva alcune linee di sviluppo autonome rispetto a quello dei Gesuiti (che comunque svolgeva il ruolo di traino all'interno del panorama del teatro di collegio italiano), come il teatro degli Scolopi o dei Somaschi, o ancora di altri Ordini che diedero vita ad esperienze diverse, distanti tra loro soprattutto nel corso del Settecento.

Da questo stacco emerse la profonda diversità tra i progetti educativi e culturali di stampo ecclesiastico presenti in Italia, sottolineata esemplarmente dall'approfondirsi del solco creato tra la Compagnia di Gesù (e le sue istituzioni educative) e le altre esperienze spettacolari legate ad istituti pedagogici retti da altri Ordini.

Nel corso del XVI secolo, le prime rappresentazioni teatrali promosse dai Gesuiti si tennero nei collegi pubblici, aperti cioè agli studenti esterni; questa esperienza fu ben presto abbandonata e, a differenza degli altri collegi europei della Compagnia, in Italia assunse un carattere episodico. A partire dal Seicento, quasi tutti i convitti italiani furono dotati di locali destinati ad accogliere le rappresentazioni di un teatro vero e proprio, provvisto di palcoscenico, macchine teatrali, platea e palchi, dando inizio ad un'intensissima attività rivolta all'ampio ventaglio delle classi sociali che mandavano i propri eredi a studiare in prestigiosi istituti.

Le rappresentazioni non potevano rivolgersi ad un pubblico socialmente e culturalmente eterogeneo (come ancora nel secolo XVII avveniva negli altri Paesi europei) e, per tale motivo, gli elementi spettacolari furono pesantemente condizionati.

La ricerca dell'effetto scenico fu molto più composta e l'apparato decorativo divenne meno imponente. Inoltre il teatro gesuitico dei collegi italiani fu caratterizzato, nei primi decenni del Seicento, dall'intento di restaurare il teatro antico pur nell'innovazione dei

temi.

La sua evoluzione fu legata all'intento di fornire al pubblico selezionato la sintesi del progetto educativo e dei progressi fatti dai giovani convittori che, nelle vesti di attori, dovevano trattare esclusivamente argomenti sacri e pii esempi, con l'obbligo dell'uso del latino nei dialoghi. La Ratio studiorum fu, riguardo questi precetti, categorica.e i ripetuti richiami a rispettare queste regole confermarono come l'evoluzione del teatro di collegio gesuitico avesse assunto una pericolosa dinamica interna che modificava gli obiettivi originari e si prestava a trasgredire le regole.4

Il valore educativo dell'esperienza teatrale fu teorizzato a più riprese dai Padri; accanto all'addestramento della memoria, elemento centrale della pratica pedagogica gesuitica mutuato dalla tradizione educativa umanistica, assunsero importanza fondamentale gli studi del corso grammaticale-retorico per portare a termine la formazione dell'oratore.5

La Ratio studiorum riconobbe un ruolo centrale alla recitatio cui dovevano essere addestrati gli studenti di retorica per abituarsi al contatto con l'uditorio ed essere, in tal senso, in grado di trovare le forme e i modi più consoni ad esporre il pensiero di un autore. I giovani convittori venivano avviati alle scene con una molteplicità di interventi ove la ricerca della perfezione tecnica del dettaglio divenne ben presto l'obiettivo principale. L'accento era posto sull'importanza di un'opportuna modulazione della voce, da conseguire con accurati esercizi fonetici, su un'appropriata gestualità e sul valore di una circostanziata disciplina che consentisse un controllo totale sul proprio corpo, condizionandone i movimenti fin nel dettaglio.

La recita di collegio era finalizzata al funzionamento di un minuzioso meccanismo psicologico in grado di produrre fenomeni di automatismo comportamentale. Questo genere teatrale doveva, oltre a formare il giovane oratore, anche esercitare una profonda azione di disciplina sugli allievi correggendone ogni genere di irregolarità comportamentale affinché entrassero in società preparati al ruolo che in essa dovevano svolgere.6

4 Cfr. M.P.S.I., voll. II-III, cit., passim. Furono numerosi gli inviti sparsi nella corrispondenza coi rettori dei vari collegi ad un maggior rigore.

5 Cfr. M.P.S.I., ad indicem (memoria), vol.II, cit., p.543 «Quae et quot mandabuntur memoriae, non solum latina, sed graeca audit, et quo modo».

6 È possibile individuare questa esigenza in numerose scene dei drammi gesuitici secenteschi: nel

Demetrio, scritta dal padre Francesco Zuccarone, vi era un'intera scena appositamente destinata

Da esperti conoscitori dei mezzi di propaganda ed abili maestri nell'organizzazione del consenso quali erano, i Gesuiti conciliarono sulle scene del loro teatro le due posizioni antitetiche che ne animarono l'operato: da un lato vi fu la tensione spirituale dei riformisti che trovava un riscontro nella fedeltà alle norme della poetica classica, nella «restitutione dell'antica tragedia», nella purificazione dei soggetti contaminati dal paganesimo rinascimentale, nella totale subordinazione all'intento di servire la fede e di ubbidire alla verità storica; dall'altro vi era l'istintiva attenzione verso ogni manifestazione che potesse incontrare l'approvazione del pubblico, e la propensione ad accettare ed assecondare una dimensione mondana (la grandiosità dell'apparato scenico, la fastosità della coreografia).

Balletti, duelli, esercizi di ginnastica o di addestramento militare finirono per conferire alle rappresentazioni tragiche caratteri propri di un saggio scolastico. Queste commistioni furono comuni all'intero teatro di collegio italiano ed ebbero la medesima funzione tra i diversi Ordini. Nessuno tra questi, però, seppe dotarsi di un repertorio per il proprio teatro di collegio come riuscirono a fare i Gesuiti.

Essi manifestarono impegno, coerenza, lucidità e unità d'intenti tali da consentire agevolmente l'individuazione delle finalità e dei suoi interlocutori.

Il fenomeno assunse dimensioni vaste in virtù del fatto che i Padri individuarono nelle rappresentazioni teatrali un efficace strumento di propaganda con obiettivi non dissimili dalla stessa predicazione. Un folto nucleo di tragedie, con intenti esplicitamente agiografici, corrispose a questa istanza. Si trattò di opere appartenenti in massima parte ad una produzione destinata alle rappresentazioni popolari di breve e circoscritta fortuna legate ad un ambito strettamente locale, caratterizzate dalla stesura in volgare, a differenza del repertorio aulico di collegio composto in lingua latina fino al Settecento.

La fase estrema del teatro di collegio gesuitico è individuabile intorno al 1730 e si protrasse fino al 1773, anno di soppressione della Compagnia. In questo periodo gli autori tentarono un ritorno alla rappresentazione di temi biblici, con l'intenzione di riprendere il ciclo che contraddistinse la fase più fortunata dell'attività drammaturgica dei Padri. L'ultima generazione di drammaturghi dell'Ordine prestò attenzione ai nuovi

duelli e le occasioni create per mostrare l'abilità e la destrezza acquisite dai giovani convittori disseminate nelle opere a noi note (cfr. Francesco Zuccarone, Argomento e scenario del

modelli del teatro tragico francese, palesando la volontà di riallacciarsi alla tradizione classica nel rispetto delle unità di tempo e luogo, nella riduzione del numero dei personaggi e nell'esemplificazione dello svolgimento dell'azione.7

Questo tentativo di riforma non si iscrisse soltanto nell'ottica di un adeguamento del teatro gesuitico alle nuove tendenze della drammaturgia europea, ma anche nel desiderio di ritardare il declino della Compagnia e delle sue istituzioni educative da più parti considerate ormai non rispondenti alle esigenze di una più efficiente classe dirigente. Il ritorno ai temi biblici, la riduzione del grandioso e del meraviglioso negli apparati scenici, la soppressione delle «sontuose apparenze», la compostezza e l'austerità che assunsero le rappresentazioni, il rispetto delle severe norme prescritte dalla Ratio a lungo trasgredite, furono i segni del tentativo di recupero di una credibilità ormai logorata. Proprio il rispetto della norma non consentì al teatro gesuitico di adeguarsi al nuovo clima culturale del secolo dei lumi, creando un solco tra le altre esperienze italiane e questo genere teatrale che si avviava a scomparire rispecchiando l'immobilità della pedagogia gesuitica, incapace di adeguarsi alla nuova domanda sociale.

I

7 La mente più lucida di questo tardivo tentativo di riforma (che non interessò solo il teatro ma l'intero progetto culturale gesuitico) fu Saverio Bettinelli, il quale espresse alcune riserve verso la produzione secentesca dei suoi confratelli e la volontà di costituire un nuovo repertorio per il teatro di collegio. A tal proposito cfr. Francesco Colagrosso, Saverio Bettinelli e il teatro

gesuitico, Firenze, Sansoni, 1901, passim; Gian Paolo Brizzi, Caratteri ed evoluzione del teatro di collegio italiano (sec.XVII-XVIII), in Cattolicesimo e lumi nel Settecento italiano (a cura di

Mario Rosa), Roma, Herder, 1981, pp.196 e segg; Giovanna Zanlonghi, Teatri di formazione, cit., p.284.