Timide aperture, dopo il blocco editoriale di cui abbiamo parlato, si possono intravedere nel settimanale “Epoca” riguardo al tema dell’Olocausto. Anche se nell’arco dei tre anni esaminati (1952-53-54) sono veramente pochi i riferimenti allo sterminio perpetrato ai danni degli ebrei, tale breve ricerca – seppur esplicativa- mi ha permesso di intendere ancor meglio quali sentimenti e quali temi richieda il pubblico dopo anni di sofferenze legate alla guerra. I rotocalchi leniscono e spostano l’attenzione su tematiche molto più “leggere”. “Epoca” viene ideato sul modello dei periodici statunitensi illustrati, come il settimanale Life, è lanciato a Milano il 14 ottobre 1950. La testata reca come sottotitolo: “Settimanale politico di grande informazione”. I pochi riferimenti allo sterminio degli ebrei che sono riuscito ad intercettare delineano il quadro tracciato nella prima parte di questo lavoro. L’opinione pubblica almeno sino agli anni Sessanta non volge lo sguardo attentamente all’Olocausto e alle sue implicazioni anche se a partire dal 1952 qualcosa, seppur sottotraccia, si muove. Molto spesso l’argomento viene solo sfiorato o trattato di riflesso e non vi è traccia di alcuna inchiesta approfondita su quel fenomeno così drammatico della storia europea. Nonostante abbiamo parlato di uno “sblocco editoriale” l’attenzione del giornalismo d’inchiesta politico in quegli anni su “Epoca” si incentra principalmente sulle sorti di alcuni prigionieri italiani in Russia. Un’inchiesta che si protrae negli anni attraverso l’uscita “a puntate” della vicenda. L’argomento Olocausto viene trattato molto poco come abbiamo detto e principalmente nella rubrica “Memoria dell’Epoca” e nelle “Conversazioni con i lettori” gestite da un giornalista molto importante che scrive sotto lo pseudonimo di Ricciardetto, Augusto Guerriero. La prima rubrica ha l’intento di ripercorrere le tappe della storia recente dell’Europa con particolare riguardo alla Grande Guerra e alla Seconda Guerra mondiale, appena conclusasi. La seconda è la “classica” rubrica nella quale il Ricciardetto seleziona le domande più interessanti dei lettori e risponde.
Il primo trafiletto che ci riconduce alla tematica dell’Olocausto è il commento di un lettore ed ex- prigioniero dei tedeschi, tale Beppe Santoro, riguardo al processo di Bologna contro il nazista Reder commentato e riportato da Ricciardetto nei numeri precedenti della rivista. Il lettore, molto infervorato, ci restituisce l’immagine e il clamore dei processi che si svolgono in quegli anni contro ex-gerarchi fascisti e nazisti:
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“Basterebbe ciò per definire belve mostruose coloro che una certa stampa d’oggi giorno definisce ‘eroi della grande Germania’. Norimberga e i tribunali italiani sono stati molto indulgenti, tanto vero che alcuni tra i maggiori responsabili di tante atrocità sono oggi liberi e al sicuro. […] i nomi di Buchenwald, Auschwitz, Dachau e di tante e tante altre località infernali, dove decine di milioni di vite umane furono sterminate […]”176
Il tema assolutorio del fascismo e del nazismo visti come un “invasione degli Hyksos” - per usare la celebre metafora crociana – sia dell’impunità dei responsabili di quei regimi ricorre molto spesso e si può intravedere nelle pagine in questione di “Epoca”. Il disagio del lettore è comprensibile come abbiamo cercato di spiegare nella prima pagine di questo lavoro infatti:
“La rimozione dei crimini di guerra non era soltanto un’esigenza sociale, una rimozione clinica per il benessere psicologico della nuova società: rimuovere i crimini significava anche ricominciare a vivere all’interno della stessa società, recuperare quegli italiani che durante la guerra avevano fatto la scelta del collaborazionismo. Si fermeranno i processi ai colpevoli italiani proprio per evitare di riaprire ferite richiuse malamente con il sangue, mentre i criminali fascisti saranno amnistiati anche per permettere loro di vivere nella nuova società italiana, appena nata all’interno della debole repubblica.”177
Lo stesso Claudio Pavone ha scritto che si decide di dover colpire alto nell’epurazione e recuperare alla democrazia gli italiani che sono la base di massa al fascismo, per non obbligarli a essere ancora fascisti perché impossibilitati ad essere altro.178
Inoltre si può sottolineare, tornando alle parole del lettore, come i principali campi di sterminio siano sì nominati come luoghi di detenzione e di sterminio ma senza ancora quella valenza che sarà racchiusa solo successivamente con il termine Olocausto, nella sua accezione più stretta, come “in riferimento al progetto nazista di sterminare gli ebrei d’Europa”.179
Ancora nel marzo del 1952 nella rubrica “Memoria dell’Epoca” vi è un articolo in cui Ricciardetto riflette sulle “colpe” individuali e collettive del “popolo tedesco”. Uno dei
176 A. Guerriero, Conversazioni con i lettori, ”Epoca”, 15 marzo 1952
177 G. G. Savellini, Giornalismo del dopoguerra. Tra memoria e rimozione, Odoya, Bologna, 2009, p. 20 178 C. Pavone, Alle origini della Repubblica, Bollati Boringhieri, Torino, 2005
179 R. S. C. Gordon, Scolpitelo nei cuori. L’Olocausto nella cultura italiana (1944-2010), Bollati Boringhieri,
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paragrafi è titolato “In difesa del popolo tedesco” e ciò rende bene quale sia l’opinione del giornalista e su quali sentimenti poggino le riflessioni del secondo dopo guerra. La riflessione comincia su quanto “la tesi che tutto il popolo tedesco sia colpevole di quel che ha fatto il nazismo è stata esposta e sostenuta più volte” e di conseguenza la netta presa di posizione dell’autore che respinge questa impostazione con forza:
“Le colpe di interi popoli, di nazioni o di generazioni sono un concetto che supera le mie possibilità di capire. Confesserò, anzi, che mi sembra non siano altro che frasi vuote. Ogni uomo è responsabile dei suoi atti: questo è evidente.”
Il pensiero è così delineato nell’impossibilità di condannare qualcuno e di “esser tenuto per colpevole o responsabile di quello che hanno fatto i suoi vicini o alcuni suoi concittadini o alcuni suoi connazionali”. La colpa e la responsabilità sono considerati come concetti squisitamente giuridici:
“Ma come? Himmler faceva massacrare ebrei a Auschwitz, e noi vorremmo ritenere corresponsabili dei massacri il minatore della Renania o il piccolo borghese di Brema, che magari non sapevano niente di quei massacri, o che, se pure ne erano informati, non potevano fare niente per impedirli?”
Il nazismo quindi non è opera del popolo tedesco ma è soltanto la creazione di un gruppo di criminali “come il cancro che si inserisce nell’organismo vivente”. Compito del popolo tedesco è quello di respingere da sé stesso il ricordo mostruoso del nazismo infatti: “[…] lungi, dall’essere l’autore, fu la vittima del nazismo: la prima vittima, e forse quella che è più da compiangere. Si parli pure di colpa dei tedeschi, se si vuole. Ma è la colpa di chi si lasciò ingannare; non quella di chi ingannò; è la colpa di chi si lasciò sopraffare e opprimere, non di chi sopraffece o oppresse.”180
Una condizione che si può intravedere anche per l’Italia, la società civile e il suo antisemitismo. Quel “niente feci” di cui parla lo storico David Bidussa riguardo al nostro Paese:
“La Shoah in Italia è stata l’ultimo episodio di una vicenda che legislativamente inizia nel 1938 ma che culturalmente si nutre di molti apporti, […] altri presenti a lungo e sotterraneamente nella società civile italiana e nelle sue élite culturali, altri infine che si combinano e si
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determinano anche in relazione a una precisa contingenza. […] Per quest’Italia […] i conti non si pagano mai perché ‘niente feci’. Quel ‘niente’ testimonia del cinismo di chi crede sempre di essere assolto dalla storia […]”181
Tali tipologie di riflessione entrano a far parte della retorica del secondo dopo guerra con forza e il tema delle “colpe” individuali o collettive del popolo tedesco continua a essere predominante in un altro articolo di “Epoca”. L’occasione ancora per riflettere e salvaguardare il popolo tedesco si ripresenta quando viene seguita la vicenda, nella rubrica “Memoria dall’Epoca”, di Fritzsche e del libro che egli stesso pubblica sotto il titolo “La colpa è tutta tedesca?”. Il giornalista delinea la visione del gerarca nazista definendolo “uno dei più grandi imbecilli o è uno dei più grandi bugiardi della storia”. Questi infatti è a capo del servizio della stampa al Ministero della propaganda nazista e viene definito come “vice Goebbels”. Il tribunale di Norimberga lo assolve per “non aver capito niente” riguardo a ciò che sta accadendo intorno a lui e giudica che non ci siano prove sufficienti per ritenere che l’imputato sia a conoscenza dei piani di aggressione di Hitler. Ed è a questo punto che l’articolo si delinea molto chiaro e in corrispondenza con quello esaminato precedentemente. Molto netta è la presa di posizione:
“Ma Hans Fritzsche non è affatto un fanatico. E’ l’uomo più ragionevole del mondo: discute bene, argomenta bene, sia pure con una certa germanica solennità. Egli non nega affatto il valore delle prove addotte al processo. Lo riconosce in pieno. Hitler ordinò stragi, massacri, ecc.? E’ vero: ma io non ne sapevo niente. Furono massacrati milioni di ebrei? E’ vero, me ne son dovuto convincere: ma io non ne sapevo niente.”
L’autore coglie l’occasione per ribadire la logica del pensiero espresso nell’articolo citato precedentemente in quanto se un uomo “in una posizione così eminente” - che deve “essere informato”- non lo è affatto allora come possono esserlo “il vignaiolo della Renania o il minatore della Ruhr o il piccolo borghese di Lubecca?”.
Il leitmotiv si estrinseca ancora nella redenzione del popolo tedesco e nella sua purificazione spirituale dal nazismo:
“Ma il caso Fritzsche è interessante per questo: perché è il caso di una gran parte, di una grandissima parte del popolo tedesco. […] Come è stato possibile che per più anni, milioni di uomini onesti abbiano seguito quell’Hitler che oggi è universalmente condannato? […] come
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mai, un popolo, che aveva raggiunto un alto livello di civiltà, poté seguire un uomo che era evidentemente un pazzo o un criminale.”
L’articolo prosegue con la disamina della parte centrale del libro del gerarca nazista nella quale egli ripercorre le accuse che gli sono mosse al processo difendendosene una ad una. Quelle che qui ci interessano sono la numero undici e la numero dodici che sono quella rispettivamente di antisemitismo e quelle riguardo ai campi di concentramento.
Fritzsche è antisemita nella maniera in “cui auspicava una limitazione della soverchiante influenza dell’ebraismo sulla politica, sull’economia e sulla cultura tedesca” e dalle sue parole, riportate nell’articolo, possiamo intendere quali siano le ragioni addotte da molti gerarchi nazisti al fine di discolparsi dalle azioni commesse nel clima dei processi del secondo dopo guerra:
“Debbo […] dichiarare che non conoscevo l’ordine di Hitler […] secondo il quale gli ebrei dovevano essere uccisi. Anzi sostengo che quest’ordine fu evidentemente tenuto nascosto, con particolare diligenza, tanto alla pubblica opinione quanto a me personalmente. Dico questo, perché, come oggi ho potuto sapere, una volta fui sulle tracce e ne venni sviato con molta sollecitudine. […] Ora, in questo processo è stato detto […] che la popolazione tedesca vedeva fumare le ciminiere nei campi di concentramento e doveva arguire, da quel segno, che là si bruciavano dei cadaveri. Per questo solo fatto, il popolo tedesco sarebbe colpevole. […] che la massa del popolo tedesco non può essere stata informata delle uccisioni che avvenivano in poche e nascoste località, tanto più che esse erano tenute segrete con tanta cura”
La seconda accusa che prendiamo in considerazione è quella sui campi di concentramento. L’imputato crede che sono soltanto tre campi, che i detenuti sono pochi e che sono trattati bene. Solo dopo la fine della guerra, nelle sue ragioni, si apprende che i campi in realtà sono moltissimi:
“Oggi mi trovo di fronte a uno spaventoso enigma, da quando, in prigionia, ho udito le prime notizie, secondo cui, indubbiamente, sono stati perpetrati delitti e commessi maltrattamenti. […] E tanto più vigorosamente deve essere rilevato che anche siffatte pratiche furono possibili soltanto perché vennero con ogni cura tenute nascoste al popolo tedesco. Anche qui vale fu che ciò detto a proposito delle uccisioni di ebrei.”
Il Ricciardetto poi chiosa con l’opinione che ha manifestato sino ad ora. Pur non credendo a una sola parola del gerarca nazista l’articolo:
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“[…] non dimostra affatto che Fritzsche ignorò: ma dimostra che il popolo tedesco poté ignorare e che una gran parte di esso certamente ignorò. E questo è il punto importante.”182
Queste due tipologie di articoli per l’anno 1952 su “Epoca” - nessun altro accenno all’Olocausto è presente sino all’anno 1953 eccetto un articolo su i nazisti titolato “Congedo illimitato per i marescialli di Hitler”183 - portano alla ribalta quale sia il filone
sulle “colpe” degli italiani e quelle, soprattutto, dei tedeschi. In generale nel secondo dopo guerra, ad una umanità italiana viene corrisposta la brutalità tedesca. Nelle pagine esaminate, si parla principalmente di tedeschi e di ”colpe” individuali o collettive. Questa dicotomia - buono italiano/cattivo tedesco - non è rinvenibile in toto negli articoli di ”Epoca”. Non credo sia corretto parlare di tale dualità nelle pagine esaminate: non vi è alcun accenno a una presunta caratteristica delle truppe italiane o al comportamento dell’Italia durante il conflitto, il ”processo” e la discussione si svolge principalmente in nome del popolo tedesco. Quindi i toni rinvenuti nei due articoli sopracitati riportano la discussione a un annoso problema del secondo dopo guerra italiano, quello delle ”responsabilità”. Anche in questo caso la stampa e la pubblicistica italiana preferiscono tacere e minimizzare la complicità avuta dalle truppe italiane in molte azioni di guerra a fianco dell’alleato tedesco e dai metodi di oppressione molto spesso speculari. Uno dei maggiori meriti italiani rivendicati a favore degli italiani è l’aiuto prestato agli ebrei in tutti i paesi occupati. La storiografia si è sbizzarrita in tal senso, sia quella straniera che quella nazionale. In più anche i diplomatici si muovono spinti dalla volontà di raccogliere meriti per l’Italia al cospetto dei vincitori per ”accattivarsi le simpatie degli ambienti americani e britannici”.184 Significativo risulta un passo della mozione votata dal primo
convegno dei Gruppi sionistici italiani, tenuto a Roma nel gennaio del 1945, in cui viene espressa gratitudine per:
“[…] l’opera silenziosa, spesso eroica solidarietà, che tanta parte dell’oppresso popolo italiano, seguendo l’alto esempio umanitario della Chiesa cattolica, ha offerto ai perseguitati d’Italia e ai profughi affluiti da altre parti d’Europa, che in tal modo hanno potuto trovare qui scampo malgrado le barbare leggi naziste.”185
182 A. Guerriero, Memoria dall’Epoca, ”Epoca”, 19 aprile 1952
183 D. Gabrielli, Congedo illimitato per i marescialli di Hitler, ”Epoca”, 25 ottobre 1952
184 G. Schwarz, Ritrovare se stessi. Gli ebrei nell’Italia postfascista, Laterza, Bari, 2004, pp. 129-140 185 ivi, p. 129
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Con ciò la visione generale è quella di un popolo che si è messo in evidenza per la sua generosità rispetto ai crimini perpetrati dalla belva nazista:
“Il presunto ‘sabotaggio’ di massa delle leggi razziali, reso evidente dalla solidarietà popolare verso i perseguitati, così come l’aiuto prestato agli ebrei dai militari italiani nei vari teatri operativi europei, fu presentato da tutti gli organi di comunicazione e delle istituzioni come prova ulteriore dell’abisso che aveva separato il regime fascista dalla nazione italiana, e come segno inequivocabile della differenza incolmabile intercorsa tra l’ Italia, rimasta compassionevole nonostante il fascismo, e il Terzo Reich germanico, protagonista del più atroce sterminio di tutti i tempi.”186
L’occupante tedesco viene così’ raffigurato come “oppressore” e come “atroce presente nemico dell’umanità”187 sia nella definizione di molti intellettuali sia nella stampa, la
letteratura, la pubblicistica dell’Italia liberata. Raffigurazioni come queste trovano riscontro anche nelle immagini prodotte dai processi contro i principali criminali di guerra tedeschi, portati avanti in Italia a partire dal 1946 da tribunali britannici e italiani. Un esempio su tutti, quello condotto contro il feldmaresciallo Kesserling. Nella memoria collettiva italiana questi ha rappresentato il male assoluto. Lo stesso ”Corriere della Sera” - di solito molto pacato nei commenti – titola con forza ”La guerra in Italia si chiamò Kesserling”188 all’apertura del processo di Venezia. La diffusione di questa tipologia di
notizie non fa che aumentare il sentimento di condanna rivolto a tutto il popolo tedesco. Come ha notato uno storico, fino ad allora è stata la convinzione del carattere ”civile ed ideologico” della guerra in corso ad agire ”da contrappeso all’avversione totalizzante dalla quale veniva investito, in quanto tale, il tedesco”. Il comportamento del popolo tedesco, vicino fino alla fine alla figura di Hitler, adesso lo fa saltare189. Il volto del nazismo diviene l’identikit di un intero paese. Per Calamandrei, la ”cicatrice” impressa dai ”ricordi incancellabili” della brutalità germanica avrebbe pesato sugli uomini della sua generazione, vittime dell’occupazione tedesca. Dopo l’ultima guerra dimenticare il male sarebbe stato impossibile. L’esercito tedesco non si è comportato come un regolare
186 F. Focardi, Il cattivo tedesco e il bravo italiano. La rimozione delle colpe della seconda guerra
mondiale, Laterza, Bari, 2013, p. 121
187 B. Croce, Il dissidio spirituale della Germania con l’Europa, Laterza, Bari, 1944, p.63
188 I. Montanelli, La guerra in Italia si chiamò Kesserling, ”Il Nuovo Corriere della Sera”, 9 febbraio 1947 189 C. Pavone, Una guerra civile. Saggio storico sulla moralità della Resistenza, Bollati Boringhieri, Torino,
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esercito e riconciliarsi con quel popolo appare un compito insormontabile al giurista fiorentino:
“Sì, sappiamo anche noi che tutto l’esercito non era composto di questi criminali, di questa spaventosa feccia di guastatori che nella ritirata rimasero ultimi a lasciare nelle nostre terre il ricordo della Germania; e ciascuno di noi continua ad aver tra i tedeschi amici cari, e sa che anche tra loro ci furono le vittime e i ribelli, che inorridirono come noi inorridiamo di questi delitti. Ma quando, anche in Germania, l’epurazione si sarà risolta in una beffa e saranno di nuovo commisti e non distinguibili in uno stesso popolo i nazisti e gli antinazisti, coloro che furono aguzzini nei campi di concentramento e coloro che vi languirono rinchiusi, come faremo a non provare verso quel popolo, con tutta la nostra buona volontà di riconciliazione, il sospetto e il ribrezzo che sale da questi ricordi incancellabili? Ognuno di noi per uno o per altro episodio, porta nella memoria, intravista per un attimo e compresa per tutta la vita, una faccia di carnefice: la fronte sfuggente sotto quell’elmo calcato, il naso rincagnato tra gli zigomi sporgenti, la mandibola prominente: e quegli occhi smorti ed acquosi, senza risposta di umanità. Come sottrarsi al sospetto che nell’untuoso commesso viaggiatore che domani, colla ripresa del commercio internazionale, di nuovo incontreremo in treno vestito di goffi abiti civili, ci tocchi riconoscere con raccapriccio proprio quella faccia da carnefice di cui portiamo nel cuore la immagine come una cicatrice?”190
Il nostro viaggio attorno alla rivista “Epoca” prosegue al 1953. Risultano essere ancora limitati gli accenni all’argomento di questa tesi. Un primo articolo nel gennaio è tratto dalla rubrica “Italia Domanda” nella quale il lettore richiede se vi siano in “questo dopoguerra” degli scrittori nuovi nella letteratura tedesca di “vero interesse”. Oltre a questa domanda, un altro lettore domanda “cosa hanno scritto di veramente buono” i “nostri” scrittori sui “campi di prigionia?”. Nelle risposte curate rispettivamente da un professore ordinario di letteratura tedesca e un critico letterario non si può non notare che non venga citata alcuna opera legata ai campi di prigionia ebraici, nessun lavoro citato nel primo capitolo di questa tesi. L’unico commento che solamente si avvicina al tema è legato ad un’opera di Guido Lopez, peraltro detenuto in un campo di prigionia svizzero: “La narrativa non ci offre meno la possibilità di veder chiaro nel ‘problema dei campi’. Però non siamo sempre nell’orbita disperata convulsa dell’ ‘Univers concentrationnaire’ di Rousset o
190 P. Calamandrei, ”Il Ponte”, III, 8-9, agosto-settembre 1947, p. 826 in F. Focardi, Il cattivo tedesco e il
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de ‘La mort dans l'âme’ di Sartre. Il romanzo di guido Lopez ad esempio […] inclina a un certo ottimismo connaturato forse al giovane scrittore milanese. Il quale, pare allontanarsi, nel corso della narrazione che trascina i lettori nei campi svizzeri […] dalle grosse condizioni della natura umana. La morale del romanzo è la morale dell’ottimismo. Aereo, delicato, umano ottimismo che