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"La ricezione dell'Olocausto in Italia nel secondo dopoguerra"

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Academic year: 2021

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UNIVERSITA’ DEGLI STUDI DI PISA

DIPARTIMENTO DI CIVILTA’ E FORME DEL

SAPERE

Corso di laurea Magistrale in Storia

“La ricezione dell’Olocausto in Italia nel secondo dopoguerra"

Relatore: professor Mario Alberto Banti

Laureando: GIONATA GRASSI

Matricola n.483434

A.A. 2018/2019

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Indice

Introduzione

pag 3

1. Dalle prime testimonianze all’oblio (1945-1955)

pag 7

1.1 Il caso della letteratura da deportazione 1.2 Le prime impressioni: “Corriere d’Informazione” e “L’Unità”

2. Le cause del vulnus editoriale

pag 18

2.1 Le liberal-democrazie si impongono sulla scena

2.2 Gli “italiani brava gente”, tra Resistenza e deportazione 2.3 Nasce lo Stato di Israele

3. La fine del silenzio pag 36

3.1 L’opera di “traduzione” di Meneghello 3.2 Meneghello e Reitlinger

3.3 Le parti di Promemoria

4.Giornalismo del dopoguerra e l’Olocausto in “Epoca” (1952-54) pag 52

4.1 La stampa rinasce 4.2 Il caso di “Epoca” (1952-54) Conclusioni pag 71 Bibliografia pag 78

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Prima del secondo conflitto, la comunità ebraica italiana conta circa 47.000 persone, che si riducono a meno di 30.000 nel secondo dopoguerra. Una perdita così notevole è ascrivibile a svariate cause. Tra i sei milioni di ebrei vittime dell’Olocausto, vi sono anche 6746 ebrei italiani.1 Lo storico Marc Bloch ha elaborato un importante riflessione sulle “false notizie” che si diffondono durante la Prima Guerra Mondiale2. Sono “voci” e

“notizie” che riguardano il comportamento dei nemici e le loro “atrocità”, che si rilevano solo successivamente come frutto di esagerazioni o distorsioni. E’ possibile in questo senso creare un parallelismo tra le “false notizie” che circolano durante e dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale sul trattamento e gli orrori dei campi e dei massacri riservati e agli ebrei e ad altre numerose categorie e la riflessione dello storico francese sulla Grande Guerra. Di fatto per il celebre storico: “L’errore si propaga, si amplifica […] in esso gli uomini esprimono inconsciamente i loro pregiudizi, gli odi, i timori, tutte le loro forti emozioni “.3 Tale confronto può gettare luce sulla frattura epistemologica

segnata dall’Olocausto nel contesto europeo. Di ciò sono consapevoli sia i carnefici, che sminuiscono o negano la portata dello sterminio, sia le vittime che temono di non essere credute e nemmeno ascoltate. Primo Levi scrive laconicamente che “la memoria umana è uno strumento meraviglioso ma fallace”4 e richiama alla cautela, soprattutto quando la

memoria è quella di un evento doloroso, soggetta non solo all’usura del tempo, ma ai meccanismi di sollievo psicologico della rimozione infatti “[…] chi è stato ferito tende a rimuovere il ricordo per non rinnovare il dolore”.5 L’Italia eredita un enorme bagaglio di

questioni irrisolte in merito ad essa, alle proprie responsabilità storiche e al proprio futuro dopo la guerra. Questo lavoro intende dare un’immagine della ricezione dell’Olocausto in Italia nei primi anni del secondo dopoguerra sia attraverso dinamiche e congiunture storiche sia attraverso, come vedremo in seguito, l’analisi di un periodico. Ho individuato

1 L. Picciotto Fargion, La liberazione dai campi di concentramento e il rintraccio degli ebrei italiani

dispersi, in M. Sarfatti (a cura di), Il ritorno alla vita: vicende e diritti degli ebrei in Italia dopo la seconda guerra mondiale, Giuntina, Firenze, 1988

2 M. Bloch, La guerra e le false notizie. Ricordi (1914-1915) e riflessioni (1921), Fazi Editore, Roma, 2014 3 Ivi, p. 106

4 P. Levi, I Sommersi e i Salvati, Einaudi, Torino, 2007, p. 13 5 Ivi, p. 14

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due momenti fondamentali che scandiscono la vita e l’essenza del fenomeno per quanto concerne il caso italiano e che coprono indicativamente il periodo che va dalla metà degli anni Quaranta sino alla metà degli anni Cinquanta. In un primo momento, subito dopo la liberazione dei campi di concentramento, nella primavera del 1945, appaiono le prime testimonianze ma pochissime di esse riscontrano interesse fra i lettori. Queste pubblicazioni sono dettate principalmente dal bisogno di raccontare, dal bisogno di esorcizzare quella “pena desolata” e quel “dolore allo stato puro” che abitano dentro ogni sopravvissuto6. In un secondo momento, che va dai tardi anni Quaranta ai tardi anni Cinquanta, si diffonde una profonda indifferenza se non un totale silenzio. Di particolare interesse per questa ricerca è il lasso di tempo che va dal 1948 al 1952. Il 1948 è una data spartiacque tra la parola e il silenzio. Un vulnus nel sistema editoriale riguardante l’Olocausto. A partire da quell’anno nessun titolo sino al 1952, eccetto il libro di Gino Pezzani Notte e nebbia! Odissea nei campi di orrore della Germania.7 Una cesura quantomeno curiosa e degna di attenzione che finisce per interrompere quell’ “emorragia di espressione” di cui ha parlato Robert Antelme.8 Ho individuato alcuni elementi per

interpretare questo vuoto. Per quanto riguarda i fattori “interni” bisogna poter considerare il silenzio come una causa fisiologica, necessaria, prima di riprendere il filo del ricordo.9

D’altronde è stato proprio lo scrittore Jorge Semprun a dire che “bisogna dimenticare per poter ricordare”.10 A ciò si può collegare il difficile reinserimento degli ebrei italiani

nella società attraverso alcuni compromessi11 e alle difficoltà da parte dei sopravvissuti di emergere come categoria sociale degna di attenzione. Si sta formando il mito del ”bravo italiano”. Sta avvenendo un processo di re-identificazione comunitaria e nazionale attraverso l’elaborazione di un'ideologia innocentista: gli italiani sono ”vittime” di una guerra voluta dal duce e l’antisemitismo non è che una parentesi circoscritta a quel regime. Tale paradigma interpretativo si inserisce negli scenari internazionali del periodo della ricostruzione. Se da una parte il discorso antifascista si nutre delle prime testimonianze dei prigionieri in quanto sono espressione di sofferenze ”politiche” e non,

6 P. Levi, Se questo è un uomo, Einaudi, Torino, 1989, pp. 53-54

7 A. Bravo, D. Jalla (a cura di), Una misura onesta. Gli scritti della memoria della deportazione dall’Italia

1944-93, Angeli/ANED, Milano, 1994

8 R. Antelme, La specie umana, Einaudi, Torino, 1989

9 A.Bravo, D. Jalla (a cura di), Una misura onesta. Gli scritti della memoria della deportazione dall’Italia

1943-93, Angeli/ANED, Milano, 1994, p. 65

10 J. Semprun, Il Grande viaggio, Einaudi, Torino, 1960, p. 160

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almeno inizialmente, ”razziali ” è proprio quando tale narrazione egemonica incontra alcune difficoltà (1948- 1952) che si può individuare il blocco della pubblicistica. Per quanto riguarda le cause ”esterne” una riflessione particolare e che ho collegato al silenzio di produzione in materia di Olocausto, è quella portata avanti recentemente da Giovanni Orsina in un suo recente libro12. Le liberal-democrazie si impongono nel secondo dopo guerra come modello più conveniente da seguire, dopo le dinamiche di guerra, pur con vari contrappesi e su basi etiche precarie. Da ciò il sopravvissuto manda in frantumi la realtà quale la si conosce. Vi è una tendenza generale a considerare chiuse le vicende della guerra e ad archiviare le sofferenze. Chi fa il contrario si scaglia contro quel ”profondo desiderio di normalità”13 che adesso il cittadino occidentale richiede con forza.

Il blocco della pubblicistica si lega indissolubilmente a tale concetto e si connota, per la coincidenza del lasso temporale, con l’inserimento dell’Italia nel Piano Marshall e nel patto Atlantico (1947-49) e più in generale con il precipitare delle dinamiche della Guerra Fredda. La narrazione sugli orrori dei nazisti, in quel momento, non va di pari passo né si amalgama con il nuovo clima di inclusione della neo-nata Repubblica Federale Tedesca nel blocco occidentale. Il 1948 è anche la nascita dello Stato di Israele. Molto sappiamo di quanto l’Olocausto abbia plasmato la storia e la costruzione dell’identità dello Stato ebraico. Non c’è stato conflitto in Israele, dal 1948, che non sia stato percepito, definito e concettualizzato in termini di Olocausto.14 Ma la domanda che qui mi preme cogliere è un’altra: è possibile mettere in relazione il blocco delle pubblicazioni analizzato con la poco definita posizione del neo-Stato nei rapporti con l’Italia? Data l’importanza che tale paese ha avuto nelle vicende italiane, un esempio che ci può aiutare a capire tale dinamica sono i contrasti che nascono, nello stesso tessuto sociale della società israeliana, tra chi difende il sionismo come i sabra, i nati nella Terra Promessa, e gli immigrati e superstiti dell‘Olocausto che vogliono denunciare le falle di quel prodotto teorico che “aveva dimostrato la propria impotenza“15 di fronte allo sterminio cercando di inserirsi, non senza

difficoltà, nella nuova comunità. Oltre a provare a rintracciare alcune cause, mi è sembrato lecito portare all’attenzione un caso particolare che è quello della rivista

12 G. Orsina, La democrazia del narcisismo. Breve storia dell’antipolitica, Marsilio Editori, Venezia, 2018 13 T. Judt, Postwar. La nostra storia 1945-2005, Editori Laterza, Bari, 2017, p. 107

14 I. Zertal, Israele e la Shoah. La nazione e il culto della tragedia, Einaudi, Trento, 2007

15 T. Segev, Il settimo milione. Come l’Olocausto ha segnato la storia di Israele, Mondadori, Milano,

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“Comunità” e dei tre articoli ivi scritti da Luigi Meneghello, partigiano, accademico e scrittore italiano. In questo contesto egli che, all‘epoca, vive ed insegna a Reading, comincia a scrivere regolarmente per Zorzi, direttore della rivista dal 1952, con lo pseudonimo di Ugo Varnai. I tre articoli sono intitolati Lo sterminio degli ebrei d’Europa, e sono composti da circa diciannove dense pagine dedicate a diverse fasi o aspetti dell’Olocausto: dalle origini alle operazioni degli Einsatzgruppe del 1941-42; l’industria della morte dei campi di concentramento, il ruolo dell’Italia e di altri paesi con tabelle e statistiche e dati riferenti lo sterminio.16 Questi articoli sono molto importanti e, a mio avviso, contribuiscono a rompere il silenzio di cui ho parlato sin ora fornendo un interessante case study sia sulla conoscenza dell’Olocausto in Italia in generale sia nelle dinamiche di trasmissioni editoriali di un fenomeno così complesso e transnazionale. Nell’ultima parte dell’elaborato focalizzo la mia attenzione sugli anni immediatamente dopo il 1952, in particolare sul settimanale ” Epoca”, e sull‘interesse, in quegli anni, riguardo l’Olocausto. Gli anni del dopo-guerra vedono un boom delle riviste patinate e del settore dei periodici17. Una statistica in questo senso è interessante per capire se

effettivamente, ci sia stato nel periodo di maggiore diffusione di questo tipo di periodico, quel ”disgelo” editoriale a cui ho accennato precedentemente. Infine, nelle Conclusioni, rifletto su alcuni aspetti della memoria e sulle linee che intervengono al momento dell’arrivo dell’ ”era del testimone”18 all’interno del mutamento culturale degli anni

Sessanta.

16 L. Meneghello, Promemoria: lo sterminio degli ebrei d’Europa 1939- 45, il Mulino, Bologna, 2004 17 V. Castronovo, N. Trafaglia, La stampa italiana dalla Resistenza agli anni sessanta, Laterza, Roma,

1980, pp. 216-17

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1.Dalle prime testimonianze all’oblio (1945-1955)

1.1 Il caso della letteratura da deportazione.

Il quadro storico descritto nell’ Introduzione è qui analizzato in un suo specifico aspetto qual è la memorialistica prodotta dai sopravvissuti all’Olocausto e pubblicata in Italia a

partire dal 1945.

Esistono molti modi per andare a ricostruire i tempi dello strutturarsi della memoria dell’Olocausto all’interno del contesto italiano. I luoghi, i monumenti, le commemorazioni, le immagini, costituiscono i diversi percorsi attraverso cui è possibile individuare i dispostivi tramite cui la memoria dell’Olocausto si è strutturata nel corso dei decenni successivi al 194519. Tuttavia, in questo paragrafo, il motivo che mi ha spinto

a focalizzare l’attenzione su questa particolare espressione culturale risiede nel fatto che la memorialistica dà spazio al ricordo personale e al tempo stesso alla figura che espone la sua storia, ovvero il testimone. Questa tipologia letteraria richiama direttamente sia la consapevolezza dello sterminio sotto forma di testimonianza sia la questione di come e cosa viene ricordato in questi testi che, ciascuno con la propria peculiare cifra stilistica e contenutistica, sono accomunati da una componente mnemonica inevitabile per il sopravvissuto. In tal modo, andando ad indagare in questo particolare campo di “memoria dell‘ Olocausto” attraverso questo tipo di letteratura, è possibile chiarire con maggiore immediatezza i procedimenti che stanno alla base della trasmissione e trasformazione dell‘ Olocausto in Italia da un immediato bisogno di raccontare sino ad una fase di oblio e, solo successivamente, ad una sua acquisizione dentro il discorso pubblico italiano. Censire e radunare tutti gli scritti della memoria non è un’impresa semplice ma allo stesso tempo è un passaggio obbligato. Jalla e Bravo hanno esteso la ricerca alle opere dei testimoni e ciò ha consentito di portare alla luce manoscritti che non sono riusciti a trovare editori. I due autori danno notizia di centoquarantasei volumi, molte decine di articoli tratti da riviste specializzate e di cinquanta manoscritti inediti sino agli anni Novanta. Per ciò che ci interessa, tra il 1945 e il 1947 ne vengono editi cinquantacinque sotto forma di

19 R. Robin, Luoghi della memoria, luoghi del lutto: istituzioni e commemorazioni, in M. Cattaruzza, M.

Flores, S. Levis Sullam, Enzo Traverso (a cura di), Storia della Shoah. La crisi dell’Europa, lo sterminio

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volumi o pamphlet, a firma di ebrei, deportati politici e militari o di giornalisti e romanzieri. Di questi, quarantasette escono nel 1945 e nel 1946 e solo otto nel 1947.20 Tale lavoro mi ha premesso di isolare anche il periodo di silenzio che va dal 1948 al 1952. Ma soprattutto offre una gran mole di lavoro allo storico e smentisce il luogo comune che i sopravvissuti non abbiano raccontato. È il caso di ricordare che la stessa testimonianza è un’impresa a rischio21. Gli stessi due autori, in un’altra pubblicazione, ci mettono in

guardia riguardo al valore della testimonianza:

“[…] alla debolezza fisica e all’ansia continua, al bisogno totale di dosare il trauma di vedere e sentire, alla necessità di concentrarsi prima di tutto sullo sforzo di sopravvivere […]

E l’esperienza è tale che gli stessi prigionieri:

“[…] per primi stentano a crederla vera e a considerarla reale, che è impossibile ancorala a schemi mentali preesistenti.”22

Man mano che i superstiti rientrano dai campi cominciano le prime testimonianze. Alle confessioni rivolte a parenti ed amici cominciano ad avvicendarsi le prime interviste, interventi sui giornali e le prime pubblicazioni. Se tornare era stato il sogno di tutti, adesso bisogna lottare contro quel timore di non essere ascoltati e creduti.23 Una paura che molto

spesso si traduce in realtà come testimonia, nelle sue memorie, Vittorio Foa, ebreo italiano e uno dei giovani animatori di Giustizia e Libertà. Nel 1945 scrive che l’atmosfera politica, culturale e psicologica che regna nel paese non permette di cogliere il significato dell’Olocausto:

“Tornavano i superstiti, uno su cento, dai campi di sterminio. Raccontavano e cominciavano a scrivere cose inimmaginabili sulla disumanità del potere e sull’organizzazione scientifica della morte, ma questi racconti non toccavano la nostra gioia di vivere finalmente nella pace. Non si spiega facilmente il fatto che il libro di Primo Levi, Se questo è un uomo, ha trovato difficoltà per la pubblicazione: si temeva di turbare un sollievo collettivo, col rischio di cadere nell’omertà”.24

20 A. Bravo, D. Jalla (a cura di), Una misura onesta. Gli scritti di memoria della deportazione dall’Italia

(1944-1993), Angeli/ANED, Milano, 1994

21 B. Bettelheim, Il prezzo della vita. La psicoanalisi e i campi di concentramento nazisti, Bompiani,

Milano, 1976, p. 95

22 A. Bravo, D. Jalla (a cura di), La vita offesa. Storia e memoria dei lager nazisti nei racconti di duecento

sopravvissuti, F. Angeli, Milano, 1987, p. 26

23 P. Levi, I sommersi e i salvati, Einaudi, Torino, 2007, p. 3

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I problemi dei superstiti e le loro attese vanno a scontrarsi col contesto generale dei drammi di guerra, teso ad attenuare o a minimizzare il carattere estremo della loro esperienza:

“E chi ti ascoltava - ma poi in realtà non ti ascoltava perché anche lui aveva la sua storia dentro ( ‘ma anche noi, sa, i bombardamenti, le paure, il freddo, non creda, sa? Anche noi...’) e posto per la tua non ce n’era”.25

E’ in questo orizzonte che escono con ritmo serrato i primi libri di memoria del lager: undici nel 1945, quattordici nel 1946, tre nel 1947. Numeri e date sono significativi. All’indomani del ritorno i sopravvissuti raccontano, e quasi, immediatamente scrivono. A ben guardare, sino alla stasi del 1948, i numeri dicono anche altro. Denunciano, come del resto hanno fatto molte testimonianze in questi anni, quel corpo a corpo cui questa memoria è costretta. Primo Levi si sente uno “squilibrato innocuo” agli occhi dei suoi colleghi appena rientrato dall’esperienza di Auschwitz. Si sente isolato e le persone che gli stanno attorno sembrano prese dai loro pensieri, dalla ricostruzione, dalle difficoltà e la fame della guerra. Ecco che l’impulso a scrivere, hic et nunc, diviene fondamentale per la predisposizione mentale del superstite, quasi fosse un presagio a un futuro speranzoso: “Ma io ero tornato dalla prigionia da tre mesi, e vivevo male. […] Mi pareva che mi sarei purificato raccontando […] Scrivevo poesie concise e sanguinose, raccontavo con vertigine, a voce e per iscritto, tanto che a poco ne nacque poi un libro: scrivendo trovavo breve pace e mi sentivo ridiventare un uomo, uno come tutti, né martire né infame né santo, uno di quelli che si fanno una famiglia, e guardano al futuro anziché al passato.”26

Il libro di cui parla è naturalmente Se questo è un uomo e basti ricordare che viene respinto da Einaudi nel 1947, e a opera di una redattrice come Natalia Ginzburg. L’opera uscirà presso la piccola casa editrice Da Silva solo successivamente. Questa vicenda è indicativa in quanto a pubblicare le prime testimonianze sono, quasi esclusivamente, piccoli editori, se non semplici tipografie, capaci di far prevalere la solidarietà umana rispetto alle esigenze del mercato. Tale inerzia della cultura non è un’anomalia nel contesto del periodo: apparato statale e società civile né capiscono né sostengono i sopravvissuti e le loro famiglie né considerano lo sterminio come evento storico cruciale minimizzando il

25 G. Melodia, La quarantena. Gli italiani nel lager di Dachau, Mursia, Milano, 1971, p. 23 26 P. Levi, Il sistema periodico, Einaudi, Torino, 2014, p. 143

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coinvolgimento del paese. Ma questo lo vedremo meglio successivamente. Quel che mi preme sottolineare è che, almeno in un primo momento, c’è stata una significativa produzione di memorie e scritti sui campi di concentramento. I testi assumono subito forme molto diverse. Taluni sono resoconti, nella forma del rapporto. Ne è un esempio il reportage sulle condizioni igieniche e sanitarie del campo di Monowitz-Auschwitz III pubblicato sulla rinomata rivista medica “Minerva” nel 1946. Con sobri e scrupolosi dettagli tecnici, il testo descrive le condizioni mediche in cui vivono i prigionieri, la loro dieta e la loro situazione sanitaria. Il rapporto è un’importante dimostrazione della varietà di forme di basso profilo in cui le informazioni circolano in quel periodo.27 Altre tipologie di racconto vanno dall’autobiografia alla testimonianza sino al romanzo breve o all’album di disegni. In tutto questo corpus eterogeneo, si incomincia a intravedere un parallelismo tra la Resistenza armata e la deportazione. Ne è un esempio il libro di Francesco Ulivelli , detenuto nel campo di Bolzano:

“Noi oggi sentiamo il gusto della vittoria, lo sentivamo noi che marciavamo nei campi di concentramento, come lo sentivano i nostri Partigiani […] quando marciavano e si scaldavano al fuoco dei bivacchi.”28

Sono due anime che si saldano nel medesimo racconto e sono le stesse che affiorano negli schizzi in cui Giovanni Baima Besquet, dal sanatorio dove è ricoverato, illustra la sua situazione, esternando brevi commenti sotto le immagini:

“Ho tracciato questi schizzi quantunque l’animo mio rifuggisse dal vivere, sia pure per un attimo, il nostro calvario, iniziatosi per me con l’arresto a Torino insieme a Luigi Capriolo, Eroe della Liberazione, il 17 ottobre 1943. È un semplice documentario di vita realmente vissuta, senza pretesa di fare un’opera di pregio artistico, ma per illustrare il Martirio e le incredibili atrocità patite dai deportati italiani e delle altre nazioni, fatto in omaggio alla Memoria dei Compagni Caduti per amore della libertà”.29

Per i deportati politici italiani il campo più tristemente famoso è quello di Mauthausen. Ce ne dà un’impressione molto forte Bruno Vasari, militante dell’organizzazione Giustizia e Libertà, che, appena giunto in Italia dopo la liberazione del campo, si mette

27 P. Levi, L. De Benedetti, Così fu Auschwitz. Testimonianze 1945-1986, Einaudi, Torino, 2015 28 F. Ulivelli, Bolzano anticamera della morte, Edizioni Stellissima, Milano, 1946, p. 9

29 G. B. Besquet, Deportati a Mauthausen: 1943-1945, S.A.N., Torino, 1946, p. 5 in A. Bravo, D. Jalla, Una

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subito a redigere la sua testimonianza pubblicata nell’agosto del 1945. Mauthausen, bivacco della morte, lontana dall’invettiva e aliena da qualsiasi registro letterario, ricorda piuttosto la deposizione in giudizio con fatti, date e numeri.30 La compressione temporale del racconto è tesa a riflettere la crudeltà raggiunta dal sistema nazista organizzato scientificamente alla distruzione di una diversa forma di umanità. Nel libro possiamo cogliere anche un‘ attenzione ai deportati che arrivano al campo di detenzione da altri campi assai più “celebri “, come Auschwitz. In seguito all‘offensiva russa, sono organizzate dai tedeschi le così dette “marce della morte”. Gli internati superstiti sono costretti a mettersi in cammino verso l’Occidente e, coloro che sono troppo deboli o malati per proseguire, vengono fucilati a migliaia. Dei 66.000 evacuati da Auschwitz perdono la vita circa 15.000 persone31:

“I segni degli orrori di questa desolata marcia erano impressi nel corpo di questi sventurati ebrei […]32 ; il giorno 1 febbraio vidi 1.500 di essi completamente nudi, gementi, con le piaghe che

grondano sangue e materia, tenuti in piedi al freddo […]33

Anche sotto il profilo della forma e del linguaggio, alcuni dei primi resoconti sono efficacemente tormentati e complessi, per l’impossibilità di tradurre in chiari termini realistici un’esperienza così traumatica. A conferma di ciò possiamo considerare Un quaderno di Buchenwald di C. Cohen. L’autore in questo caso utilizza il vecchio artificio letterario del manoscritto ritrovato, in questo caso un diario di internamento lasciato nel campo da un sopravvissuto dopo la guerra, ponendo problemi nuovi che negli anni avvenire anticiperanno l’Olocausto come profonda fattura o perdita ontologica. La perdita di identità e la dissoluzione, la memoria, la conoscenza di sé sono tutti temi cari a questa opera.34 Aldo Bizzarri invece sottolinea non solo il fallimento del linguaggio ma una frattura ben più profonda radicata nell‘essere chiedendosi “che senso ha questa storia? “e immediatamente rispondendosi “nessun senso, nessuna ragione “a sottolineare l‘impresa ardua di dare un senso logico a quegli accadimenti. Egli, nella sua opera, punta soprattutto sull‘informazione e su un‘acuta analisi sociologia del “sistema“ concentrazionario, che

30 B. Vasari, Mauthausen, bivacco della morte, La Fiaccola, Milano, 1945, p. 50

31 W. Laqueur, A. Cavaglion (a cura di), Dizionario dell’Olocausto, Einaudi, Torino, 2007, p. 452 32 B. Vasari, Mauthausen, bivacco della morte, La Fiaccola, Milano, 1945, p. 24

33 ivi, p. 38

34 C. Cohen, Un quaderno di Buchenwald, Toso, Torino, 1945 in R. S. Gordon, Scolpitelo nei cuori.

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combina riserbo analitico ed emozione catartica presentandola come “un documentario, sintetico e doveroso “in contrasto con la parte emotiva, se così si può chiamare, “di un‘ esibizione, più o meno romanzata, di ricordi personali.“35 Accanto a questi autori -

testimoni appaiono anche quelli di coloro che non sono stati nei campi ma che sentono il bisogno di provare a descriverli. Merita una menzione Il popolo piange di Giancarlo Ottani. Essendo un giornalista, l‘opera cita fonti di prima e seconda mano soprattutto dalla stampa, cronache e storie di ebrei in uno stile che lo stesso autore definisce come “stile giornalistico: rapido, sintetico.“36 La lotta per trovare una forma e un tono in grado sia di

contenere la realtà dei campi sia di integrarla nel senso della sua enormità, è l‘elemento unificatore nella complessità eterogenea di questi testi. La narrativa e la forma letteraria, quindi, hanno accompagnato sin dagli esordi l‘emergere del corpus privato e semi-privato che ho descritto, come nel caso di Ottani o Bizzarri, o nei resoconti in prima persona alle prese con una ricerca formale o perfino nelle elaborazioni letterarie più complesse. La confusione dei primi anni del dopoguerra si riflette in tutte queste forme scritte per dare forma e una rappresentazione all‘Olocausto. Tutto ciò avviene in una tensione costante con gli schemi testuali e i modi di esprimersi.

1.2 Le prime impressioni: “Corriere d’ Informazione” e “L’Unità”

I giornali sono mezzi di comunicazione importanti per capire le dinamiche di trasmissione dello sterminio. Nell’Italia che esce dalla guerra e che cerca di creare una memoria comune, la stampa ha svolto un ruolo proprio in questa funzione: ha creato matrici di pensiero e di giudizio che fossero comuni a tutti gli italiani, che facessero leva sulla società e sull’identità nazionale. Per permettere questo è necessario ripartire da zero e cancellare le divisioni del passato.37 Oltre a ciò, grazie ad alcuni articoli usciti dopo la Liberazione nell’aprile del 1945, possiamo ben capire il clima e la retorica che la stampa, in questo caso, e i principali partiti assumono per posizionare l’Italia al centro delle nuove alleanze dei vincitori della guerra. Un atteggiamento volto ad esaltare il popolo italiano e la sua impresa di aver rotto le catene della tirannide fascista. Una mancata presa di

35 A. Bizzarri, Mauthausen città ermetica, O.E.T., Roma, 1946

36 G. Ottani, Un popolo piange. La tragedia degli ebrei italiani, Giovene, Milano, 1945, p.5

37 G. Savellini, Giornalismo del dopoguerra. Tra memoria e rimozione, Odoya, Bologna, 2009, pp.

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coscienza delle co-responsabilità e dell’assuefazione a un regime criminoso e come scrive uno storico:

“[…] così all’epoca della Liberazione la maggioranza delle popolazioni locali fu sollecitata a trovare in tutta fretta un qualsiasi modo di identificarsi con i vincitori.”38

Un’ impasse del genere si può riscontrare, nel più autorevole e importante organo di informazione nel panorama giornalistico italiano, “Il Corriere della Sera”, tornato nelle edicole nella primavera del 1945 come “Corriere d’Informazione”, sotto la direzione di Mario Borsa.39 Interessante è un articolo pubblicato da quest‘ultimo, qualche mese dopo, all‘indomani della conferenza di Potsdam (17 luglio - 2 agosto 1945), dove il giornale si schiera a favore della richiesta del governo Parri di un riconoscimento per l‘Italia dello status di alleata al fianco delle Nazioni Unite. L‘Italia è degna di tale posto per varie ragioni:

“[…] Anzitutto sarà bene ricordare che il fascismo non è mai stata la sincera espressione della volontà del nostro popolo. Tutti coloro, e furono centinaia di migliaia, che nei venti anni della parentesi mussoliniana, hanno sofferto e in galera, e nelle isole, e nei campi di concentramento e in esili, sfidando le persecuzioni, la fame e la morte, stanno ad attestare che l’Italia liberale e democratica non era mai morta e che se non han potuto insorgere per risorgere fu solo perché una forza bruta la teneva sotto i piedi. Quando il 25 luglio 1943 questa forza bruta venne meno, vi fu una tale esplosione di esultanza […] “40

Una lettura esplicativa del ruolo che il Paese intende ritagliarsi negli anni avvenire, un’identità che lo vede “vittima” dell’oppressione fascista. Oltre a ciò vengono nominati i “campi di concentramento” e questo ci dà un’idea del rilievo che il giornale darà alle testimonianze degli ex deportati politici dei lager. Uso questa terminologia “deportati politici” perché è difficile trovare, in questa fase, nel “Corriere”, dei riferimenti specifici allo sterminio degli ebrei. Una studiosa osserva come nell’opinione pubblica del tempo sussiste una grande differenza tra i deportati politici e gli ebrei, infatti:

“[…] I deportati politici furono considerati e si considerano fin dall’inizio i più simili ai partigiani, non solo perché molti di loro lo erano stati, ma anche perché comunque pagavano nel lager il prezzo, in qualche modo messo in conto, di una consapevole scelta antifascista compiuta

38 M. Battini, Peccati di memoria. La mancata Norimberga italiana, Laterza, Bari, 2003, p. 150 39 G. Licata, Storia del Corriere della Sera, Rizzoli, Milano, 1976, pp. 396- 419

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in precedenza. Quest’ultima li differenziava sia dagli ebrei, che entravano nel campo di sterminio per ciò che erano, non per ciò che facevano, sia dagli internati militari, che erano prigionieri di guerra […] Il deportato politico era stato un resistente, un protagonista attivo della lotta di Liberazione, non una vittima: poteva quindi legittimamente rappresentare la deportazione.”41 Prima che il giornalista Enrico Caprile segua come corrispondente il processo di Norimberga, il “Corriere” assimila gli ebrei a tutti gli altri prigionieri del lager. In particolare, è solo nel dicembre del 1945, quando al processo si inizia a discutere di persecuzioni antiebraiche, che il giornalista del “Corriere” ne parla, in due contributi, senza privare il genocidio ebraico della sua specificità. Il primo parla apertamente della persecuzione, della deportazione e dello sterminio degli ebrei. Vi sono riferimenti sia alla fine degli ebrei ungheresi, alla conferenza di Wannsee nel quale “fu deciso l’annientamento della popolazione ebraica dei territori occupati” e alla “terribile macchina della morte” che funziona spietatamente. Il servizio si conclude con alcuni episodi raccapriccianti avvenuti nel lager. L’articolo, pubblicato in prima pagina il 14 dicembre 1945, titola “Il metodo Kugel per lo sterminio dei prigionieri”.42 La seconda corrispondenza è incentrata sulla distruzione del ghetto di Varsavia. Nella parte iniziale dell’articolo si pone l’accento e si specifica ancora ”delle persecuzioni naziste contro gli ebrei” ma in questo senso la ”suprema corte” sta portando alla luce ”nuove interessanti testimonianze” per precisare ancora meglio e lumeggiare le responsabilità storiche dei fatti. Successivamente il focus si concentra sulla malvagità delle SS tedesche:

“[…] nessuna considerazione umana e nessun sentimento di pietà trovarono posto nell’animo di quei carnefici in uniforme militare. Essi si accanirono contro uomini e donne ebree con tale odio che non è possibile comprendere e riferire. La scienza veniva posta al servizio della barbarie […] uomini di questa fatta non potranno più essere rieducati. Essi impesteranno del loro male tutto il popolo tedesco e tutta l’Europa.”43

Interessante è la linea che Sara Fantini, in un suo libro, ha individuato per quanto concerne questo giornale. Secondo l’autrice l’uso molto frequente di termini quali “massacratori”, “aguzzini”, “carnefici” e “belve” nei vari articoli contribuisce a creare una linea di

41 A. Rossi-Doria, Memoria e storia: il caso della deportazione, Rubbettino, Catanzaro, 1998, p. 38 42 E. Caprile, Il metodo ”Kugel“ per lo sterminio dei prigionieri, ”Corriere d’Informazione”, 14 dicembre

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demarcazione tra i colpevoli che “sono fatti regredire allo status di mostri” e gli uomini che possono considerarsi normali.44 Ciò lo intuiamo bene in un articolo del 30 maggio firmato da Borsa e intitolato ”Ad redde rationem” in cui prende vita una descrizione della personalità del tedesco. Egli quando “si immedesima nella sua ordinata organizzazione statale” diviene un maniaco affetto da una “malattia nazionale” che sembra “incurabile“.45

Ne deduciamo la concezione che è l‘idealtipo di tale tedesco, slacciato dalla società contemporanea, che si è fatto risucchiare dal nazionalsocialismo e le sue terribili azioni. Un famoso sociologo attribuisce questo tipo di prefigurazione mentale a sentimenti difensivi e auto-assolutivi, infatti:

“L’ipotesi secondo cui i responsabili dell’Olocausto rappresentano una ferita o una malattia della nostra civiltà e non il suo prodotto terrificante ma coerente sfocia non soltanto nella consolazione morale dell’autoassoluzione, ma anche alla tremenda minaccia dell’inerzia morale e politica. Quanto più < loro > sono colpevoli, tanto più < noi > siamo integri e tanto meno dobbiamo preoccuparci di difendere questa integrità”.46

Per finire sul “Corriere”, pur offrendo ai propri lettori notizie nuove sullo sterminio e pur avendo il merito di aver parlato di alcuni racconti drammatici, le realizzazioni del giornale risultano disorganiche e deficitarie sulle spiegazioni dei fatti. Non vi è alcun accenno alle responsabilità del regime fascista, ma questo è un fatto che si riscontra anche a livello generale e nazionale. Nella stampa italiana del periodo non ci si imbatte in articoli che trattino delle responsabilità del governo e dei funzionari e cittadini italiani nel compimento della Shoah. I meccanismi dell’oblio sono entrati in funzione e neanche il processo di Norimberga riesce a invertire la rotta infatti, al suo interno:

“[…] fu posta tutta l’enfasi sulle sole colpe naziste – anzi sulle colpe di un pugno di gerarchi nazisti – oscurando le responsabilità di altri regimi e altri popoli, ma fu anche distorta la percezione della natura storica peculiare delle politiche antisemite che maturarono in Europa ben prima dell’inizio del conflitto. Tutto ciò naturalmente giovava agli interessi dell’Italia e si incontrava felicemente con gli interessi psicologici e i meccanismi di autorappresentazione di

44 S. Fantini, Notizie dalla Shoah: la stampa italiana nel 1945, Pendragon, Bologna, 2005, p. 80 45 M. Borsa, Ad redde rationem, ”Corriere d’Informazione”, 30 maggio 1945.

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una nazione sconfitta e che pure rivendicava, con grande energia, la sua purezza, la sua ‘ naturale ‘ vocazione antifascista”.47

Un’altra fonte di analisi è l’organo ufficiale del Partito Comunista Italiano, “L’ Unità”. Come è stato accennato prima, in questo contesto storico, lo sterminio degli ebrei è in qualche modo assimilato alla tragedia degli oppositori politici e di regime. Il quotidiano comunista, come in generale la stampa antifascista, si sofferma sulla sofferenza dei propri militari nei campi d’internamento, senza riguardo per l’appartenenza religiosa o razziale. L’editoriale di Velio Spano, pubblicato in prima pagina, dimostra l’acceso interesse del giornale per l’argomento. Il direttore, con non poca lungimiranza, anticipa, poco dopo la fine delle ostilità, il problema dei prigionieri italiani in Germania e della possibilità che tale argomento possa diventare un motivo di discordia, o quantomeno porre molti interrogativi, nei confronti sia degli alleati che degli italiani stessi. Per Spano è giunto il momento:

“[…] di domandare se ci sia oramai più ragione che i nostri prigionieri restino ancora in cattività. I prigionieri sono, è vero, dei soldati che hanno combattuto al servizio di Hitler e di Mussolini contro le Nazioni Unite; Ma essi non sono in ciò differenti da tanti di quei soldati appartenenti alle divisioni italiane che si battono a fianco degli alleati e si battono secondo lo stesso insospettabile giudizio dei più autorevoli capi inglesi o americani, ammirevolmente. “ L’articolo continua invocando una più calorosa accoglienza per i reduci e per quel “milione di ragazzi preziosi per l’avvenire” che hanno sofferto una guerra dura e cruenta in condizioni di vita “assolutamente artificiali”. L’invocazione finale alla ricostruzione e

a “tracciare il proprio avvenire” fornisce la comprensione dello spirito di quegli anni.48

“Quelli che tornano“49, insomma, iniziano a testimoniare l‘organizzazione politica

all‘interno di quei campi, l‘antifascismo va costruendosi a discapito della figura dell‘ebreo che non è visto come una categoria a parte. Tra questi vi è anche Giuliano Pajetta, futuro deputato del Partito Comunista Italiano, che tornato dal campo di concentramento di Mauthausen rilascia un‘intervista al giornale in cui illustra la sofferenza degli uomini e i loro “sentirsi degli uomini, dei compagni“. Egli afferma che pure in quei campi della morte vi è spazio per potersi organizzare politicamente e con

47 G. Schwarz, Ritrovare se stessi. Gli ebrei nell’Italia postfascista, Editori Laterza, Bari, 2004, p. 127 48 V. Spano, E i prigionieri ?, ” L’Unità”, 20 aprile 1945

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orgoglio afferma che “si è lavorato, si è discusso “. Nonostante le torture inflitte l‘ex-prigioniero delinea l‘origine della sezione del Partito all‘interno del lager, rivendicandola con forza. Un comitato, un‘”organizzazione“ che agisce dall‘interno perché “ il campo di Mauthausen ebbe le sue Gap e le sue Sap. “50 Questo tipo di racconti,

di speranza e di lotta, saranno fatti propri dall’ideologia antifascista. Le uniche informazioni sull’Olocausto sono fornite in modo scarno durante i processi di Lüneburg51

e di Norimberga52. I titoli e le tematiche scelte sulle violenze dei nazisti perpetrate nei confronti degli ebrei sembrano avere la funzione di impressionare più che informare il lettore. La tendenza di tale tipo di stampa, in generale, ad equiparare le vittime della persecuzione razziale a quelle della persecuzione politica porta in secondo piano la specificità dell’Olocausto. Gli stessi ebrei italiani, d’altro canto, desiderosi di essere nuovamente accettati nella collettività, finiscono per accettare alcuni stereotipi che il ”paradigma antifascista” finisce per dare loro, infatti:

“In molti paesi occidentali, i sopravvissuti non aspiravano ad apparire come vittime particolari, diverse dalle altre. […] Gli ebrei desideravano reintegrarsi come cittadini uguali agli altri in seno alle comunità nazionali dalle quali erano stati strappati. Rivendicare uno statuto speciale in quanto vittime di un genocidio poteva sembrare un modo di perpetuare il loro statuto di esclusi e perseguitati.”53

E’ un fenomeno molto articolato che si inserisce nella tendenza delle principali opinioni pubbliche europee a rimuovere la memoria di quella vicenda.

50 Anonimo, A Mauthausen la ferocia non ha spento nei compagni la fede, ” L’Unità”, 30 maggio 1945 51 Anonimo, Nel campo di Belsen c’erano mucchi di cadaveri, ” L’ Unità”, 20 settembre 1945

52 Anonimo, Sei milioni ebrei di morti ma Himmler non era soddisfatto, ” L’ Unità”, 15 dicembre 1945 53 E. Traverso, Auschwitz e gli intellettuali. La Shoah nella cultura del dopoguerra, Il Mulino, Bologna,

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18 2.Le cause del vulnus editoriale

2.1 Le liberal – democrazie si impongono sulla scena

Anche l’Italia, all’indomani della Seconda Guerra mondiale, vive una transizione come molti altri paesi europei in quegli anni. A primo senso, si tratta della transizione dal fascismo alla democrazia. Oltre a ciò dobbiamo considerare l’esistenza di altri livelli di transizione. Quella che qui ci interessa, è sì il consolidamento della liberal-democrazia dopo anni di regime, ma anche la transizione socio-politico-istituzionale allo scopo di costruire un senso comune tra élites e movimenti popolari. Ciò avviene attraverso l’allargamento dei compiti dello Stato fissati con l’irrompere delle costituzioni democratiche e la ridefinizione dei nessi Stato-società. Un’idea simile la ricaviamo da un recente libro del politologo Giovanni Orsina che ne La democrazia del narcisismo illustra alcune dinamiche che ritengo possano metter in relazione il blocco della pubblicistica, cui abbiamo accennato sin ora, con i nuovi sentimenti democratici che il secondo dopo guerra porta con sé sia all’interno dell’immaginario del cittadino occidentale sia nelle costruzioni delle fragili democrazie che poggiano su “una marcata debolezza etico-politica".54 Vi è una premessa alla base di questo ragionamento che ha origini antiche e su cui molti pensatori si sono confrontati: la pretesa da parte dell’uomo di avere controllo assoluto della propria esistenza. Una promessa-pretesa che la democrazia deve mantenere. Alexis de Tocqueville ha parlato di ”uguaglianza di condizioni”55 nel suo

celebre libro. Essa si è sviluppata gradualmente nel corso dei secoli e ”tutti gli avvenimenti, come tutti gli uomini, servono al suo sviluppo.”56 Di fatto, tale terminologia,

è al centro di tutta l’opera:

“L’ eguaglianza, che rende gli uomini indipendenti gli uni dagli altri, dà loro l’abitudine e il gusto di seguire nelle azioni particolari solo la loro volontà. Questa completa indipendenza, di cui essi godono completamente di fronte ai loro eguali e nella vita privata, li dispone a considerare poco benevolmente ogni autorità e presto ispira loro l’idea e l’amore della libertà politica. Gli uomini che vivono in questi tempi sono spinti naturalmente verso le istituzioni libere.”57

54 G. Orsina, La democrazia del narcisismo. Breve storia dell’antipolitica, Marsilio, Venezia, 2018, p. 41 55 A. de Tocqueville, La democrazia in America, BUR Rizzoli, Milano, 2017, p. 19

56 ivi, p. 22 57 ivi, p. 705

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E’ da questa riflessione però che la promessa democratica risulta fallace in alcuni aspetti. Se la democrazia, da un lato garantisce agli esseri umani ch’essi possono essere qualsiasi cosa vogliano senza alcun limite dall’altro, è proprio la mancanza di quest’ultimo, a generare insoddisfazione e a mettere in risalto la contraddizione. Tra gli effetti prodotti, “l’eguaglianza delle condizioni” crea “l‘amore dell’indipendenza”.58 D’altra parte è stato

lo stesso Böckenförde nel suo ormai celebre ”dilemma“ a forzare ancora di più la mano: la liberal-democrazia vive non soltanto di presupposti che essa stessa non può garantire ma si adopera per la loro demolizione. Il grande rischio che lo Stato si è assunto per ”amore della libertà“ è questo:

“Lo stato liberale [freiheitlich] secolarizzato vive di presupposti che non può garantire. […] Da una parte esso può esistere come Stato liberale solo se la libertà, che esso garantisce ai suoi cittadini, si regola dall’interno, cioè a partire dalla sostanza morale del singolo e dall’omogeneità della società. D’altra parte, però, se lo Stato cerca di garantire da sé queste forze regolatrici interne, coi mezzi della coercizione giuridica e del comando autoritativo, esso rinuncia alla propria liberalità […] “59

Anche le democrazie del secondo dopo guerra risentono di questi aspetti negativi e contraddizioni e sono spiegabili in questo i sentimenti che attanagliano i cittadini occidentali nel bisogno di stabilità, legato comunque all’irrequietezza delle crescenti richieste di aperture alla rappresentanza e alla partecipazione politica dopo anni di guerra e restrizioni. Ancora una volta ci viene in soccorso lo storico francese quando descrive lo stato d’animo del cittadino democratico:

“Siccome gli uomini delle democrazie sembrano sempre in moto, incerti, ansanti, pronti a mutare di volontà e di posto, ci si immagina che essi vorranno abolire improvvisamente le loro leggi, adottare nuove fedi e assumere nuovi costumi. Non si pensa affatto che l’eguaglianza, se porta gli uomini ai mutamenti, suggerisce nondimeno a loro interessi e gusti che hanno bisogno di stabilità per poter essere soddisfatti; essa li spinge e nel tempo stesso li ferma, li sprona e li attacca alla terra, infiamma i loro desideri e limita le loro forze.”60

58 ibid.

59 E. W. Böckenförde, La formazione dello Stato come processo di secolarizzazione, Morcelliana, Brescia,

2015, pp. 68- 69

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Ecco appunto la “stabilità “, quel concetto tanto caro al cittadino europeo, dopo la catastrofe del secondo conflitto mondiale, per cui “la guerra aveva cambiato tutto” e “un ritorno alle condizioni precedenti al 1939 non era neppure immaginabile”.61 Tali sentimenti rinascono e influenzano la democrazia nel dopoguerra. Essa rifiorisce, in condizioni fragili e con vari contrappesi, che Orsina delinea in maniera chiara. Il primo consiste nella delimitazione tra la sfera pubblica, rappresentata dal diritto alla rappresentanza e dal godere ed usufruire dei diritti civili, e la sfera privata nella quale questi ”principi sono molto meno presenti”62. Tale delimitazione è organizzata intorno al

principio dell’autodeterminazione individuale. Un concetto che ha analizzato Habermas nei primi anni Sessanta:

“La democrazia potrà funzionare a pieno titolo solo quando l’autodeterminazione sarà diventata un fatto reale. La partecipazione politica sarà allora identica all’autodeterminazione.”63

Tale riflessione si inserisce a pieno nel nostro discorso; il sostanziale aumento della partecipazione nel dopoguerra, pur con le limitazioni di cui parlerò tra poco, permette di imbrigliare “l’esercizio del dominio e del potere”, “in quanto categoria storica” e suscettibile a “modifiche sostanziali”, cessando di essere una connotazione negativa della storia.64 Ciò è facile da stabilire dato che i regimi totalitari hanno imperversato in Europa

tra le due guerre privando ampi settori della società sia dei diritti civili sia di quelli politici. Il secondo contrappeso alla democrazia sono i processi di cessione di potere sovranazionali. Il ritorno della democrazia passa attraverso “un processo di integrazione sovranazionale”.65 Il terzo, è direttamente collegato al secondo, tra il 1946 e il 1949

sorgono tre nuove costituzioni scritte in Europa occidentale: quella italiana, tedesca e francese. Tutte danno vita a sistemi parlamentari che prevedono ”più istanze di

61 T. Judt, Postwar. La nostra storia 1945-2005, Editori Laterza, Bari, 2017, p. 82

62 G. Orsina, La democrazia del narcisismo. Breve storia dell’antipolitica, Marsilio Editori, Venezia, 2018,

p. 41

63 J. Habermas, L’Università nella democrazia, De Donati, Bari, 1968, p. 13 in N. Matteucci, Il liberalismo

in un mondo in trasformazione, Il Mulino, Bologna, 1998, p. 139

64 J. Habermas, Storia e critica dell’opinione pubblica, Laterza, Bari, 1971, p. 294 in N. Matteucci, Il

liberalismo in un mondo in trasformazione, Il Mulino, Bologna, 1998, p. 140

65 G. Orsina, La democrazia del narcisismo. Breve storia dell’antipolitica, Marsilio Editori, Venezia, 2018,

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mediazioni possibili fra gli elettori e i luoghi della decisione”66. La politica torna così ad

un ruolo di primo piano: si ha la capacità di ”progettare” e di ”incidere in maniera concreta e rilevante sulla vita quotidiana delle persone.”67 Il totalitarismo in questo senso porta a

riscoprire il pensiero liberale attraverso altri due fattori: da una parte una rivalutazione del sistema giudiziario e dall’altro la nascita sì dei sistemi costituzionali, come abbiamo detto, ma all’interno di società pluralistiche. Avviene un processo che eleva il potere giudiziario, e i suoi organi di controllo, a garante dei diritti costituzionali dell’individuo: “Non a caso, nell’esperienza costituzionale di questo dopoguerra, sono state proprio l’Italia e la Repubblica Federale Tedesca, due nazioni che hanno sofferto l’esperienza totalitaria, a introdurre nelle loro Costituzioni questo istituto per garantire i diritti dell’individuo”.68

Dall’altro lato il controllo dei leaders politici avviene tramite i contrappesi sopraindicati che permettono un’alta partecipazione politica ma anche un effettivo pluralismo sociale; esso grazie “alle associazione intermedie” è visto come un argine molto forte al totalitarismo:

“Per società pluralistica s’intende qualcosa che va ben oltre il sistema pluripartitico: […] si è riscoperta l’autonoma funzione delle associazioni […] si sono colti i caratteri di una società pluralistica nel massimo decentramento di queste associazioni intermedie, nella loro differenziazione per funzioni, affinché nessuna pretenda ad una autorità monopolistica […] Tutto ciò dovrebbe garantire alla società la “massima capacità espressiva” e impedire che il potere politico si concentri nelle “stesse mani”, come nei sistemi totalitari.69

Memoria della catastrofe bellica, Guerra Fredda, benessere: tutto ciò confluisce nella ricostruzione postbellica del cittadino che deve adattarsi alla democrazia. Ma allora come si inserisce in tutto questo la figura del testimone? Essa si muove lungo questa direttrice. Conta molto il rapporto con il rispettivo paese. La transizione alla democrazia ha innumerevoli “prezzi da pagare” tra cui una visione ottimistica del futuro e una visione della società improntata alla ricerca del benessere. Il testimone è portatore di una “storia“ che non può concorrere, in quella precisa congiuntura, a rafforzare tali visioni

66 ivi, p. 43 67 ivi, p. 45

68 N. Matteucci, Il liberalismo in un mondo in trasformazione, Il Mulino, Bologna, 1998, p. 109 69 ivi, pp. 110- 111

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ottimistiche. Anzi, il contrario. La testimonianza si avvia così a un percorso diverso. Se le democrazie non hanno posto, in quel momento, per quei racconti drammatici allora questi devono essere relegati alla sfera privata o attraverso il primo flusso della memorialistica (1945-1947) come abbiamo detto nel paragrafo 1.1. Sarà solo a partire dagli anni Sessanta che la testimonianza si conquisterà il suo spazio pubblico e una rivendicazione specificatamente ebraica. Concorre a ciò, soprattutto, il processo Eichmann come lucidamente espone Annette Wieviorka:

“Prima di tale processo, il sopravvissuto che voleva conservare la propria identità di sopravvissuto, lo faceva grazie a e nella vita associativa, una vita associativa chiusa in se stessa, che permetteva di onorare il ricordo dei propri morti e, nello stesso tempo, di trovare una socialità tra persone che avevano vissuto gli stessi avvenimenti […] Il processo Eichmann cambia le carte in tavola.”70

Sta mutando la figura del testimone come ”portatore di storia”. Una prospettiva che, nell’immediato dopoguerra, è totalmente ignorata e, di fatto, accantonata più o meno consapevolmente.

2.2 Gli “ italiani brava gente” , tra Resistenza e deportazione.

Come abbiamo brevemente fatto intendere, subito dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale, L’Italia arde dal desiderio di essere accolta come alleata delle democrazie occidentali attraverso l’adesione a membro sia delle Nazioni Unite, e di altre istituzioni internazionali, sia del piano Marshall. Il governo italiano intraprende una strategia diplomatica che gli permette di distanziare il fascismo italiano dal nazismo tedesco. Michele Sarfatti ha individuato alcune tracce di questa operazione. Lo studioso ha posto all’attenzione, nei mesi seguiti alla guerra, processi di omissione e distorsione della documentazione pubblica. Essi rappresentano i primi passi di una fase più grande che prevede la minimizzazione e la rimozione di una responsabilità italiana nella persecuzione degli ebrei e nella violenza fascista.71 Posta in contrasto con l‘immagine del “bravo italiano“ è la sua contro-immagine: quella del “ cattivo tedesco“. Esse sono due visioni che si definiscono a vicenda, basandosi l‘una sull‘altra per caratterizzare una netta

70 A. Wieviorka, L’era del testimone, Raffaello Cortina Editore, Milano, 1999, p. 101 71 http://www.michelesarfatti.it/testi-online/2-razzisti-per-ordine-superiore/

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presa di posizione in senso storico e politico.72 Se questa retorica ben si allinea e si nutre

della prima memorialistica (1945-1947) in tema di Olocausto, in quanto i racconti dei prigionieri fin da subito sono associati più a un livello di prigionia “politico” che puramente “razziale” (questo si denota anche dalla stampa, paragrafo 1.2), è proprio quando il discorso “antifascista” e il mito del “bravo italiano” incontrano le prime difficoltà (1948-1952) che le pubblicazioni hanno una brusca interruzione in Italia. La crisi dell’antifascismo si può iniziare ad intravedere già a partire dal 1947. A livello internazionale, l’impegno di De Gasperi verso l’America fa dell’Italia uno dei paesi più integrati del Patto Atlantico. E’ quando si rompe la coalizione antifascista, in quell‘anno, che l‘Italia è destinata ad entrare integralmente nella sfera di influenza americana. Nel clima della Guerra Fredda sorgono così due esigenze, una americana:

“[…] maturata negli anni della guerra, di poter contare in Italia su una situazione che non lasciasse spazio all’influenza sovietica. La seconda, quella delle forze moderate italiane, di completare, mediante un appoggio esterno, il consolidamento della loro posizione dopo una lunga incertezza provocata dalle vicende di guerra e dei mutamenti internazionali formali.”73

Il paradigma antifascista rimane il criterio fondamentale di legittimazione per l’esperienza costituzionale postbellica; nonostante ciò, fin dall’immediato dopo guerra, gli si contrappone la memoria antagonista e rancorosa del neofascismo. Quest’ultima da una parte sostiene le ragioni della partecipazione italiana al conflitto in nome di una più equa ripartizione dei territori accaparrati dagli imperi di Gran Bretagna e Francia, dall’altra vede nell’8 settembre la data della “disfatta morale” e non del riscatto del Paese come sostenuto dall’antifascismo.74 A ciò si aggiunge un atteggiamento visceralmente

anticomunista. Atteggiamento già condiviso sia dagli ambienti neofascisti che da quelli di matrice democratico-cristiana quando l‘Unione Sovietica è accusata, fin dal 1945, di aver causato la morte di migliaia di prigionieri italiani75. Tale campagna raggiunge il suo

apice nelle elezioni del 18 aprile 1948. Sono proprio queste elezioni a “sancire la definitiva espulsione delle sinistre al governo “e a interrompere “quel processo di

72 F. Focardi, Il cattivo tedesco e il bravo italiano. La rimozione delle colpe della seconda guerra mondiale,

Editori Laterza, Bari, 2016

73 E. Di Nolfo, Il compito di costruire la diga, ” Il Corriere della Sera”, 20 luglio 1975

74 F. Germinario, L’altra memoria. L’Estrema destra, Salò e la Resistenza, Bollati Boringhieri, Torino, 1999 75 E. Aga Rossi, V. Zaslavsky, Togliatti e Stalin. Il PCI e la politica estera staliniana negli archivi di Mosca, Il

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riaggregazione democratica” che è iniziato sin dalla fine delle ostilità.76 Il serrato

confronto ideologico tra le sinistre e la Dc di De Gasperi continua su vari fronti tra cui le celebrazioni del 25 aprile. Se quelle del 1946 si sono svolte in maniera unitaria e compatta, dagli anni successivi ogni ricorrenza non fa che accendere numerosi dibattiti sul ruolo della Resistenza e dell‘antifascismo. Nel 1948 e nel 1949 i toni si fanno molto aspri come dimostra la prima pagina de “L‘Unità” nella quale è contenuto un appello, redatto già due mesi prima della celebrazione ufficiale, per arginare la “constatata“ e “crescente“ offensiva contro la Resistenza:

“[…] si invitano tutti i democratici italiani a stringersi intorno alle forze della Resistenza per controbattere la deplorata offensiva antipartigiana e difendere i valori e gli istituti repubblicani usciti dalla Liberazione e la Costituente […] “77

Tutto ciò si concretizza nell’intervento del presidente dell’Anpi, il comunista Arrigo Boldrini, che sottolinea come la Resistenza non sia soltanto un’“epopea di popolo”: “Essa non è un fatto d’arme isolato, non è solo una battaglia con un epilogo vittorioso, ma è un movimento profondo che unì tutti gli italiani degni di questo nome per salvare il salvabile e per gettare le basi di un nuovo stato democratico, repubblicano, progressivo.”78

A quest’uso della memoria si contrappone quello della Dc. L’ obbiettivo principale della formazione politica è quello di contrastare il monopolio della Resistenza, principalmente alle sinistre, e impedirne l’uso a fini politici. De Gasperi rivendica la capacità del partito di rappresentare “tutto lo spirito di liberazione”, le sinistre non hanno il diritto di accaparrarsi in via esclusiva il concetto di Resistenza perché “moltissimi partigiani sono nel campo nostro”.79 Significativo ancora di più è l‘intervento del leader politico in

occasione del congresso dei partigiani cristiani, svoltosi a Roma il 28 ottobre 1950, in cui viene tracciato il cammino di una Resistenza come “rivoluzione ininterrotta“:

“Ed ecco perché anche voi, ritirati sulle montagne per la difesa, avete avuto il concetto del riscatto politico e morale del vostro Paese. La vostra parola comune è libertà. Una parola magica che vuol dire molte cose, che sottintende molte cose; libertà prima nel senso di indipendenza del

76 M. Pieretti, De Gasperi e la Dc, in Storia della società italiana, parte quinta, Vol. XXIII, La società

italiana dalla Resistenza alla Guerra Fredda, Teti Editore, Milano, 1980, p. 106

77 Anonimo, Oggi alla Camera l’attacco di Longo, ”L’Unità”, 24 febbraio 1949 78 A. Boldrini, Il 25 aprile, ”L’Unità”, 24 aprile 1949

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Paese contro qualsiasi dominazione ed aggressione; libertà poi in regime politico, avvento delle forze popolari al Governo; libertà nella giustizia sociale, cioè ridistribuzione della proprietà, del reddito, della ricchezza; libertà consapevole dei valori spirituali eterni e religiosi. Per taluni, pochi, che venivano dal mondo della cultura, fra i partigiani, la libertà sarà stata anche una dottrina filosofica, ma per tutti divenne e fu la conclusione pratica di un'esperienza storica. Una conclusione definitiva dopo venti anni di dittatura e soprattutto innanzi agli orrori della guerra civile, una conclusione ora si rinnova nel vostro impegno e ci sta di fronte come necessità della nostra opera.”80

Oltre a queste istanze che si contendono i valori fondativi della Repubblica, fin dall’immediato dopo guerra, ha un ruolo molto importante nel dibattito pubblico l’idea di una “pacificazione” tra vinti e vincitori per il bene del paese. Questo è un ulteriore elemento che ci permette di capire gli anni di crisi della narrazione antifascista e il blocco editoriale che ritengo essere ad essa collegato. Il 22 giugno 1946, Palmiro Togliatti, nelle veci di Ministro della Giustizia, firma un’amnistia che conferma la volontà appena detta. In un editoriale anonimo ne “L’Unità” vengono affermate le ragioni che hanno condotto al provvedimento come una norma varata in nome della “concordia nazionale” e come un “atto di generosità” infatti:

“I democratici e gli antifascisti italiani, e primi fra tutti noi comunisti, ci eravamo impegnati, superata vittoriosamente la lotta per la sconfitta della monarchia fascista, a iniziare una politica di pacificazione per ricostituire, sotto il vessillo repubblicano, l’unità di tutti gli italiani: la Repubblica non ha atteso molto per gettare le basi di questa politica.”81

Le cifre rendono ancor meglio la sostanza di questa volontà. Al momento dell’amnistia ci sono 12.000 fascisti sotto condanna in attesa di giudizio, che si riducono a 2.000 l’anno successivo82 sino ad arrivare al 1952 quando diventano 266.83 Le proposte di ”riconciliazione” presentate dalla destra si inseriscono, nel lasso di tempo che ci interessa, nello scontro tra i fronti marxisti e della sinistra da una parte e la compagine governativa democristiana e centrista dall’altra in un crescendo di tensioni. La riabilitazione di alcuni ex-fascisti è utilizzata in senso utile come potenziali alleati al fronte anticomunista, di

80 http://www.storiadc.it/doc/1950_partigiani_degasperi.html 81 Anonimo, Generosità e forza, ”L’Unità”, 22 giugno 1946

82 H. Woller, I conti con il fascismo. L’epurazione in Italia 1943-1948, Il Mulino, Bologna, 1997, pp. 544-45 83 M. Dondi, La lunga liberazione. Giustizia e violenza nel dopoguerra italiano, Editori Riuniti, Roma,

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fatto è in atto una svalutazione di quel paradigma su cui è nata la Repubblica. A conferma di ciò molti partigiani sono incriminati e messi sotto accusa allo scopo di condannare la Resistenza e i suoi valori. L’esempio più eclatante è quello della strage delle Fosse Ardeatine. Alcuni parenti delle vittime, che considerano l’azione partigiana – a cui è seguita la nota rappresaglia tedesca- illegittima, chiamano a rispondere delle conseguenze i responsabili, tra cui affermati antifascisti. Anche se il tribunale respinge le accuse, sancendo la legittimità dell’azione partigiana, come titola ”L’Unità” in prima pagina ”La magistratura conferma la legittimità dell’azione di guerra di Via Rasella”84, questo evento è esplicativo del clima che si respira in quegli anni. E’ in atto un tentativo di criminalizzare e accusare la Resistenza e molti dei suoi interpreti. Se, come scrive Pavone ”la Resistenza fu tutto un tentativo di fare i conti con il passato”85 allora l’immediato

dopoguerra in Italia è caratterizzato da numerose istanze e rimozioni anche per quanto riguarda la parte ebraica e le varie testimonianze. Tale componente della società italiana è strettamente legata ad essa per il fatto che almeno inizialmente non spicca e non viene rivendicata una sofferenza esclusivamente ebraica. Si fa lentamente strada in questo contesto la memoria ebraica frutto delle incomprensioni di una società che sta deformando il suo rapporto con la dittatura fascista. Una memoria difficile che si scontra sia con i sentimenti postbellici di saturazione della sofferenza e il dolore come testimonia il protagonista di un celebre racconto di Giorgio Bassani:

“Quando, nell’agosto 1945, Geo Josz ricomparve a Ferrara, unico superstite dei centottantatrè membri della Comunità Israelitica […] e che i più consideravano finiti tutti da un pezzo nelle camere a gas, nessuno in città in principio lo riconobbe. […] dopo tanto tempo, dopo tante sofferenze toccate un po' a tutti e senza distinzione di fede politica, di censo, di religione, di razza, costui, proprio adesso, che cosa voleva? Che cosa pretendeva? “86

Il rinserimento nella società? Il riconoscimento della sofferenza? O il semplice bisogno di raccontare? Tante istanze animano i racconti sullo sterminio nel dopoguerra ma l’esigenza di essere “iscritti” nelle file degli antifascisti è forse la principale. Giacomo

84 Anonimo, La magistratura conferma la legittimità dell’azione di guerra di Via Rasella, ”L’Unità”, 10

giugno 1950

85 C. Pavone, Una guerra civile. Saggio storico sulla moralità della Resistenza, Bollati Boringhieri, Torino,

1994, p. 560

86 G. Bassani, Una lapide in via Mazzini, in Opere, (a cura di. R. Cotroneo), Mondadori, Milano, 2001, pp.

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Debenedetti in Otto Ebrei, opera pubblicata solo qualche settimana dopo la liberazione di Roma, condensa in poche righe questo concetto:

“Quali le impronte digitali del fascismo? Diamine, la persecuzione degli ebrei. Quale, di conseguenza, il più incontrovertibile connotato dell’antifascismo? La protezione degli ebrei […]. Quel che ieri era nero oggi è diventato bianco, e viceversa […] Mostriamo di essere stati pietisti, di aver avuto questo coraggio e risulteremo senz’altro iscritti, iscritti d’ufficio, senza ombra di contestazione, nei ranghi dell’antifascismo.”87

Ricapitolando, da una parte il tema della Resistenza, della deportazione e dello sterminio trovano uno spazio crescente nella società postbellica senza tuttavia che vi sia una separazione tra le varie immagini. E’ proprio quando l’antifascismo entra in crisi, tra il 1948 e il 1952, che inizia il blocco della pubblicistica di cui abbiamo parlato in un mercato editoriale che palesa le sua insofferenza verso quel fiume in piena che è la memorialistica (1945-1947, vedi paragrafo 1.1) e quei libri che “oscillano tra la cronaca e lo sfogo”, eccessivamente “sentimentali” e che alla fin fine si “equivalgono tutti”.88 Nonostante ciò

quel ”fatto naturale e limitato” delle scritture sullo sterminio nate ” all’indomani di una grossa esperienza”89 riprenderanno nel 1952 con ...Ma domani farà giorno di Teresa

Noce.90

2.3 Nasce lo Stato di Israele

Un altro evento, è importante, per il nostro discorso. Abbiamo detto come l’affermazione delle liberal-democrazie in Europa e il mito della Resistenza e del “bravo italiano” abbiano avuto alcune “responsabilità” nel blocco della pubblicistica dell’Olocausto in Italia tra gli anni Quaranta e anni Cinquanta. Tra le cause “esterne” del blocco è bene annoverare anche la nascita dello Stato d’Israele avvenuta nel 1948. Ciò che balza

87 G. Debenedetti, Otto ebrei, Atlantica, Roma, 1944, p. 8 in G. Schwarz, Ritrovare se stessi. Gli ebrei

nell’Italia postfascista, Editori Laterza, Bari, 2004, p. 121

88 L. Mangoni, Pensare i libri. La casa editrice Einaudi tra gli anni Trenta e gli anni Sessanta, Bollati

Boringhieri, Torino, 1999, p. 414

89 A. Guiducci, Sulla letteratura dei campi di sterminio,”Società”, a. XI, n°1, 1955, febb. 1955, pp. 110-

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90 M. Consonni, L’eclisse dell’antifascismo. Resistenza, questione ebraica e cultura politica in Italia dal

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