Un particolare tipo di filiera che recentemente sta prendendo piede nel settore agroalimentare, anche grazie al favore espresso dall’opinione pubblica, è la filiera corta. È molto difficile poter giungere a una definizione univoca di filiera corta. Tuttavia, l’analisi della vasta letteratura sul tema permette di individuarne alcune caratteristiche distintive. Innanzitutto le filiere corte si caratterizzano per la loro alternatività rispetto alle filiere tradizionali, nelle quali vi sono almeno tre soggetti coinvolti e i grossisti rappresentano una pedina fondamentale. I cosiddetti Alternative Agri-Food Networks prendono infatti il loro nome proprio dal rifiuto delle principali caratteristiche delle filiere tradizionali, quali la produttività spinta all’estremo, la standardizzazione e l’organizzazione industriale (Higgins et al., 2008), per curare invece maggiormente altri aspetti come la qualità, la provenienza e la “naturalità” delle produzioni agroalimentari (Goodman, 2003).
Le filiere corte sono caratterizzate dall’assenza di intermediari fra i produttori e i consumatori e, inoltre, dalla dimensione locale della produzione, trasformazione e commercializzazione (Renting et al., 2003). Nella letteratura internazionale tale organizzazione della filiera viene definita Short Supply Chain (Aubry et al., 2008), che corrisponde, secondo Parker (2005), a una filiera agroalimentare caratterizzata da un
numero molto ristretto di intermediari fra produttore e consumatore e/o da una ridotta distanza geografica fra i due. Teoricamente, la filiera corta riunisce entrambe le caratteristiche.
Questo processo di rilocalizzazione e accorciamento della filiera agroalimentare può avvenire secondo diverse prospettive; in letteratura si trovano diverse chiavi di lettura attraverso le quali è possibile evidenziare le specificità delle filiere corte:
• la distanza spaziale fra produttore e consumatore (Ilbery & Maye, 2005; Renting et al., 2003);
• il grado di commistione con la realtà locale, la comunità e l’ambiente (Hinrichs, 2000);
• i modelli di consumo ai quali le filiere fanno riferimento (Sivini, 2007);
• le tipologie di produttori agricoli interessati (Aguglia, 2009; Cicatiello & Franco, 2008).
Per quanto riguarda il primo caso, si tratta di una filiera il cui network si esprime a livello locale. In questo caso, gli intermediari si riducono perché produttori e consumatori si incontrano direttamente senza bisogno di figure intermedie che si occupino della manipolazione, del trasporto o della vendita dei prodotti. Le motivazioni dello sviluppo di questo tipo di filiera sono da ricercarsi per lo più nell’efficienza degli scambi e nei vantaggi che produttori e consumatori hanno nell’aderirvi. Tali vantaggi riguardano principalmente gli aspetti economici, in quanto la prossimità spaziale fra gli operatori e l’assenza di intermediari favoriscono, da un lato, una maggiore remunerazione dei produttori e, dall’altro, la vendita a un prezzo più equo per i consumatori.
Nel secondo caso la filiera corta si configura come un network nel quale, accanto ai singoli produttori e consumatori partecipanti, si inseriscono figure esterne di supporto, come le istituzioni locali, le associazioni di categoria o gruppi di consumatori. La catena distributiva è sempre molto breve, ma la complessità della transazione aumenta parallelamente all’inclusione, nella progettazione della struttura fisica e relazionale della filiera, di istanze provenienti da diversi soggetti coinvolti.
In altre situazioni le filiere corte si sviluppano in risposta a stimoli provenienti dai consumatori o a contesti nei quali si affermano particolari modelli di consumo. Da
quando si è aperta la discussione sulle criticità – ambientali, sociali ed economiche - esistenti nell’attuale conformazione della filiera agroalimentare, una parte dell’opinione pubblica ha preso consapevolezza del fatto che l’atto di acquisto ha delle implicazioni etiche ed economiche non trascurabili, soprattutto quando si tratta di cibo. L’acquisto di prodotti che provengono dalle filiere corte diventa quindi un modo per rispondere a tali istanze.
Infine, alcune forme di filiera corta si sono sviluppate come conseguenza della necessità dei produttori di trovare sbocchi alternativi sul mercato per i propri prodotti. Si tratta, come vedremo, di aziende agricole che, per vari motivi, faticano a trovare un loro posto nelle filiere tradizionali a più intermediari e che, quindi, si rivolgono a network alternativi per riuscire a mantenere la propria attività.
La filiera corta non è comunque una modalità organizzativa adatta a tutti i soggetti che operano nell’agroalimentare. La letteratura sul tema, incentrata principalmente sull’analisi di casi studio, ha prodotto un’identificazione delle principali caratteristiche dei produttori e dei consumatori protagonisti di queste esperienze.
Per quanto riguarda i produttori, la filiera corta registra una notevole diffusione tra gli imprenditori agricoli part-time (Hughes & Mattson, 1995; Festing, 1998; Aguglia, 2009) che trovano, attraverso la vendita diretta ai consumatori, un facile sbocco per la propria attività di produzione non professionale, alla quale affiancano un reddito proveniente da un’altra occupazione o da una pensione. In particolare, il fenomeno ha preso piede sia fra le piccole e piccolissime aziende agricole (Sommer, 1989; Larson & Gille, 1996) sia, almeno in Italia, fra i giovani agricoltori (Raffaelli et al., 2009). Un aspetto determinante per l’attivazione di un canale corto di commercializzazione è la produzione di beni pronti al consumo (Cicatiello & Franco, 2008). Si tratta per lo più di colture frutticole e orticole (Brown, 2002; Raffaelli et al., 2009) per le quali non è necessario attivare processi di trasformazione prima del consumo e, quindi, gli intermediari della filiera tradizionale possono essere eliminati più facilmente.
Le motivazioni che spingono i produttori a vendere attraverso una filiera corta sono di natura economica e sociale (Vaupel, 1989). Dal punto di vista economico, i produttori si avvantaggiano della filiera corta quando non sono in grado di produrre abbastanza da vendere all’ingrosso a prezzi competitivi. Vendendo direttamente ai consumatori, invece, essi possono ottenere migliori remunerazioni per i propri prodotti, in un mercato
con minori barriere di accesso. Altro aspetto economico importante per gli agricoltori è la disponibilità finanziaria immediata garantita dalla vendita diretta, una peculiarità che è invece molto rara nelle filiere tradizionali, caratterizzate da pagamenti dilazionati nel tempo (Mastronardi & Di Gregorio, 2012). Riguardo alle motivazioni sociali, va evidenziato il rapporto diretto con i consumatori, universalmente riconosciuto come il principale aspetto positivo della filiera corta, che spesso si traduce nel piacere di entrare in contatto con le persone che vivono e lavorano nel territorio in cui si trova l’azienda (Hughes & Mattson, 1995; Lyson et al., 1995; Kirwan, 2004).
Nelle filiere corte il ruolo dei consumatori, ultimo anello del network, è assolutamente fondamentale. La diffusione di questo fenomeno, infatti, passa anche dall’interesse che i consumatori finali manifestano per i prodotti che giungono loro tramite filiere alternative. Negli ultimi anni questo interesse è diventato palpabile, denotando un deciso apprezzamento per i prodotti di provenienza locale, acquistati direttamente dagli agricoltori. Loureiro & Hine (2002) hanno trovate che i consumatori manifestano una disponibilità a pagare per i prodotti locali, spesso perfino maggiore di quella rilevata per i prodotti biologici o ‘‘OGM-free”. Tale interesse per la filiera corta riguarda, comunque, categorie ben delineate di consumatori. In letteratura, dove si trovano molti contributi riferiti a casi studio in diverse parti del mondo, sembra abbastanza comune identificare l’ultimo anello della filiera corta in un consumatore di mezza età, istruito e con la disponibilità di un reddito medio-alto (Govindasamy et al., 2002; McGarry et al., 2005; Cicatiello et al., 2012a). Le motivazioni che spingono questo consumatore-tipo ad avvicinarsi alla filiera corta riguardano tipicamente gli aspetti qualitativi del prodotto (La Trobe, 2001) e il concetto di “embeddedness” (Hinrichs, 2000), vale a dire il fatto che l’acquisto di prodotti locali porti con sé un “radicamento” all’interno del territorio (Feagan & Morris, 2009). Il minor prezzo dei prodotti, invece, non sembra rappresentare un fattore importante nell’apprezzamento della filiera corta da parte dei consumatori (Cicatiello et al., 2012a), anche se può fungere da richiamo per quei consumatori che non si sono mai approcciati a questo fenomeno.
La gestione della Supply Chain, nel caso della filiera corta, riguarda essenzialmente le modalità attraverso le quali si realizza l’incontro fra produttori e consumatori. Qui di seguito si riportano le tipologie organizzative più diffuse (Cicatiello & Franco, 2008).
• Vendita diretta praticata in azienda, senza un punto vendita organizzato: si tratta della forma più semplice, in quanto non necessita di locali dedicati ma si svolge nelle strutture aziendali (abitazione, magazzini, cantina, frantoio). Tipicamente riguarda solo una piccola quota dei prodotti aziendali, per i quali vengono comunque mantenuti attivi altri canali di commercializzazione. Il network è in questo caso costituito da un solo produttore e un ristretto gruppo di consumatori locali.
• Vendita presso un negozio aziendale: presuppone un impegno maggiore, soprattutto per la necessità di disporre di una più ampia varietà di prodotti, di confezionarli e di presentarli in modo adeguato; chiavi per il successo di questo tipo di filiera sono il coinvolgimento nel network di una base numericamente rilevante di clienti abituali e la localizzazione favorevole delle strutture aziendali.
• La vendita presso un punto vendita esterno: si tratta di una soluzione impegnativa in termini di impiego di risorse, sia finanziarie che umane, ma permette di organizzare un network nel quale a una singola azienda venditrice è collegata una moltitudine di consumatori, composta dai clienti del negozio, abituali e non. Nel caso delle aziende più piccole, che non sono in grado di sostenere autonomamente un proprio punto vendita, una possibile soluzione è l’apertura di un negozio in collaborazione con altri produttori; in questo caso, quindi, il network si allarga a più soggetti anche a monte, garantendo una maggiore offerta di prodotti ma complicando notevolmente la struttura relazionale2.
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A questo proposito è significativa l’esperienza della Vendita Diretta Organizzata (VDO), una modalità organizzativa della filiera corta che la Coldiretti sta fortemente supportando dal 2011, che prevede la commercializzazione, all’interno di uno stesso spazio di vendita, di prodotti provenienti da aziende diverse, senza la presenza in loco degli agricoltori ma mantenendo la scala locale degli approvvigionamenti (www.coldiretti.it; www.campagnamica.it).
• Partecipazione ai mercati rionali, una modalità che consente di raggiungere pressoché gli stessi vantaggi del negozio esterno all’azienda, ma con un impegno di mezzi molto più ridotto. Per ovviare alla difficoltà di competizione con i venditori ambulanti che, rifornendosi nei mercati all’ingrosso, possono contare su una maggiore disponibilità di prodotti in qualsiasi stagione dell’anno, si sono recentemente sviluppati, anche grazie al supporto di alcune disposizioni legislative (GU, 2006), i cosiddetti farmers’ market, veri e propri mercati degli agricoltori dove si pratica esclusivamente la vendita diretta (Rossi et al., 2008). In questo caso la filiera comprende un gruppo, più o meno nutrito, di produttori a monte e una moltitudine di consumatori a valle.
• Gruppi di acquisto (Saroldi, 2001): un network che, sulla spinta di un gruppo di consumatori, coinvolge uno o più produttori in maniera stabile e duratura. I gruppi di acquisto si caratterizzano anche per i loro contenuti etici per la condivisione di questi aspetti fra i soggetti che compongono la filiera.
Vi sono, inoltre, altri tipi di circuiti brevi che prevedono l’inserimento di una fase di commercializzazione al dettaglio tra la produzione e il consumo. Si tratta di tutti quei casi in cui gli agricoltori vendono direttamente ai commercianti, senza però avvalersi dell’intermediazione dei grossisti (Lazzarin & Gardini, 2007).
La filiera corta rappresenta attualmente, almeno in Italia, una realtà di nicchia, che ha visto però negli ultimi anni una notevole espansione. Nel 2005 l’Osservatorio Nazionale sulla Vendita Diretta, creato dalla Coldiretti in collaborazione con Agri2000, ha registrato circa 48.000 aziende agricole attive nella commercializzazione su canali diretti, per un volume d’affari stimato intorno ai 2,4 miliardi di euro, provenienti soprattutto dalle vendite di vino (Lazzarin & Gardini, 2007). Questo dato si presenta in forte aumento, visto che il numero delle aziende coinvolte ha raggiunto, già nel 2009, il livello di 63.600, portando la stima del valore delle vendite oltre i 3 miliardi di euro (Coldiretti, 2010).
Si tratta, comunque, di un fenomeno piuttosto marginale rispetto al panorama complessivo dell’agricoltura in Italia: esso coinvolge, infatti, circa il 6% delle aziende agricole iscritte alle Camere di Commercio. Nella maggior parte dei casi si tratta di esperienze scarsamente organizzate, che fanno uso dei locali aziendali senza allestire un vero e proprio punto vendita, mentre per circa un’azienda su quattro la filiera corta si
realizza tramite l’apertura di punti vendita esterni o la partecipazione a mercati (Lazzarin & Gardini, 2007).
In particolare i farmers’ market stanno conoscendo una fase di notevole espansione, e si moltiplicano i mercati promossi da diversi soggetti; fra i più diffusi, quelli facenti capo al progetto “Campagna Amica” della Coldiretti. A tutto il 2010, sono 947 i farmers’ market censiti sul territorio nazionale, di cui più della metà situati nelle regioni del Nord (Guadagno, 2012). Sulla base dei risultati di un’indagine svolta nell’ambito di un progetto promosso dal Mipaaf, si stima che questi mercati coinvolgano circa 15.000 produttori, per un giro d’affari di quasi 500 milioni di euro (Cicatiello et al., 2012b). Anche per i gruppi d’acquisto si registra una considerevole espansione. Nel 2009 la Coldiretti ha censito ben 600 esperienze in tutta Italia, con un aumento prossimo al 50% rispetto all’anno precedente (Coldiretti, 2010). Si tratta di una tendenza che, soprattutto nelle città, si sta diffondendo velocemente, con i consumatori che, attraverso la condivisione degli approvvigionamenti, costruiscono attivamente canali distributivi più vantaggiosi e rispondenti ai propri bisogni (Coldiretti, 2010).
Al momento mancano ancora elementi certi sulla dimensione effettiva del fenomeno delle filiere corte, soprattutto per quanto riguarda il numero di consumatori coinvolti. Tuttavia, un’indagine della Coldiretti ha rivelato che nel 2009 due italiani su tre hanno acquistato almeno una volta direttamente dal produttore agricolo (Coldiretti, 2010). Questo dato, pur fornendo scarse informazioni circa l’effettiva abitudine dei consumatori di partecipare alla filiera corta, permette di affermare che esiste una diffusa consapevolezza su queste forme alternative di commercializzazione dei prodotti agroalimentari.
C
APITOLO2
I
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OSTENIBILITÀG
ENERALITÀ EA
PPLICAZIONE ALLAF
ILIERAA
GROALIMENTAREIl concetto di sostenibilità, sulle cui diverse declinazioni si concentra questo capitolo, è abbastanza vago e, di conseguenza, spesso controverso. Si tratta, infatti, di una nozione sfaccettata, con una connotazione molto ampia, ulteriormente accentuata dalla tendenza a utilizzare questo termine in analogia con il concetto di sviluppo sostenibile.
Ciò che emerge da una prima lettura delle definizioni maggiormente adottate nel mondo politico-istituzionale e della ricerca è che per arrivare a una convergenza su una definizione di sostenibilità ampiamente condivisa è necessario giungere a un largo compromesso.
Da un lato, quanto più la definizione si mantiene vaga tanto più essa può essere riferita alla molteplicità delle situazioni cui è applicabile. Questa visione, però, porta a una generalità del concetto tale da lasciare molto – forse troppo – spazio all’interpretazione. In effetti, è abbastanza facile far convergere le opinioni degli addetti ai lavori su una definizione che si mantiene volutamente vaga perché, come argutamente notano alcuni autori (O’Riordan, 1988; Redclift, 1991; Jacobs, 1999) ognuno potrà vedere in quella definizione ciò che preferisce, comportandosi di conseguenza.
Al contrario, non appena la definizione di sostenibilità si fa più precisa e puntuale, esplicitando in modo dettagliato gli aspetti che vi concorrono, entrano in gioco una serie di elementi che ne limitano l’applicabilità, legati soprattutto alla possibilità di calare il concetto all’interno delle diverse situazioni a cui esso può essere applicato.
Trovare un compromesso fra queste visioni opposte non è sicuramente semplice ma, a nostro parere, si tratta di un passaggio fondamentale, sul quale si appoggia tutta la costruzione di un modello interpretativo il cui obiettivo finale sia quello di pervenire a una misura del livello di sostenibilità di un determinato sistema. In effetti, la fase di definizione del concetto – detta construct definition nell’ambito del marketing (Rossiter, 2002) – è basilare per sapere cosa misurare prima di decidere come misurarlo.
Questo capitolo si propone dunque di fornire una rassegna sulle molteplici definizioni del concetto di sostenibilità, individuando i tratti fondamentali che le caratterizzano ed evidenziandone i pregi e i limiti. Saranno poi presi in esame i vari approcci proposti per l’identificazione delle dimensioni della sostenibilità, anche questi molto vari e diversificati. Dopo aver giustificato, nel terzo paragrafo, l’applicabilità del concetto di sostenibilità all’oggetto di analisi – la filiera agroalimentare – si tenterà di individuare una definizione di sostenibilità per la filiera agroalimentare, chiarendo il senso delle diverse dimensioni che la compongono. Infine, nell’ultimo paragrafo, si porranno le basi per la costruzione di un modello finalizzato alla misurazione della sostenibilità della filiera agroalimentare attraverso l’esplicitazione delle variabili che esprimono, dal punto di vista puramente teorico, le dimensioni oggetto di valutazione.