Dopo aver proposto una breve rassegna delle varie scale utilizzabili per l’inquadramento del concetto di sostenibilità, nelle sue varie applicazioni empiriche e strategiche, passiamo a esaminare la dimensione territoriale caratteristica degli studi sulla filiera agroalimentare.
Come visto nel primo capitolo, le decisioni sulla struttura fisica del supply network sono un elemento fondamentale del Supply Chain Management. Esse investono la stessa definizione della filiera, nella quale la dimensione spaziale assume una certa rilevanza. Da questa considerazione emerge l’evidenza che, per filiere diverse, esistono diverse scale di analisi.
Il numero di attori, così come la collocazione spaziale degli stabilimenti delle organizzazioni implicate, contribuiscono a determinare la scala territoriale alla quale una specifica filiera può essere ricondotta.
Certamente, in un sistema agroalimentare globalizzato come quello che si è andato affermando negli ultimi decenni, si sono diffuse sempre di più strutture organizzative che spaziano su scale molto ampie, tipicamente di natura sovranazionale. Contemporaneamente, però, sono ancora attive, soprattutto in Italia, forme di filiera che agiscono essenzialmente su scala nazionale; inoltre, come accennato nel capitolo 2, stanno trovando crescente diffusione modelli innovativi impostati sulla dimensione locale di produzione e commercializzazione.
Per quanto riguarda la prima tipologia, si fa essenzialmente riferimento alla Grande Distribuzione Organizzata (GDO). La GDO esercita la gestione di attività commerciali sotto forma di vendita al dettaglio di prodotti alimentari (e non) di largo consumo, in punti vendita a libero servizio. Caratteristiche tipiche di questa forma di filiera sono l’utilizzo di grandi superfici per la commercializzazione e l’organizzazione di “catene commerciali” di più punti vendita caratterizzati da un unico marchio. Le principali politiche commerciali vengono comunque sviluppate a livello centrale. In particolare, le politiche di approvvigionamento, cioè la scelta dei fornitori e la gestione degli acquisti, si strutturano tramite un sistema di piattaforme logistiche, variamente dislocate sul territorio dove agisce la catena commerciale, presso le quali le merci, provenienti dai fornitori, vengono convogliate prima di essere redistribuite ai singoli punti vendita. La localizzazione territoriale di tali piattaforme definisce la scala di azione della filiera, che può essere internazionale, come nel caso dei grandi gruppi commerciali – ad esempio Carrefour e Auchan – o nazionale, come accade per i marchi a valenza locale – come Coop o Conad nel caso italiano.
Al contrario, il commercio al dettaglio su piccole superfici ha una dimensione spaziale molto più contenuta. Si tratta, infatti, di realtà imprenditoriali puntuali, che tipicamente coinvolgono un solo punto vendita e sono spesso gestite a livello familiare. Anche qui, è principalmente la provenienza degli approvvigionamenti a determinare la scala territoriale della filiera collegata. Solitamente, i negozi al dettaglio fanno riferimento ai mercati agroalimentari all’ingrosso, variamente dislocati sul territorio nazionale. Prendendo ad esempio le filiere ortofrutticole, in Italia si registrano 15 principali
mercati all’ingrosso7 – Bergamo, Bologna, Firenze, Fondi (LT), Genova, Milano, Napoli, Padova, Pagani (SA), Pescara, Rimini, Roma, Torino, Verona, Vittoria (RG) – ai quali si aggiungono una miriade di centri distributivi di dimensioni più contenute diffusi pressoché in tutte le province. Ne consegue che, a seconda delle modalità di approvvigionamento, il commercio al dettaglio su piccole superfici può assumere una dimensione territoriale sovraregionale, regionale o provinciale.
Allo stesso schema è possibile ricondurre anche il commercio ambulante, in quanto questa forma è, nella maggior parte dei casi, caratterizzata dalle stesse modalità di approvvigionamento che caratterizzano i negozi al dettaglio.
Un discorso a parte meritano invece le esperienze di filiera corta, che fanno della dimensione locale di produzione e consumo la loro caratteristica principale. In qualunque forma esse si realizzino nella pratica – la vendita diretta, i gruppi di acquisto, i mercati degli agricoltori, i box scheme, il green public procurement – ciò che le accomuna è l’approvvigionamento dei prodotti su scala locale, con l’eliminazione dei passaggi intermedi fra produzione e commercializzazione. La questione principale è quindi, in questo caso, definire cosa si intenda per provenienza locale all’interno di queste iniziative. Tale operazione è piuttosto complessa perché, in effetti, non esiste una delimitazione condivisa della dimensione territoriale del concetto di “locale” (Franco, 2010).
Sul piano operativo molte esperienze di filiera corta, soprattutto i farmers’ market, hanno in qualche modo delimitato il bacino territoriale dal quale provengono gli approvvigionamenti di prodotti, con l’intento di garantire la “località” dell’offerta. Tuttavia, la delimitazione spaziale cambia da esperienza a esperienza, anche a seconda del contesto in cui i farmers’ market sono inseriti, variando dalla dimensione provinciale, alla regione, fino allo Stato. In altri casi, la definizione della scala geografica delle filiere corte è spesso demandata alla percezione dei consumatori, lasciando che sia la domanda da essi espressa a definire la provenienza dei prodotti, piuttosto che imporre limitazioni specifiche.
7
Da questo punto di vista, è interessante notare che il significato di “locale” è tutt’altro che chiaramente definito nella mente dei consumatori, con notevoli variazioni da persona a persona, fortemente dipendenti anche dal contesto socio-culturale. La percezione del locale può fare riferimento a “prodotti del circondario” o “prodotti nazionali” provenienti dallo Stato dove il consumatore risiede (Wilkins et al., 2002). Negli USA, dove la percezione delle distanze è influenzata dall’enorme estensione degli Stati, alcuni consumatori coinvolti in studi sul tema definiscono locale il cibo prodotto nel loro Stato, allargandosi a volte a includere in tale valutazione gli Stati confinanti (Harris et al., 2000). Nel Regno Unito, invece, la delimitazione del territorio considerato locale viene ricondotta, più che a confini amministrativi ben definiti, ad aree con caratteristiche geografiche comuni, percorsi storici condivisi, abitate da persone che condividono lo stesso background socio-economico (Tregear et al., 1999). Anche i consumatori coinvolti nello studio di Zepeda & Leviten-Reid (2004) forniscono risposte molto varie, utilizzando ad esempio le ore di guida per definire la dimensione del locale; in questo studio, svolto negli USA, la distanza considerata accettabile varia da un minimo di due ore a un massimo di sette, che corrisponde, nella percezione di un americano medio, alla distanza oltre la quale ci si sposta in aereo invece che in auto. Da questa breve discussione emerge come non esista una scala territoriale all’interno della quale sia possibile inquadrare tutte le possibili forme organizzative della filiera, dato che né il livello di globalizzazione delle filiere “lunghe”, né la dimensione locale delle filiere corte, possono essere esattamente definite a priori. Sotto questo profilo, la scelta di una dimensione territoriale unica alla quale affrontare l’analisi di un set di filiere aventi diverse caratteristiche, si presenta senza dubbio problematica.