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Il caso di Piergiorgio Welby pag

Tutti i requisiti inividuati per la valida espressione della volontà riguardo i trattamenti sanitari cui essere o meno sottoposti si riscontrano in un altro caso giudiziario, anch’esso ben conosciuto per la lunga vicenda che ha portato alla conclusione dello stesso non senza pochi dubbi e perplessità; tale episodio mostra la riluttanza del nostro sistema giudiziario ad attuare il principio di autodeterminazione in

79 ambito terapeutico, poiché in assenza di norme di legge chiare, l’esercizio di tale diritto si scontra anche con divieti presenti nel codice penale.

Vediamo da vicino come si è sviluppata la vicenda.

Piergiorgio Welby, esponente di rilievo dell'Associazione per la libertà di ricerca scientifica “Luca Coscioni”128, da tempo impegnato

politicamente nella battaglia per l'affermazione del pieno diritto dei malati all'autodeterminazione nelle scelte terapeutiche, nonché fautore dell'introduzione nell'ordinamento italiano del diritto all’eutanasia, si trovava ormai da molti anni in una durissima condizione di salute, essendo affetto da una grave ed irreversibile forma di distrofia fascioscapoloomerale.

Tale patologia, che aveva avuto un brusco peggioramento negli ultimi tempi, impediva allo stesso qualsiasi movimento, con l'esclusione di quelli labiali ed oculari, obbligandolo ad usufruire della respirazione artificiale mediante ventilatore meccanico, cui era attaccato dal 1997.

Si trattava di una patologia con prognosi necessariamente infausta, di cui non poteva in alcun modo essere arrestato il decorso.

La dolorosa progressione della malattia aveva portato Welby, ancora pienamente in possesso di tutte le facoltà mentali e pertanto in

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L'Associazione Luca Coscioni per la libertà di ricerca scientifica è stata fondata il 20 settembre 2002 da Luca Coscioni, malato di sclerosi laterale amiotrofica e leader politico radicale della campagna per la libertà di ricerca sulle cellule staminali embrionali, per «promuovere la libertà di cura e di ricerca scientifica, l'assistenza personale autogestita e affermare i diritti umani, civili e politici delle persone malate e disabili». Nel 2005 l'Associazione ha promosso la campagna referendaria volta a cancellare la legge n. 40 che ha imposto divieti sul ricorso alla fecondazione assistita e la ricerca sulle cellule staminali. Lo stesso anno, ha promosso il Congresso mondiale per la libertà della scienza che ha visto convergere sulle sue proposte premi nobel, scienziati, medici e pazienti da tutto il mondo.

L'Associazione è soggetto costituente del Partito radicale transnazionale. Oltre alla campagna per la libertà di ricerca e la laicità, l'Associazione Luca Coscioni ha condotto e conduce molte altre battaglie per i diritti dei malati, dei disabili e per una società che garantisca a tutti le cure, la libertà individuale, e condizioni più umane di

vita. Per maggiori informazioni:

80 grado di esprimere una volontà libera e consapevole, a chiedere la sospensione delle terapie mediche ed in particolare il distacco del respiratore artificiale, al fine di interrompere il protrarsi di un sostentamento meccanico a quella che a suo giudizio era da considerarsi una mera prosecuzione artificiale di una vita puramente biologica, non più rispettosa della sua dignità di uomo; chiedeva, pertanto, di consentire che la patologia facesse il suo corso naturale, benché ciò comportasse la sua morte.

Tale volontà fu portata da Welby all'attenzione dell'opinione pubblica con una lettera al Presidente della Repubblica e successivamente ai direttori delle principali testate giornalistiche.

Inoltre, in data 24 novembre 2006, il ricorrente manifestò la volontà di non consentire il proseguimento delle terapie di sostentamento in vita, con la richiesta alla struttura ospedaliera ed al medico dai quali era professionalmente assistito di procedere appunto al distacco del respiratore artificiale, sottoponendo il paziente alla contestuale sedazione terminale, ovvero alla somministrazione di sostanze dirette a lenire le sofferenze fisiche in conseguenza della sospensione della ventilazione meccanica.

La richiesta, però, venne respinta dai suoi destinatari in data 25 novembre 2006 a seguito del ricorso giurisdizionale proposto da Welby ai sensi dell'art. 700 del codice di procedura civile, con cui si chiedeva al giudice civile di Roma l'adozione di un provvedimento che ordinasse ai soggetti che avevano in cura il ricorrente di provvedere all'immediato distacco del respiratore artificiale e alla contestuale sedazione del paziente.

Il Pubblico Ministero, intervenuto nel giudizio, ritenne che dovesse riconoscersi l'ammissibilità della richiesta di distacco del respiratore ma non quella, anch’essa formulata, di ordinare ai medici di astenersi dall'eventuale decisione di ripristinare la terapia, poiché decisione rimessa alla discrezionalità del medico.

81 Il Tribunale di Roma, con l'ordinanza del 16 dicembre 2006, dichiarò il ricorso inammissibile, pur riconoscendo la sussistenza di un diritto all'autodeterminazione nelle scelte terapeutiche da parte del ricorrente, poiché venne ritenuto un “diritto non concretamente

tutelato dall’ordinamento” e in assenza di “una forma di tutela tipica dell’azione da far valere nel giudizio di merito” ciò non può che

comportare “l’inammissibilità dell’azione cautelare, attesa la sua

finalità strumentale e anticipatoria degli effetti del futuro giudizio di merito”129.

Sulla questione si pronunciò anche il Consiglio Superiore di Sanità, interrogato al fine di dare un parere sulla sussistenza o meno di una forma di accanimento terapeutico, fornendo tuttavia parere negativo130.

La stessa ordinanza venne poi impugnata dal Pubblico Ministero in data 19 dicembre, ma la vicenda processuale trovò una sua estinzione in seguito alla morte di Piergiorgio Welby, avvenuta nella notte tra il 20 e il 21 dicembre 2006 con l'intervento del dottore Mario Riccio, il quale provvide a dare esecuzione alla volontà dello stesso con le modalità sopra indicate; successivamente il dottor Riccio venne iscritto dalla Procura della Repubblica di Roma nel registro degli indagati, per la possibile violazione delle norme del codice penale che sanzionano l'omicidio del consenziente e l'aiuto al suicidio131.

La stessa Procura formulò in seguito richiesta di archiviazione del procedimento nei confronti del dottore, ritenendo che la condotta

129

Cfr. ordinanza del Tribunale civile di Roma, Sezione prima, del 16

dicembre 2006, disponibile sul sito

http://www.eius.it/giurisprudenza/2006/150.asp.

130 L’accanimento terapeutico consiste, secondo il parere espresso dal Comitato Nazionale per la Bioetica in materia di assistenza ai pazienti terminali del 6 settembre 1991, in “un trattamento di documentata inefficacia in relazione all’obiettivo, a cui si aggiunga la presenza di un rischio elevato e/o una particolare gravosità per il paziente con un’ulteriore sofferenza, in cui l’eccezionalità dei mezzi adoperati risulta chiaramente sproporzionata agli obiettivi della condizione specifica”.

131

82 dello stesso non potesse considerarsi, sotto il profilo della responsabilità penale, causalmente legata alla morte del paziente.

Il giudice delle indagini preliminari di Roma, tuttavia, respinse la richiesta di archiviazione, disponendo la formulazione da parte del Pubblico Ministero dell'imputazione per il reato di omicidio del consenziente, qualificando dunque il comportamento del dottore Riccio quale eutanasia passiva.

Il 23 luglio 2007 il giudice dell’udienza preliminare di Roma pronunciava sentenza di proscioglimento per Mario Riccio, ritenendo che costui avesse agito nell' “adempimento di un dovere”, corrispondente al dovere di assecondare la richiesta di Welby d'interrompere il trattamento medico, perché richiesta legittima ed espressione di un diritto costituzionalmente tutelato.

Il diritto alla salute viene riconosciuto quale diritto fondamentale dell'individuo oltre che interesse della collettività già nella Costituzione, come più volte osservato; la stessa giurisprudenza ordinaria, soprattutto a partire dalla nota sentenza “Massimo” del 21 aprile 1992, precedentemente citata, ha ormai da tempo riconosciuto l'esistenza di un principio “consensualistico” in materia di trattamenti sanitari.

Se quindi il presupposto di legittimità dei trattamenti terapeutici è dato necessariamente dal consenso del paziente, deve affermarsi la sussistenza di un pieno diritto dell'individuo all'autodeterminazione nella scelta delle cure mediche, tale anche da consentire l'astensione da qualsiasi trattamento terapeutico, che può configurarsi anche come sospensione di cure legittimamente iniziate, non potendo attribuirsi efficacia irrevocabile al consenso prestato all'inizio delle terapie132.

132

Cfr. VICECONTE, Il diritto di rifiutare le cure: un diritto costituzionale non tutelato? Riflessioni a margine di una discussa decisione del giudice civile sul “caso Welby”, in Giur. cost., 2007, 03, 2359.

83 Quanto affermato, consente di riconoscere la sussistenza di un diritto negativo alla salute, un diritto a rifiutare le cure, azionabile e giurisdizionalmente tutelato.

Le riflessioni sin qui effettuate sono state attentamente prese in considerazione anche dall'ordinanza del Tribunale civile di Roma del 16 dicembre 2006, che le fa completamente proprie, riconoscendo come il rapporto medico-paziente abbia subito un profondo mutamento sul piano culturale e sociale e dovendosi attribuire un grande valore alle decisioni del malato, che diventa così il vero protagonista delle scelte terapeutiche e non l'oggetto delle attenzioni della scienza medica.

Si afferma quindi che anche per il rifiuto delle terapie salvavita debba valere quanto sopra detto, riconoscendo il diritto del singolo ad autodeterminarsi anche rispetto a tale categoria di cure, dovendosi fare riferimento ai medesimi principi costituzionali a prescindere dalle cure a cui il malato è soggetto; cosi che anche qualora il malato richieda la cessazione delle pratiche artificiali di sostentamento in vita, quali ad esempio il ventilatore meccanico, come nel caso del ricorso proposto da Welby, deve ritenersi sussistente il suo diritto a vedere cessati tali trattamenti terapeutici.

In questa ottica, la fonte del dovere per il medico risiede “in

prima istanza nella stessa norma costituzionale, che è fonte di rango superiore rispetto alla legge penale, e l'operatività della scriminante (...) è giustificata dalla necessità di superare la contraddizione dell'ordinamento giuridico che, da una parte, non può attribuire un diritto e, dall'altra, incriminarne il suo esercizio”133.

In base alle argomentazioni sin qui sostenute, pertanto, non può ritenersi corretto l'orientamento espresso nell'ordinanza del giudice delle indagini preliminari di Roma, la quale aveva disposto l'imputazione coatta nei confronti del dottore Mario Riccio, ritenendo

133 Cfr. CUPELLI, Il “diritto” del paziene (di rifiutare) e il “dovere” del medico (di non preservare), in Cass. pen., 2008, 5, 1807.

84 il distacco del respiratore quale comportamento integrante il reato di omicidio del consenziente, facendo rientrare dunque quella che è stata configurata come eutanasia passiva consensuale nell'ambito di applicabilità dell'art. 579 del codice penale.

Come osservato in precedenza, infatti, il diritto di rifiuto delle cure, quale diritto di libertà, si congiunge in vicende come quella in esame al dovere del medico di dare piena esecuzione alla volontà del paziente, che si è visto essere alla base sia della disciplina di matrice costituzionale sia dei doveri deontologici del medico.

La pretesa del malato ad un determinato comportamento da parte del medico trova origine nell'esistenza di precisi doveri in capo a quest'ultimo, doveri finalizzati a dare esecuzione e piena tutela al diritto costituzionale di cui all'art. 32 della Costituzione; nella fattispecie il medico ha posto in essere una condotta causativa della morte del paziente, ma è possibile ravvisare l'esimente dell'adempimento di un dovere ai sensi dell'art. 51 del codice penale, dato che, a seguito del rapporto instauratosi tra paziente e medico, non può il secondo non tenere conto della volontà del primo che si avvale del diritto costituzionalmente tutelato al rifiuto di cure, che deve comunque prevalere nel possibile contrasto con l'art. 579 dello stesso codice.

In sostanza, l'esercizio del diritto di cui all'art. 32, comma 2 della Costituzione da parte del titolare ha, per espressa e insuperabile previsione costituzionale, come suo unico limite quello specificatamente contemplato da una norma di legge; "pertanto, la

norma costituzionale, ponendo una stretta riserva di legge all'individuazione dei limiti da apporre al libero dispiegarsi del diritto di autodeterminazione in materia sanitaria, ha tracciato espressamente una unica strada entro la quale solo il legislatore ordinario potrà bilanciare i diritti e i diversi interessi in gioco,

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dettando le regole necessarie ed i confini al libero esercizio delle facoltà riconosciute alla persona..."134.

Se, pertanto, la tesi seguita dal giudice delle indagini preliminari di Roma appare fondata su erronei presupposti interpretativi, la sentenza con cui è stato prosciolto il dottor Riccio, escludendo la responsabilità penale del medico che interrompa un trattamento su richiesta del malato in virtù del ricorrere della scriminante di cui all'articolo 51 del codice penale, sembra far proprie le riflessioni sin qui espresse.

A detta del giudice penale, infatti, i principi costituzionali in materia di rapporto medico-paziente, vietando qualsiasi trattamento sanitario posto contro o in assenza del consenso del paziente, salvo i casi previsti dalla legge, impongono al medico il preciso dovere di dare piena esecuzione alla volontà del malato, anche quando la stessa si manifesti come richiesta di sospensione di un trattamento terapeutico.

Dando esecuzione alla volontà di Welby, quindi, il dottor Riccio non avrebbe fatto altro che adempiere al suo dovere di rispettare quanto previsto da un diritto costituzionalmente tutelato, il diritto di rifiutare le cure, il che, dunque, escluderebbe l'antigiuridicità del suo comportamento; e ciò è in piena conformità con la decisone dell'ordine dei medici, che non ha ritenuto potesse ascriversi in capo al dottore Riccio alcuna responsabilità per violazione dei doveri deontologici.

Nella vicenda in esame, pertanto, essendo Welby pienamente consapevole delle proprie decisioni, andava considerato egli stesso quale giudice delle proprie terapie, potendo chiedere l'interruzione anche di quelle che dal medico potessero essere ritenute non di mero accanimento; si trattava infatti di un rifiuto di cure personale, libero, gratuito, informato e attuale.

134

Così si è espresso il Tribunale penale di Roma nella pronuncia sopra richiamata. Cfr. D’AVACK, Sul consenso informato all’atto medico, in Dir. Famiglia, 2008, 02, 759.

86 In caso contrario, il malato tornerebbe ad essere mero oggetto della scienza medica, che avrebbe esclusiva sovranità sulla sua vita, con evidente distorsione del suo diritto all'autodeterminazione, in virtù dell'imposizione di una terapia in assenza di alcuna previsione legislativa.

Non è nemmeno possibile differenziare la tutela giuridica dei casi di sospensione di terapie mediche farmacologiche dall'interruzione di terapie che avvengono mediante mezzi meccanici, perché ciò significherebbe togliere effettività e tutela ad un diritto costituzionalmente riconosciuto, quello ad interrompere un trattamento terapeutico, per quegli individui i quali, a causa della loro inabilità fisica, non sono in grado di sospendere autonomamente un determinato trattamento; con la conseguenza paradossale che un diritto fondamentale sarebbe meno garantito nei confronti di un soggetto più debole, dando luogo ad un'evidente discriminazione nell'esercizio di un diritto costituzionale che si porrebbe in serio contrasto col principio di uguaglianza riconosciuto all’art. 3 della Costituzione.

Nella vicenda in esame, la Procura della Repubblica di Roma, nell'atto di intervento, valuta come legittima la richiesta di sospensione della respirazione artificiale, con la contestuale sedazione del ricorrente, riconoscendo tuttavia anche il diritto del medico a ripristinare la terapia successivamente alla sua interruzione, se ritenuta opportuna per la salvaguardia del paziente.

In questo caso, interverrebbe l'articolo 54 del codice penale, che impedirebbe di configurare un'antigiuridicità del comportamento del medico in quanto imposto dallo stato di necessità; in nessun modo, pertanto, potrebbe prospettarsi una sua incriminazione per il reato di violenza privata.

In altri termini, dunque, in seguito alla sospensione delle terapie salvavita, data la situazione d'incoscienza del paziente, il medico potrebbe ripristinare tali trattamenti, ma anche desistere dal far ciò

87 qualora valuti tale ripristino quale atto assolutamente futile, qualificabile come mero accanimento terapeutico (così l'argomentazione della richiesta d'archiviazione nel procedimento contro il dottor Riccio).

Di conseguenza, l'eventuale ripristino delle terapie sarebbe legittimo allo stesso modo del non intervento, lasciandosi un'ampia discrezionalità al medico; con l'effetto di lasciare il paziente soggetto ad un continuo arbitrio altrui, potendo essere curato o meno secondo la valutazione che il medico faccia della situazione, arrivando alla conclusione che il malato sarebbe sovrano solo se cosciente, mentre il medico avrebbe piena discrezionalità nel caso di stato d'incoscienza.

L'illogicità di una tale soluzione è di tutta evidenza; nel caso in esame ed in casi analoghi, infatti, la volontà del paziente alla sospensione delle terapie comporta una ponderata valutazione del rischio di morte; riguardo a Welby, pertanto, il ripristino della ventilazione meccanica avrebbe significato non tenere minimamente in considerazione la volontà del paziente, poiché in nessun modo la morte avrebbe potuto considerarsi quale circostanza imprevedibile dallo stesso al momento della scelta.

Dunque, l'intervento del medico avrebbe violato sia i principi costituzionali sia quelli della Convenzione, nonché le regole deontologiche che danno rilievo alla volontà del paziente.

In tal caso, allora, la scriminante dello stato di necessità avrebbe operato contro un diritto fondamentale dell'individuo, mentre si è sottolineato come l'articolo 54 del codice penale non attribuisca al medico la facoltà di sottoporre il paziente a qualsiasi intervento ritenuto necessario e non di mero accanimento135.

La vicenda di Welby, d'altronde, costituisce uno dei casi di più semplice risoluzione, riguardando un soggetto pienamente cosciente e

135

Cfr. VICECONTE, “Il diritto di rifiutare le cure: un diritto costituzionale non tutelato? Riflessioni a margine di una discussa decisione del giudice civile sul “caso Welby”, in Giur. cost., 2007, 03, 2359.

88 consapevole, in grado dunque di manifestare il proprio consenso o dissenso a qualsiasi tipo di trattamento.

La richiesta di costui, per essere disattesa, avrebbe richiesto una motivazione che dimostrasse l'impossibilità di riconoscere una tutela ai suoi diritti in virtù dell'esigenza di salvaguardare situazioni contrapposte136.

A ben vedere, il problema che si pone non riguarda l’impossibilità di dare rilevanza al consenso espresso dal soggetto, ma salvaguardare il medico che dà attuazione alla volontà dello stesso; infatti, esso potrebbe facilmente essere accusato dei reati previsti dal nostro codice penale agli art, 575, 578 e 579, qualora assecondasse il rifiuto del trattamento da parte del paziente e da ciò derivasse la morte dello stesso, come successo per il caso “Welby”.

Ma se è presente il consenso, e se la relazione terapeutica instauratasi tra medico e paziente si esplica nel dialogo tra i due, nell’ “alleanza”, che può portare anche alla ricerca di una linea di condotta comune, perché punire il medico per aver eseguito la volontà del paziente?

Perché pur in presenza di un espresso consenso di costui il medico deve sentirsi vincolato e limitato dall’ordinamento giuridico? L’aspetto cruciale riguarda quindi la responsabilità del medico, anche nei confronti della struttura sanitaria (pubblica o privata) presso la quale il sanitario presta la propria attività; ciò ha ampliato la c.d “medicina difensiva”, consistente nella modifica del comportamento

136

“Pur nella difficoltà di trovare una normativa chiara e applicabile al caso di specie, paradossale è che ciò che venga messo da parte e ritenuto inutile alla risoluzione della controversia sia la fonte gerarchicamente superiore per antonomasia, il testo costituzionale”. Cfr. VICECONTE, La sospensione delle terapie salvavita: rifiuto delle cure o eutanasia? Riflessioni su autodeterminazione e diritto alla vita nella giurisprudenza delle corti italiane, in Rivista AIC n. 1/2011 dell’ 1/2/2011, disponibile sul sito www.rivistaaic.it/articolorivista/la-sospensione-delle-

89 professionale dei medici, a causa del timore di procedimenti giudiziari per “malpractice”, il tutto a danno dei pazienti.137

Affermare l'esistenza di un diritto costituzionale e negare ad esso tutela poiché il sistema normativo non appare chiaro a tal proposito, non ha altro significato che eludere quella domanda di giustizia a cui si è chiamati a dare risposta; è come dire che il paziente ha sì il diritto di richiedere l'interruzione della terapia, ma questo diritto non è tutelabile, né eseguibile dato il vuoto normativo presente nel nostro ordinamento che non individua in maniera compiuta l'ampiezza del principio di autodeterminazione, prendendo in esame i diritti dei malati in fin di vita.

Sul piano della teoria generale una pretesa non tutelata dall'ordinamento giuridico può essere una mera prerogativa, certo non un diritto soggettivo perfetto, come quello riconosciuto dall'ordinanza

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