te, per impostazione registica, con l’interpretazione sviluppata dal giovane Vygotskij. Cfr. Lev S. Vygotskij, La tragedia di Amleto, a cura di Vjačeslav V. Iva- nov, Editori Riuniti, Roma 1973, pp. 7-8.
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Lo studio contenuto nella Psicologia dell’arte non costitui- sce però lo sviluppo delle considerazioni esposte in tale sede, che riflettono sensibilmente l’atmosfera culturale del perio- do e, in particolar modo, l’approccio simbolista all’arte,26 ma
riconsidera il capolavoro shakespeariano nell’ottica specifica del volume, concentrandosi sugli elementi della composi- zione in funzione della sua ricezione da parte del lettore/ spettatore e dell’effetto psicologico correlato.
L’apertura dello scritto inquadra la questione nei ter- mini dell’enigmatica natura dell’opera, che costringe la critica a congetturare le motivazioni dell’azione oltre ciò che è esplicitato dalla vicenda, nel tentativo di risolvere la condizione di «incomprensione e stupefazione»27 in cui, per
consenso universale, lo spettatore si trova alla conclusione della sua esperienza. Gli interventi congetturali, tuttavia, aggiungono all’opera invariabilmente qualcosa che non le appartiene, traendo dall’esterno gli elementi per tentare un’interpretazione convincente del perché il corso dell’a- zione non corrisponde all’attesa.
La spiegazione caratteriale di goethiana memoria, così come quelle che imputano l’apparente disequilibrio com- positivo ai condizionamenti della tecnica drammaturgica o alla peculiarità del materiale originale, non sono in grado di fornire una soluzione soddisfacente all’enigma, poiché non risulta affatto arduo individuare argomenti contrari: una documentata rassegna di interpretazioni critiche, ciascuna debitamente discussa, sorregge la tesi; quindi, la recente occasione di una rappresentazione al Secondo Teatro d’Arte di Mosca28 fornisce a Vygotskij l’esemplificazione più palese
26. «Più propriamente, il nostro breve studio è un tentativo d’interpretare la tragedia come mito: tentativo che, nella critica shakespeariana, è il primo. Nella tragedia antica, nella Bibbia, la fabula non è inventata, non ha il carattere d’un esempio, d’una possibilità, di qualcosa di collaterale, né è una semplice caratte- rizzazione animata di certi personaggi: essa è un mito, una realtà mistica. Ad essa spetta, esteticamente, il prius: da essa, susseguentemente, si srotolano le figure, i caratteri, le idee, nelle quali il simbolo non è un’allegoria, ma una realtà (Vjač. Ivanov)» (Ivi, p. 24). Il Vjačeslav Ivanov citato da Vygotskij non è, naturalmente, il curatore del volume ma il poeta e teorico considerato il caposcuola del Simbo- lismo russo. Significativamente, il volume riporta in epigrafe alla prefazione la frase di Oscar Wilde: «Chi vuole decifrare un simbolo lo fa a proprio rischio». 27. PA, p. 231.
28. La rappresentazione a cui ci si riferisce è l’Amleto andato in scena al MCHT-2 (Teatro d’Arte di Mosca-2, già “primo Studio”) nel 1924, per la regia collettiva
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di come la scelta di un’interpretazione coerente della tra- gedia comporti la modifica o la soppressione di alcuni suoi elementi, o anche l’introduzione di altri ad essa estranei: in mano alla critica, Amleto ha subito una simile – se non peggiore – sorte. Di conseguenza,
[c]hi vorrà studiare Amleto come un problema psicologico, dovrà lasciare del tutto in disparte la critica. Noi ci siamo sforzati in precedenza di mostrare sommariamente quanto scarso sia l’aiuto che essa dà a un giusto orientamento dello studioso, e quanto spesso spinga addirittura fuori strada. Perciò, il nostro punto di partenza per una indagine psico- logica dovrà essere il proposito di liberare Amleto da quegli undicimila volumi di commentario, che l’hanno schiacciato sotto la loro mole, e dei quali parla con orrore Tolstoj. Bisognerà prendere la tragedia com’è, osservare ciò che essa dice non già al chiosatore astruso, ma allo studioso non sofisticato; bisognerà prenderla vergine di commenti, e guardarla tale qual è. Altrimenti, si rischierebbe di esami- nare, in luogo del sogno originario, l’interpretazione che ne è stata data.29
Ed è appunto Tolstoj (Shakespeare e il dramma) che offre lo spunto di questa revisione radicale dell’opera shakespea- riana, se non altro per il suo intento di smascherare una tradizione critica che non ha denunciato le sostanziali in- coerenze del carattere di Amleto spacciandole per geniali innovazioni autoriali; nelle conclusioni dello scrittore, pe- rò, si ravvisano motivazioni di natura estranea all’arte e, al contempo, pregiudizi di natura estetica così radicati da ostacolare un’indagine approfondita su elementi che, inve- ce, meritano un’osservazione più accurata.
Il confronto tra la saga (la fabula) che ispira l’Amleto (il soggetto) era stato introdotto da Tolstoj per giudicare un insuccesso la scelta operata da Shakespeare nella composi- zione del dramma, poiché la definizione cristallina del ca- rattere nella vicenda originale non aveva una trasposizione di Smyšljaev, Tatarinov e Čeban, con Michail Čechov nel ruolo del protagonista (cfr. Massimo Lenzi, La natura della convenzione. Per una storia del teatro dramma- tico russo del Novecento, Testo & Immagine, Torino 2004, pp. 134-135). Non è in questione la celebrata quanto discussa interpretazione di Michail Čechov ma la riduzione del testo operata, come esempio di una possibile ma artificiosa soluzio- ne dei problemi concreti che esso presenta.
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adeguata nel personaggio; secondo Vygotskij, la questione da porre riguarda invece l’esistenza di motivazioni per tale scelta, da cui appunto sorgono tutti gli ostacoli all’interpre- tazione, considerando anche che il dramma è chiaramente ispirato a un modello, come quello della revenge tragedy, il cui andamento drammatico canonico è costantemente e deliberatamente messo in discussione.
Chiarito che le convenzioni del teatro elisabettiano non potevano ingenerare nello spettatore la percezione dell’as- senza di indugi da parte di Amleto – quantunque l’azione scorresse ininterrotta, esitazioni e dubbi non potevano ca- dere inavvertiti, data la loro evidenza – la soluzione può essere ricercata soltanto attraverso un’indagine sui motivi della scelta, tanto più che la conclusione del dramma giun- ge come qualcosa di assolutamente inatteso e, nonostante realizzi la vendetta prevista, questa appare determinata da una concomitanza di casi fortuiti.
Durante il procedere dell’azione, inoltre,
nella coscienza dello spettatore,30 stanno sempre riunite
due idee che non è possibile tenere unite: da un lato, egli vede che Amleto deve vendicarsi, e che nessuna causa né interiore né esteriore gli può impedire di far questo, non solo, ma anzi l’autore gioca con la sua impazienza, gli mette sotto gli occhi la spada già levata sul re e poi d’un tratto, a sorpresa, riabbassata giù; dall’altro lato, vede Amleto in- dugiare, ma senza riuscire a comprendere le cause di tali indugi, e di continuo avvertendo che la tragedia si svolge in una specie di contraddizione intima, giacché sempre quella meta è chiaramente segnata in fondo a essa, mentre ha netta coscienza, lo spettatore, di tutte le deviazioni dal cammino, che l’azione compie nel suo svolgimento.31
Il modello proposto nel capitolo precedente, in relazione all’analisi del racconto di Bunin, viene adesso applicato nuovamente per individuare la contraddizione tra la li- nea retta della fabula di vendetta e il continuo deviare del 30. Come può essere verificato dalle citazioni del testo riportate in queste pa- gine, Vygotskij utilizza sempre il termine «spettatore» in luogo di «lettore», in- dicando di riferirsi a un’ideale versione performativa della tragedia shakespea- riana, comunque presumibilmente influenzata dalle rappresentazioni di cui era stato testimone.
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tracciato per le vie tortuose della composizione; ma questa considerazione non contiene in sé la spiegazione, che va individuata proprio ove le due linee si incontrano defini- tivamente.
L’ultima scena dell’Amleto è infatti la sintesi di questo du- plice andamento, laddove l’uccisione del re, replicata due
volte (con il calice avvelenato ed il fioretto) senza una giusti- ficazione evidente, sembra ricongiungere i percorsi alterna- tivi che si erano dipanati lungo tutto il corso del dramma, costantemente e deliberatamente sottratti alla comprensio- ne dello spettatore grazie anche alle «intrusioni di materiale del tutto irrazionale»32, che vengono definiti «parafulmini
del nonsenso»:33
L’insensatezza viene addotta così in copiosa abbondan- za, in questa tragedia, a bella posta per salvarne il senso. Come per mezzo di un parafulmine, il nonsenso viene di- rottato ogni volta che esso minacci di dilacerare l’azione e di far esplodere la catastrofe, pronta a insorgere da un momento all’altro.34
Insieme a questo procedimento, che attraverso l’esaspera- zione dell’inverosimiglianza sembra ottenere un effetto del tutto opposto, attraendo l’interesse e sostenendo i senti- menti dello spettatore anziché provocare il distacco che ne dovrebbe conseguire, ne compare un secondo, incentrato sulla «convenzionalità elevata al quadrato»35 entro la quale
l’azione si sdoppia nella sua controparte fittizia, con il ri- sultato di conferire un aspetto di realtà a ciò che altrimenti non potrebbe risultare credibile. Nello specifico:
L’attore declama il suo patetico monologo su Pirro, l’attore piange, ma Amleto già durante il suo monologo sottolinea che quelle non sono che lacrime del mestiere, che costui piange per Ecuba, con la quale non ha niente a che fare, cosicché le sue sono lacrime e passioni puramente fittizie. E quando, a questa fittizia passione dell’attore, egli
32. Ivi, p. 260. Vygotskij elenca «la pazzia di Ofelia», «la reiterata pazzia di Am- leto, e le beffe che egli si fa di Polonio e dei cortigiani, e la declamazione am- pollosamente insensata dell’attore, e quel cinismo […] del dialogo tra Amleto e Ofelia», «la pagliacciata dei becchini» (Ibidem).
33. Ivi, p. 261.