CAPITOLO 4 – ENTOGRAFIA DELLA POLISPORTIVA SAN PRECARIO
4.1 Introduzione all’etnografia
4.1.2 Cenni etnografic
Sono passati quasi tre anni da quando, a novembre 2015, sono entrato a far parte della squadra di calcio della San Precario e di tutto l’universo della polisportiva. A quel tempo mi ero appena trasferito a Padova ma il mio primo ricordo della polisportiva risale a prima della mia partenza, quando navigando in internet alla ricerca di una squadra mi sono imbattuto in alcuni video delle partite della San Precario, sorprendendomi per il calore e la particolarità di quell’ambiente ancora a me sconosciuto.
La mia conoscenza del calcio giocato si basava fino ad allora solo sulle esperienze dilettantistiche delle zone limitrofe al paesino marchigiano in cui vivevo. Da quelle parti il calcio, essendo l’unica attività praticabile, assume un valore assoluto; è la vita a ruotare intorno ad esso e non viceversa, scandendone il tempo in base agli impegni sportivi settimanali. Le sfide tra i paesi vicini sono viste come delle vere e proprie battaglie e i giocatori come degli idoli, tanto che le storie più spettacolari, come le leggende, vengono tramandate di bocca in bocca per decenni. D’altro canto però in queste zone la sportività non è proprio uno dei valori più riconosciuti e nel corso della mia vita calcistica ho dovuto assistere a più di una manifestazione di becero fanatismo.
Per di più l’idea delle società che mi ero fatto era quella di un ambiente scarsamente attento al lato umano dei propri giocatori, mentre i risultati sportivi ed economici sono motivo di ben più attenzione da parte delle dirigenze. Entrare a far parte della realtà della San Precario è stato scioccante sotto questo punto di vista e ne ho tratto delle lezioni fondamentali.
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Ricordo ancora con piacere le sensazioni del primo giorno quando, appena arrivato, ho immediatamente avvertito l’affetto che solo gli spogliatoi migliori riescono a darti.
Studenti fuori sede da ogni parte dell’Italia, giovani lavoratori precari, lavoratori precari adulti, una ciurma eterogenea di sbandati e calorosi “pirati”. Ogni allenamento si trasformava in una festa, un punto di ritrovo, l’unico modo che conoscevo per sconfiggere la nebbia e il freddo padovano.
I risultati scarseggiavano, ma nonostante ci si stava giocando la prima presenza nel campionato di seconda categoria dopo 8 anni di infima “terza” e la retrocessione incombeva, la squadra continuava a divertirsi, alternando sul campo lampi di spettacolarità ad indicibili ingenuità.
A colpirmi più di tutto fu proprio l’atmosfera di gioiosa allegria dopo ogni partita; indipendentemente dalla vittoria o dalla sconfitta si festeggiava e venivano imbanditi ricchi banchetti, i famosi terzi tempi emulati dalla tradizione rugbistica60, una vera rarità nel calcio.
La tifoseria, un’altra eccezione a livello dilettantistico, incarna perfettamente questo spirito; vedere ogni domenica un centinaio di supporters cantare, bere, urlare e divertirsi è qualcosa che va ben oltre i 90 minuti, sancisce piuttosto la presenza di un microcosmo fondato sui valori dell’amicizia e sul rispetto dell’avversario, uno sport che va oltre il gioco costituendo un vero e proprio sistema culturale61.
Alla fine retrocedemmo, ma questo non spense il fuoco che anima la società; tutt’altro, la seconda categoria è stato il preludio dell’annata fantastica che avremmo affrontato l’anno successivo, l’anno in cui siamo riusciti a schierare tre richiedenti asilo, il tassello che mancava alla squadra per rendere completo il métissage che contraddistingue questa società e tornare in seconda categoria grazie ai play-off.
60 Cfr. Giorgis 2009 61 Porro 2008
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Il percorso che ci ha consentito di l’importante traguardo del tesseramento dei richiedenti asilo passa anche per le mie mani.
Nel corso dell’estate dopo la retrocessione sono stato assunto, successivamente al tirocinio formativo, come operatore sociale dalla cooperativa “Orizzonti”, un ente gestore di un CAS all’interno della provincia padovana che nel 2016 accoglieva una settantina di migranti62.
Con il tempo il luogo di lavoro si è trasformato in un campo di studio, un vero e proprio laboratorio etnografico dove ogni giorno imparavo qualcosa di nuovo, sfruttando parallelamente le mie competenze per rendermi utile nel percorso d’integrazione dei richiedenti asilo.
Inizialmente un po’ in maniera casuale, tra le varie attività di sostegno che svolgevo, mi era stato affidato dal coordinatore dell’equipe di Orizzonti il ruolo di operatore sportivo: il mio compito era quello di curare l’inserimento dei richiedenti asilo all’interno delle società sportive di Padova, in base alle loro attitudini ed esigenze personali.
Era emerso, infatti, un atteggiamento di insofferenza da parte di molti giovani richiedenti asilo accolti nelle nostre strutture, i quali, specialmente per quanto riguarda i ragazzi da più tempo all’interno del nostro progetto di inserimento che non avevano ancora trovato lavoro, manifestavano il loro scontento per la loro situazione di snervante immobilità e un motivato interesse verso l’attività sportiva.
Come affiorerà più volte all’interno di questa ricerca, credo che una delle criticità più significanti delle dinamiche d’accoglienza sia dovuta proprio a questa incessante situazione di stallo; attesa della Commissione, attesa del ricorso, attesa del proprio riconoscimento di protezione, attesa di trovare lavoro: i richiedenti asilo ospitati nelle strutture di accoglienza straordinaria
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non fanno che attendere, catapultati in un sistema che alimenta il loro stato di inattività.
Esiste una psicopatologia, la quale colpisce un gran numero di richiedenti asilo, che prende il nome di Sindrome di Ulisse; i migranti che ne vengono affetti manifestano condizioni di isolamento sociale, assenza di opportunità, senso di fallimento degli obiettivi migratori63, in poche parole la caduta in uno status di totale inerzia che li rende incapaci di partecipare ad ogni genere di attività inclusiva.
Il migrante è lì, “parcheggiato” come si dice nel gergo degli operatori, nell’appartamento senza partecipare e aderire alle opportunità offertogli dal progetto di accoglienza.
In questi casi l’attività sportiva può fungere da panacea, può essere il primo passo per spingere il richiedente asilo a riprendere in mano la propria vita, gestire lo stress e organizzare la propria giornata in maniera strutturata. Citando Siebetcheu “lo sport rappresenta per i migranti una valvola di sfogo per uscire dall’isolamento logistico e mentale”64, è un metodo efficace per acquisire capacità di puntualità, precisione e costanza.
Così, unendo la mia passione per lo sport e la polisportiva San Precario con il mio lavoro ho iniziato a seguire l’inserimento sportivo di diversi ragazzi, cinque di loro in particolare hanno poi continuato a svolgere la pratica in maniera continuativa raggiungendo alcuni traguardi in termini sportivi e tutti eccetto uno fanno o facevano parte della polisportiva San Precario: Djamal, nella squadra di basket, Ibrahim e Lamine nella squadra di calcio a cinque, Keita ed Alassan per il calcio a 11.
Vista la giovane età invece, Alagie entrò a far parte della società calcistica “Gregorense”, nella categoria Juniores.
63 Dal sito web medicinanarrativa, consultabile all’indirizzo:
http://www.medicinanarrativa.eu/la-sindrome-di-ulisse-e-la-salute-mentale-dei-rifugiati- alcuni-studi-della-who
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