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Lo spirito di sacrificio e l’ingiustizia dell’esclusione

CAPITOLO 4 – ENTOGRAFIA DELLA POLISPORTIVA SAN PRECARIO

4.2 La campagna “We Want to Play”

4.2.1 Lo spirito di sacrificio e l’ingiustizia dell’esclusione

Il mio lavoro etnografico all’interno della polisportiva San Precario inizia a settembre 2016, quando, dopo aver parlato con Roberto, il presidente della polisportiva, inseriamo due richiedenti asilo della cooperativa Orizzonti all’interno della squadra di calcio a 11 che stava per affrontare il campionato di terza categoria.

Alassan, gambiano, e Keita, guineano, iniziano la preparazione alla stagione calcistica, un periodo di tre settimane di allenamenti quasi quotidiani che precede l’inizio del campionato.

Assieme i due vi è anche un altro giovane richiedente asilo, Henry, un ragazzo nigeriano anche lui accolto all’interno di un altro progetto di accoglienza e che subito colpisce i compagni di squadra per la sua bravura come calciatore. La mia presenza all’interno del gruppo è allo stesso tempo affascinante e ambivalente, incarnando in qualche modo la definizione antropologica dell’osservatore partecipante. Gioco come portiere, un ruolo che solitamente comporta pressione, responsabilità, ma che dà la possibilità di far parte della squadra da una prospettiva differente, con una certa distanza. Il portiere è infatti quello che veste la maglia di colore diverso, il giocatore che può prendere la palla con le mani, che dispensa consigli tattici ai compagni e gli osserva correre. È un personaggio romantico e ambivalente, uno spettatore protagonista, una metafora sportiva, appunto, dell’osservatore partecipante.

Premetto inoltre che trasporre su queste pagine il mio vissuto di calciatore e compagno di squadra della San Precario è un tentativo difficile; il calcio, come ogni attività sportiva, è costituita per lo più da suoni, sudore, odori che difficilmente possono essere trasposti su carta.

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In questo contesto, tuttavia, per Keita e Alassan continuo ad essere il loro operatore e amico fidato e sento di essere una figura importante per il loro inserimento all’interno dello spogliatoio.

In realtà alla San Precario non c’è nulla di più facile di sentirsi parte di un gruppo; si scherza, si ride, si fanno domande, Keita e Alassan dopo poco tempo sono parte integrante della squadra, almeno durante gli allenamenti.

Già perché a impedirgli di scendere in campo in campionato c’è l’articolo 40 del NOIF, il regolamento della FIGC che vieta il tesseramento dei richiedenti asilo senza residenza e con il permesso di soggiorno che scade prima del trentuno dicembre.

I due calciatori comunque non si scoraggiano, l’ambiente inclusivo della San Precario fa sì che agli allenamenti Keita e Alassan non manchino quasi mai e continuino a faticare assieme al gruppo pur consapevoli che per loro forse non ci sarà mai spazio in campionato. E gli allenamenti di una seconda categoria FIGC comprendono corsa, tattica, puntualità, sacrificio, una vera palestra per la mente e per il corpo.

Attraverso il sacrificio viene sperimentato la ricerca di autocontrollo, di disciplina, la volontà di governare la propria vita, spesso vissuta come un destino da sfidare quotidianamente.

Lo sport, seguendo il pensiero di Scandurra e Antonelli riguardo al pugilato e ai soggetti della sua ricerca, rappresenta una soluzione alla frustrazione verso un mondo sociale che gli atleti sentono indifferente e ostile nei loro confronti, è la possibilità di non essere sempre rappresentati in esso come «esclusi»65. Contrariamente a molti altri ragazzi ospitati nei centri di accoglienza, Keita e Alassan hanno prodotto un circolo virtuoso; attraverso piccoli obbiettivi, singoli gesti, hanno creato una rete di amicizie e di attività inclusive.

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Come scrive Bruno Barba, nel suo libro “un antropologo nel pallone”, “Nel calcio chi vince oggi può perdere domani e lo sconfitto può prendersi presto (nel girone di ritorno, nel prossimo campionato) la sua rivincita. La classifica di oggi può essere ribaltata alla fine del campionato e, quando ricomincia la competizione, si parte tutti dallo stesso livello. Non conta quello che hai fatto la domenica precedente, si riparte sempre da zero. Non vi è nulla di irreversibile nel calcio, niente di definitivo: persino il risentimento e lo spirito di rivalsa possono essere sublimati dalla rivincita”66.

Comprendere questa lezione significa aver compreso appieno il significato della competizione e del sacrificio come due facce della stessa medaglia, un insegnamento che trascende la mera sfera sportiva e si instaura nella vita di tutti i giorni.

Passano gli allenamenti, le giornate di campionato, fino all’arrivo della pausa natalizia. Nel frattempo siamo riusciti, con difficoltà, a fornire Keita e Alassan e Henry un documento dichiarante la loro residenza a Padova (siamo fortunati, in molti altri comuni è impossibile), una volta rinnovato il permesso di soggiorno i tre sono finalmente arruolabili in squadra e dopo la vittoria della campagna “We Want to Play”, intrapresa assieme le squadre popolari italiane con lo scopo di permettere i richiedenti asilo di giocare a calcio e una volta ricevuta la conferma della FIGC, finalmente i nostri compagni possono scendere in campo assieme a noi.

Dopo tanti mesi la loro presenza in campo è stata una piccola vittoria per tutti; giocatori, supporters, l’intero sistema sportivo. Per mesi si era combattuto in nome della giustizia sportiva, dell’egualità e dell’integrazione e, nonostante la legge, a dicembre 2016 non fosse ancora cambiata, un piccolo passo in avanti era stato fatto.

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Non dimenticherò mai le emozioni provate al debutto di Alassan, nel nostro stadio, lo stadio Appiani, entrato a difendere un risultato positivo importante. Dieci munti al termine, in un momento critico, sento scorrere i brividi sulla mia schiena e in un attimo ripenso a tutto quello che c’è stato, alla sofferenza di vedere un compagno sugli spalti per una normativa obsoleta e discriminatoria, ripenso alla passione di un ragazzo per il calcio, le giornate passate a casa sua mentre mi mostrava i movimenti del suo giocatore preferito, Paul Pogba. Alassan entra e il pubblico sugli spalti impazzisce; piovono cori di una potenza inaudita, il giovane gambiano non si intimorisce e si piazza nella sua posizione, nel centro del centrocampo. Vinciamo la partita e l’avremmo vinta con ogni risultato, finalmente possiamo recarci nello spogliatoio come una vera squadra, “nessuno è illegale per giocare a calcio”.

In seguito, dopo esserci guadagnati nuovamente la promozione in seconda categoria, la San Precario si appresta ad affrontare una nuova stagione. Keita è infortunato ed è costretto a mollare, Alassan dopo aver ricevuto il permesso di soggiorno si reca in Sicilia, dove ha trovato lavoro, Henry non fa più parte della squadra.

Io, assente dal lavoro per tutta l’estate per uno scambio internazionale all’estero con l’università, non riesco a fare una selezione di calciatori richiedenti asilo e riesco a inserire solamente Alagie, che oramai conosco da anni e che è abbastanza grande per giocare con noi. Nel mentre però le conoscenze con le altre cooperative tramite gli operatori si espandono e abbiamo dei nuovi elementi molto validi. Cheick Tijan, Sambou Darboe e Vidal si aggiungono al gruppo. Senza vincoli di tesseramento quest’anno tutti sono subito disponibili a entrare in campo.

Tutti pronti a dare il loro contributo; Tijan con la sua velocità dirompente gioca esterno, risultando spesso imprendibile per gli avversari, Sambou, difensore roccioso, da un contributo importante alla fase di copertura e Vidal, con la sua prorompente forza fisica è una buona pedina da giocare come centravanti.

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Condividere il campo di gioco con loro è un piacere, con il tempo anche condividere gli spazi, le cene, i momenti di svago diventa sempre più naturale. L’anno procede alla grande per i richiedenti asilo; partecipano agli eventi, non mancano mai agli allenamenti e alle partite nonostante i tanti chilometri che devono affrontare in bici per arrivare al campo di gioco.

Per molto poco la squadra non arriva a giocarsi i play-off, ma al di là dei risultati il processo di integrazione è stato più che positivo e questo ha significato molto per i richiedenti asilo in termini di benessere e sostegno psico-fisico.

Il calcio, racconta Sambou, “mi ha aiutato a superare momenti difficili. Quando arrivi in un posto nuovo le differenze culturali sono difficili da superare”.