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UNA (IN)CERTA IDEA DI FAMIGLIA: TRA GIUDICI E LEGISLATOR

Marco Rizzuti

SOMMARIO: 1. Premesse. 2. L’incertezza come effetto collaterale. 3. L’in-

certezza come obbiettivo di politica del diritto.

1. Premesse

Anche con riferimento all’ambito peculiare del diritto delle relazioni familiari, un tentativo di riflessione sul rapporto fra certezza ed incer- tezza del diritto non può che ricollegarsi a quella costante tensione fra i due poli che sembrano contrapporsi da secoli nelle vicende della nostra tradizione giuridica: il governo della legge, astratta e predeterminata e dunque certa, o il governo dei giuristi, concreti e tendenti alla persona- lizzazione e dunque all’incertezza.

Potrebbe sembrare di trovarsi di fronte ad una dicotomia eterna e su- scettibile di essere intesa anche in termini di scontro di civiltà, fra legali- smo “occidentale” e dispotismo “orientale”, sulla base ad esempio di quel noto passo erodoteo che ne rappresentò una prima netta enunciazio- ne1. Ciò nondimeno, si è trattato di vicende storiche ricchissime di con-

1 Si allude a quanto, secondo lo storico di Alicarnasso, l’esule Demarato avrebbe ri- cordato a Serse, a proposito degli Spartani, liberi ma non in tutto, avendo come padrone la Legge (Νόμος), che rispettano ancor più di quanto non facessero i Persiani con il loro padrone umano, cioè Serse stesso (ERODOTO, Storie, VII, 104), quasi con un nuovo richiamo al verso pindarico sul «νόμον πάντων βασιλέα» già esaltato in un altro, ancor più celebre, passo (ERODOTO, Storie, III, 38). A nostro avviso, però, come si proverà ad illustrare nel prosieguo con qualche esempio, pretendere di ricavarne una contrapposi- zione antropologica costante sarebbe altrettanto paradossalmente antistorico del tentati- vo, ad opera del medesimo padre della storia, di leggere le guerre persiane tra Greci ed Asiatici in continuità con i mitici vicendevoli rapimenti di Io, Europa, Medea ed Elena (ERODOTO, Storie, I, 1-5), e, del resto, era lo stesso autore a prendere le distanze dai

traddizioni interne, cui in questa sede possiamo solo alludere di sfuggita, ricordando quanto meno come esse si riflettano esemplarmente nelle due più icastiche formule utilizzate per connotare gli opposti paradigmi. Da un lato, è ben noto come il governo della legge sia oggi di solito indicato come rule of law, facendo così ricorso ad una terminologia tipicamente anglosassone, originaria dunque di quel mondo di common law cui è sempre rimasta fondamentalmente estranea tutta la costruzione del giuspositivismo continentale moderno, tipica cioè del pensiero illumini- stico e poi rivoluzionario e quindi napoleonico, mirante a raccogliere tut- to il diritto in un corpo codificato di norme poche, semplici e chiare, po- ste sotto il controllo monopolistico dello Stato, e perciò della sovranità popolare, col dichiarato scopo di rendere inutile la stessa figura del giuri- sta2. Dall’altra parte, si potrebbe ricordare come uno dei pochi casi in cui

“giuristocrazia” non è la formula polemica usata dai critici di quella che è considerata una degenerazione3, ma diviene, tutt’al contrario, forma di

luoghi comuni imperanti nel suo uditorio per attribuire proprio al persiano Otane addi- rittura l’invenzione dell’isonomia (ERODOTO, Storie, III, 80).

2 Più ancora che dalla nota immagine del magistrato come mera bouche de la loi, paradossalmente formulata da Montesquieu, cioè da un giudice dell’Ancien Régime che nella sua vita professionale esercitava ben altri poteri, una siffatta aspirazione è resa, con una radicalità degna del suo autore, dal dictum attribuito all’avvocato Robespierre, per cui il vero uomo di legge è colui che aspira a diventare inutile. Su questo momento di svolta della storia giuridica europea si vedano quantomeno G. TARELLO, Storia della cultura giuridica moderna: assolutismo e codificazione del diritto, Bologna, 1976, e P. GROSSI, Assolutismo giuridico e diritto privato, Milano, 1998.

3 Il riferimento è all’utilizzo che di tale neologismo ha proposto R. HIRSCHL, To- wards juristocracy: the origins and consequences of the new constitutionalism, Cam- bridge MA, 2004. Potrebbe essere interessante osservare come anche il termine che più direttamente vi si contrappone, e cioè democrazia, fosse stato in origine coniato dagli avversari interni dell’isonomia ateniese, a partire dall’Anonimo Oligarca noto anche come Pseudo-Senofonte (L. CANFORA (a cura di), La democrazia come violenza, Pa- lermo, 1982) per connotare in termini nettamente critici un modello fondato sullo stra- potere (κράτος) della plebaglia (δῆμος), e ricorresse poi nelle opere dei pensatori anti- chi, compresi Platone e Aristotele, proprio per indicare una vicenda degenerativa (cfr. L. CANFORA, La democrazia. Storia di un’ideologia, Roma-Bari, 2004, pp. 12-15),

insomma qualcosa di concettualmente affine a ciò che noi chiameremmo semmai de- magogia o populismo. Del resto, quel Κράτος che va a comporre i termini in questione, e molti altri ad essi affini, era in origine una personificazione di valori tutt’altro che positivi, e compariva nelle più antiche rappresentazioni poetiche in una costante asso-

governo costituzionalmente consacrata, è oggi il velāyat-e faqīh irania- no4, che però il suo autore aveva teorizzato a partire dalle radici stesse del

pensiero occidentale, e cioè dal modello platonico del regno dei filosofi5,

ovvero dei tecnocrati, verso cui del resto, forse non a caso in tempi di crisi della democrazia e della società aperta6, parrebbe inclinare il pendo-

ciazione con sua sorella Βία, la titanessa che personificava la violenza (cfr. ESIODO, Teogonia, 385; ESCHILO, Prometeo incatenato, 1).

4 Il riferimento è alla forma di governo ufficialmente adottata dalla vigente Costitu- zione della Repubblica Islamica dell’Iran del 1979, come esplicitato dal suo art. 5 e poi dagli artt. 107 ss.: in persiano velāyat significa per l’appunto governo, mentre faqīh è il giureconsulto. Il sistema che emerge da tale Carta si incentra, infatti, sui giuristi che, in forza di una legittimazione fondamentalmente tecnocratica, rivestono il ruolo di Guida Suprema o di componenti del Consiglio dei Guardiani, e che hanno, fra gli altri, anche il compito di verificare la coerenza con i valori costituzionali delle leggi approvate dal- l’Assemblea elettiva, oltre che di vagliare la candidabilità di quanti aspirino a far parte di tale Assemblea o dell’Esecutivo: insomma, se vogliamo, un costituzionalismo porta- to all’estremo.

5 L’attuale regime costituzionale iraniano si basa, com’è noto, su quanto elaborato, al- l’epoca del suo esilio in Iraq, dall’ayatollah che si sarebbe poi imposto come indiscusso protagonista della Rivoluzione del 1979 (R. KHOMEINI, Velāyat-e faqīh, Najaf, 1970). Si è però osservato che il suo riferimento fondamentale era rappresentato non solo dalla tradi- zione coranica e sciita di quella “giustizia di cadì” che M. WEBER, Economia e società, III Sociologia del diritto, Tübingen, 1922, trad. it., Torino, 2000, p. 145, aveva assunto come paradigma della giustizia “materiale” nel senso di equitativa, ma anche e soprattutto dalla Repubblica di Platone, componente essenziale di quella tradizione di pensiero confluita nella cultura persiana almeno da quando Simplicio e gli altri filosofi pagani dell’Accade- mia neoplatonica di Atene, chiusa dallo zelante Giustiniano nel 529, avevano trovato asilo presso i Sasanidi (cfr. G. RUSSELL, Regni dimenticati. Viaggio nelle religioni minacciate del Medio Oriente, New York, 2014, trad. it., Milano, 2016, p. 132). E un ideale anello di congiunzione potrebbero rappresentarlo i progetti teocratico-repubblicani di Gemistio Pletone, col richiamo sia alla tradizione platonica sia al biblico libro dei Giudici, oltre che ad una versione ammorbidita del modello spartano (cfr. M. CAVINA, Maometto Papa e Imperatore, Roma-Bari, 2018, pp. 54-56).

6 Si ricorderà come il celebre saggio di K. POPPER, The Open Society and Its Ene- mies, London, 1945, fosse anzitutto una durissima critica nei confronti della pervasiva influenza esercitata sulla tradizione occidentale dalla Repubblica di Platone e dal suo mito del Filosofo-Re, nel quale il moderno filosofo di origini ebraiche ravvisava le radici di quei totalitarismi che lo avevano costretto all’esilio dalla natia Austria fin nella remota Nuova Zelanda.

lo anche alle nostre latitudini7.

In tale cornice si inquadrano, invero, pure le recenti vicende del di- ritto delle relazioni familiari, che potrebbero in fondo essere sintetica- mente riassunte in termini di più giuristocrazia, e quindi più incertez- za. Ancorché non si tratti di un processo sempre univoco, è infatti facile constatare come questa branca del diritto sia stata ultimamente interes- sata da epocali mutamenti, che si potrebbero ricondurre anzitutto all’af- fermazione del principio di eguaglianza, nelle sue varie declinazioni, che ha messo in crisi antiche certezze fondate su differenze ritenute “naturali”, e pertanto aprioristicamente poste al di fuori ed al di sopra di ogni discussione giuridica8. Ne è innegabilmente derivata una crescente

apertura di enormi spazi alla valutazione giudiziaria, in linea del resto con i più generali sviluppi che hanno interessato il sistema nel suo complesso.

Parrebbero però emergere almeno due diverse modalità di produzio- ne di queste nuove forme di incertezza giuridica, anche, nella materia familiare.

2. L’incertezza come effetto collaterale

In alcune ipotesi, l’incertezza è una conseguenza, che parrebbe non essere come tale voluta, dello scontro tra paradigmi diversi che sono irriducibili, ma fra i quali non si riesce a scegliere in termini genera- li. Un esempio tipico ci sembra essere quello fornito dalle recenti vicis- situdini della nostra giurisprudenza in tema di assegno divorzile.

7 In questa sede non è possibile fornire adeguati riferimenti al riguardo, ma risulta ormai evidente la progressiva affermazione tanto della tecnocrazia giuridica delle Corti sovranazionali, quanto di quella economica delle istituzioni finanziarie cui pertiene oggi la sovranità monetaria, mentre anche ai livelli nazionali appare decisivo il ruolo delle tecnocrazie che, riprendendo la fortunata espressione turca derin devlet, siamo soliti chiamare gli “Stati profondi” (cfr. Limes, n. 8 del 2018, Stati profondi, gli abissi del potere).

8 E proprio sulla base di tali presupposti, ancora pochi decenni orsono, poteva sem- brare autoevidente l’osservazione che «La famiglia è stata indicata come il terreno me- no propizio per l’affermazione del principio di eguaglianza» (C.M. BIANCA, Le autorità

Da una parte, il paradigma tradizionale ha assegnato per secoli al matrimonio anche una funzione assicurativa nei confronti del coniuge assunto come naturalmente più debole e perciò bisognoso di protezione, ovvero la donna, la quale sposandosi per l’appunto “si sistemava”, e la cui esistenza al di fuori del matrimonio sostanzialmente non poteva aspirare ad alcuna rilevanza sociale o economica. A tale impostazione si sono correlati dapprima una lunga persistenza del principio indisso- lubilistico, che appariva già al padre della moderna sociologia del dirit- to come un tipico paradosso della realtà italiana9, e quindi una sua so-

stanziale perpetuazione in quegli orientamenti giurisprudenziali a lungo egemoni che hanno incentrato la disciplina dell’assegno divorzile sulla

9 L’eccezionalità della Penisola era evidente in una voce enciclopedica degli anni Trenta in cui si dava atto di come il divorzio fosse allora vigente in tutta Europa con le sole eccezioni del Portogallo e dell’Italia (A. PARRELLA, N. FESTA, P. DE FRANCISCI, G. ERMINI, A. VITTI, Divorzio, in Enciclopedia Italiana, 1932), e l’isolamento sarebbe forse apparso ancora più totale prima dell’abolizione salazarista dell’istituto nell’ordi- namento lusitano, oltre che alla luce della vigenza dello stesso anche nella gran parte dei diritti extraeuropei, nelle progredite forme nordamericane o in quelle arcaiche del ripudio maritale. Non stupisce dunque che M. WEBER, op. cit., p. 44, utilizzasse proprio il caso del nostro Paese per discutere il problema della libertà di divorzio, evidenziando come fossero le donne italiane, a differenza delle antiche romane o delle moderne ame- ricane, a rifiutarla ed a voler restare attaccate alle regole tradizionali, in quanto in essa vedevano «un pericolo per il loro mantenimento economico specialmente nella vec- chiaia (a somiglianza di quanto avviene per i lavoratori anziani che restano privi di mezzi di sussistenza)», nonché il rischio di un «inasprimento della concorrenza erotica per l’uomo»: ne derivava «la preferenza per un matrimonio caratterizzato da vincoli formali autoritari, e specialmente per la sua indissolubilità formale», accompagnata però «di solito, tanto negli uomini quanto nelle donne, con la tendenza libertinistica nella prassi sessuale». Il carattere paradossale di una tale situazione, in cui erano le donne a farsi fautrici del mantenimento di un assetto patriarcale, diviene tanto più evi- dente se si ricorda che, durante la breve parentesi napoleonica in cui il divorzio era stato in vigore, la causa più frequente delle relative pronunzie in sede contenziosa era stata rappresentata da «eccessi, sevizie e ingiurie gravi» inflitte alla moglie (cfr. S. SOLIMA-

NO, Amori in causa. Strategie matrimoniali nel Regno d’Italia napoleonico (1806- 1814), Torino, 2017, p. 82 ss.), e che poi sarebbero stati l’approvazione della p.d.l. For- tuna-Baslini, presentata nel fatidico 1968 da figure estranee alle “due chiese”, e divenu- ta la l. 1° dicembre 1970, n. 898, nonché l’esito, tutt’altro che scontato, del successivo referendum del 1974, a portare di lì a poco allo smantellamento dell’autorità maritale con la riforma di cui alla l. 19 maggio 1975, n. 151.

costruzione di un diritto alla conservazione sine die del cosiddetto teno- re di vita matrimoniale10, e finivano così per fare della solidarietà post-

coniugale un prolungamento di quella coniugale, per certi aspetti ancor più gravoso di quest’ultima.

Dall’altra parte, è venuto progressivamente a contrapporsi ad esso un nuovo paradigma, di solito considerato “più europeo”, essendosi affermatosi nei Paesi nordici prima che da noi, e nel quale quello fami- liare è un rapporto fra soggetti liberi ed eguali, non vincolati a prede- terminati ruoli di genere11. Perciò, anche le vicende che conseguano ad

10 Il riferimento è al duraturo filone giurisprudenziale ricollegabile alla presa di po- sizione di Cass., sez. un., 29 novembre 1990, n. 11490, in Quadr., 1991, con nota di M. DOSSETTI. Alla base di siffatta ricostruzione stanno nella sostanza precomprensioni interpretative connesse sia ai residui della concezione indissolubilista, che implica l’idea di un’insopprimibile ultrattività del vincolo matrimoniale in funzione assicurati- va, sia ad una pregiudiziale impostazione di favore nei confronti di quella che continua ad essere considerata a priori la parte debole del rapporto coniugale (anche se oggi i soggetti considerati, pure da alcuni legislatori regionali, come i più bisognosi di aiuto sono talvolta i padri separati), nonché ad un sottofondo di classismo più o meno impli- cito, che fa sembrare quasi naturale l’idea di un diritto alla conservazione della posizio- ne sociale acquisita col matrimonio. Restava, però, salva, e diffusamente praticata, la paradossale scappatoia di un, più o meno abusivo, ricorso alla delibazione dell’annulla- mento canonico, nella configurazione tollerata sino a Cass., sez. un., 17 luglio 2014, n. 16739, in Giur. it., 2014, p. 2111, che l’ha ritenuta incompatibile con l’ordine pub- blico italiano per le convivenze coniugali durate più di tre anni.

11 La riforma del 1975 implicò la decisiva riscrittura degli artt. 143-146 c.c., per cui, da un sistema in cui il marito era obbligato al mantenimento della moglie ed ella all’ob- bedienza nei confronti del “capo della famiglia”, si giunse a quello attuale in cui i co- niugi «acquistano gli stessi diritti e assumono i medesimi doveri», il che, come eviden- ziava già L. MENGONI, La famiglia nell’ordinamento giuridico italiano, in AA. VV., La famiglia crocevia della tensione fra “pubblico” e “privato”, Milano, 1979, ha «com- portato l’adozione… di un modello di famiglia senza ripartizione predeterminata di funzioni, con ruoli fungibili e interscambiabili tra i coniugi, alla stregua di una conce- zione assoluta e rigidamente formale del concetto di eguaglianza». Sul passaggio dalla famiglia come istituzione alla famiglia come rapporto si veda, per tutti, G. FURGIUELE, Libertà e famiglia, Milano, 1979: possiamo in fondo considerare come corollari di tale vicenda sia la valorizzazione delle relazioni familiari meramente fattuali, in cui il rap- porto di convivenza emerge a prescindere dal momento vincolistico e rituale, sia il ri- conoscimento di quelle omosessuali, in cui assume la massima evidenza il superamento del criterio del genere ai fini dell’allocazione di ruoli differenziati alle comparti.

un suo eventuale scioglimento, dipendente dall’esercizio di una non conculcabile libertà di cui ambo le parti godono in ogni caso, dovranno essere rette anzitutto da un principio di auto-responsabilità, alla luce del quale non ha senso pretendere di mantenere perpetuamente un soggetto a carico dell’altro, ma si prospetta semmai la necessità di un intervento del welfare pubblico12. In tal senso sembra orientata la nuova disciplina

generale delle convivenze13, ed anche in ambito matrimoniale la giuri-

12 Se il modello dell’auto-responsabilità post-coniugale è divenuto tipico dei Paesi nordici, con ogni probabilità ciò non dipende soltanto, per tornare ad un altro ben noto riferimento weberiano, dall’etica protestante, ma anche, se non forse soprattutto, dalla presenza di un consolidato ed affidabile welfare statale (come dimostrano indirettamen- te anche i dibattiti connessi alle recenti riforme italiane: cfr. A. SIMEONE, Reddito di cittadinanza. L’assegno di divorzio lo paga lo Stato?, in La Repubblica, 20 gennaio 2019), oltre che da una ben più considerevole presenza femminile nel mercato del lavo- ro. Il nostro modello tradizionale si configura, invece, e non soltanto in quest’ambito (si pensi alla sottoccupazione giovanile o agli anziani non autosufficienti), come caratte- rizzato dall’implicito, ma non di rado anche esplicito, presupposto che le insufficienze dell’assistenza pubblica debbano essere compensate da quella familiare, con pesanti conseguenze in termini di diseguaglianza che derivano dall’ovvia circostanza che non tutte le famiglie possono fornire lo stesso livello di assistenza. I profili cui si è fatto sintetico riferimento sono poi tra loro connessi: il peso degli oneri di assistenza familia- re nei confronti di figli e genitori contribuisce a ridurre le possibilità lavorative della donna, il che ostacola quindi ulteriormente l’accettazione di un principio di auto-re- sponsabilità della stessa pure in caso di crisi familiare. Poi però, come dimostrano an- che alcuni dei casi celebri cui si farà riferimento nel prosieguo, ad approfittare di regole giurisprudenziali, che da tale contesto sociale dipendono, sono magari donne ricchissi- me che con esso nulla hanno a che fare.

13 L’art 1, comma 65, della l. 20 maggio 2016, n. 76, disciplina la solidarietà post- familiare in caso di cessazione della convivenza limitandola temporalmente, secondo un ragionevole criterio di proporzionalità rispetto alla durata del rapporto cessato, il che potrebbe fornire un utile riferimento anche per ciò che attiene all’analoga materia post- coniugale, specie per le vicende matrimoniali di durata più breve, ad esempio inferiori ai tre anni di cui alla ricordata Cass. 16739 del 2014, cit., in quanto le discipline genera- li dell’arcipelago familiare sono ormai più d’una, e non andrebbe quindi escluso che le operazioni interpretative possano svolgersi pure nella direzione per così dire inversa a quella cui eravamo più abituati (cfr. M. RIZZUTI, Assegno divorzile e famiglia di fatto,

in giustiziacivile.com, 25 novembre 2016). D’altra parte, l’introduzione dell’unione ci- vile omosessuale, cui il comma 25 della predetta norma rende applicabile anche la l. 898 del 1970, prospetta concretamente l’ipotesi di divorzi in cui non si potrà, neppure implicitamente, richiamarsi agli stereotipi tradizionali per individuare una parte presun-

sprudenza di legittimità aveva finito per abbracciare questa impostazio- ne, riconfigurando l’assegno divorzile come rimedio eccezionale a si- tuazioni di non autosufficienza14.

Come ognun vede, la distanza fra le due ricostruzioni non potrebbe essere maggiore15, per cui non può stupire che la questione sia stata ri-

messa alle Sezioni Unite, le quali però devono aver trovato il compito di assumere una decisione di politica del diritto dal così dirompente impatto sociale troppo al di sopra delle proprie forze. I supremi giudici hanno infatti deciso di non decidere, non optando per nessuna delle due

ta debole nel rapporto (per quello che parrebbe essere stato il primo caso di assegno di- vorzile in un’unione civile cfr. Trib. Pordenone, 13 marzo 2019, in www.articolo29.it).

14 L’anacronismo dell’orientamento tradizionale era stato denunciato da Trib. Firen- ze, 22 maggio 2013, con una questione di costituzionalità, rigettata da Corte cost., 11 febbraio 2015, n. 6, in www.cortecostituzionale.it, ma solo sul presupposto che tale elaborazione non sarebbe stata ormai più conforme all’attuale contenuto dello stesso diritto vivente (cfr. F. ALCARO, Note in tema di assegno divorzile: il tenore di vita in costanza di matrimonio, un’aporia interpretativa?, in Fam. e dir., 2013, p. 108 ss.; E. AL MUREDEN, Il parametro del tenore di vita coniugale nel “diritto vivente” in ma- teria di assegno divorzile tra persistente validità, dubbi di legittimità costituzionale ed