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I cicli della vita ed i loro cambiamenti nella società della globalizzazione

Mercoledì 7 marzo 2001

La relazione viene introdotta dalla lettura di una frase dello stesso Crepet da parte di Mauro Pierfederici.

“Sono d’accordo con quanto è stato detto…”. Una volta gli inter-venti si cominciavano sempre così. Però è vero, lo penso davvero.

L’ho scritto un anno fa, ma ancora ci credo.

Io non so se siete qui per l’argomento o per la pressione eserci-tata su di voi dai tanti mezzi di comunicazione che in questi giorni hanno sollevato o riscoperto dei sensi di colpa, o comunque quanto meno un certo grado di inquietudine. Di quest’ultima cosa io sono  particolarmente felice, perché ho sempre molto temuto in questi anni una sorta di consegna al silenzio, un silenzio roboante in cui la gente pensava che questo fosse il migliore dei mondi possibili e che quindi non dovessimo aspettarci nient’altro di meglio.

Ho temuto, dunque, quel silenzio di tanti anni. Ricordo i com-menti agli inizi, quando mi occupavo di queste cose. Spesso anche i giornali volevano affrontare certi argomenti dicendo che erano i soliti pessimisti e catastrofisti, perché in fin dei conti le cose anda-vano bene. Non che io pensassi il contrario, il catastrofismo  non  fa proprio parte della mia cultura, del mio modo di vedere le cose.

Penso però che ci voglia un minimo di criticità. Questo non vuol dire essere pessimisti, ma semplicemente vedere le cose con un certo laicismo, senza voler leggere attraverso i filtri dell’ideologia  o - ancor peggio - dei sensi di colpa. Mai io ho pensato che le fami-glie italiane fossero malate, perché esistono milioni di persone tutte diverse, che sono i genitori e i figli. Né ho mai pensato che i giovani  fossero una categoria sociale. Essi sono semplicemente un’età, con  tutto quello che ne conviene in termini di capacità e incapacità, di fragilità e di ardimento, di coraggio e di avidità. Questo è il bello: se i giovani fossero così semplicemente classificabili faremmo presto e  ci annoieremmo subito. Invece parlare dei giovani è una delle cose più belle proprio perché essi cambiano sempre. Ogni generazione

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propone delle cose diverse e inaspettate, per cui penso che questa sia una delle cose più piacevoli per noi.

Abbiamo pensato ad uno sviluppo sociale che premiasse la nostra fede economica. Anche oggi, durante i chilometri di coda che ho fatto, ho sentito alla radio due o tre telegiornali proporre una deter-minata lettura del nostro Paese, che andrebbe bene perché il debito pubblico è diminuito dello 0,04 per cento, o perché il PIL è cresciuto dello 0,02 per cento. Io non so se qualcuno di voi si è accorto di queste cose, per cui oggi saremmo tutti più contenti e felici. Forse il Governatore della Banca d’Italia, dato che è il suo mestiere, gode  di queste cose. Ma credo che noi comuni mortali, francamente, del PIL ce ne accorgiamo un po’ meno. Io aggiungo anche che non mi  interessa granché in assoluto, poiché ritengo che possano esserci delle cose più complicate di una frazione matematica del prodotto interno lordo di una nazione. Ad esempio, credo che sarebbe interessante misurarci per le nostre capacità educative, sfidarci per vedere in che  modo possiamo classificarci.

Due giorni fa ero a Piacenza, che è stata eletta una delle primissime città nella classifica delle più vivibili d’Italia. Mi interrogavo allora  su come venga fatta questa classifica. Sarebbe bello che almeno uno  dei fattori da prendere in considerazione fosse quanto stanno bene i giovani in quella città. Io ho l’impressione che, se si considerasse  questo, quella classifica  sarebbe terremotata, perché mi pare che  Piacenza sia molto ordinata e consenta di andare in bicicletta, ma non credo che questo sia risolutivo. Magari è una città dove non c’è  un luogo per i ragazzi. E questo è un difetto molto comune. Forse pensiamo che i nostri figli non ne abbiano bisogno. O forse ci siamo  convinti che ciò di cui loro hanno bisogno è ciò che noi crediamo.

Per esempio, a noi basta pensare probabilmente che ai nostri figli  basti una play-station per essere felici. Non è esattamente così, cre-do. O meglio, se qualcuno lo chiede, ho l’impressione che sia un  adolescente arreso, piuttosto che felice.

L’altro giorno, a Novi Ligure, i ragazzi mi hanno chiesto perché  ci ascoltate a pezzi. Credo che questa sia una riflessione interessante. 

È vero, in parte il titolo del mio libro è sbagliato. Lo riconosco: non  è vero che noi non siamo capaci di ascoltarli, ma noi siamo capaci di ascoltarli in maniera sbagliata, che è una cosa un po’ diversa. In  effetti noi siamo capaci di ascoltarli a pezzi, adottando come metodo di ascolto quel metodo che riteniamo noi adulti. Penso ad esempio alla produttività: è un concetto che a noi adulti piace, ma non è detto che questo misuri esattamente le aspettative di un adolescente, tanto meno quelle di un bambino. Eppure queste cose le abbiamo applicate con grande sicurezza, con tragica sicurezza, prima all’adolescenza  e poi adesso, pian piano, anche all’infanzia.

Proprio ieri in Romagna dicevo che spesso sento pronunciare a delle maestre quello che è un lapsus quasi freudiano, e cioè: “Questi  bimbi non mi lavorano”. È come se fossero degli operai! Guardate  che non è un caso che si usino queste parole: i bambini devono produrre delle cose, non stare lì a perdere il tempo. Ci devono dare delle soddisfazioni, per esempio. Ma questa è una coazione. Pen-sate ad esempio a quella meravigliosa trasmissione televisiva che è “Bravo, bravissimo”, una delle cose più agghiaccianti che siamo  riusciti a produrre e di cui siamo fieri,  Mike Bongiorno in testa,  perfetto rappresentante di quella cultura adultocentrica che non si cura delle ansie dei bambini. Questa trasmissione non prende in considerazione il fatto che un bambino a cui viene richiesta questa performance va in ansia. È naturale che sia così, anch’io andrei in  ansia sapendo che devo esibirmi davanti a 4,5 milioni di adulti, con  i canini fuori dalle labbra a vedere se sbagli il paso doble, fai una stecca a cantare o sbagli il tasto del pianoforte. Eppure è una cosa che a noi piace molto.

Pensate ancora a quella specie di tragicommedia che si sta svol-gendo in questi giorni nelle Alpi, dove gli italiani per bene portano i loro figli in settimana bianca. Tutti questi bimbi sono costretti ad ore 

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ed ore di maestri, di ski-lift, di ski-pass. Poi si finisce la settimana  bianca - se tale è, altrimenti non la consideriamo - con un bello sla-lom, una bella garetta. Questi maestri di sci mi raccontavano in uno di questi centri molto noti di essersi dati una regola, basata su una questione non etica, ma ortopedica, rotulea, di legamenti: hanno cioè pensato, azzardando un po’ sulla base della loro esperienza, che non  bisognasse insegnare ai sciare ai bimbi con meno di quattro anni. Mi chiedeva allora un maestro se avevo un’idea di quanti genitori baras-sero sull’età dei loro figli, magari nella speranza di vederli svanire in  un canalone, in modo da selezionare la razza: quelli che ne escono sani sono quelli buoni, mentre quelli che vengono raccattati dai cani da slitta non sono competitivi. E cosa ce ne facciamo di un bambino che non è competitivo? Bisogna buttarlo via. Poi ne facciamo un altro. Ma comunque sempre pochi, perché non ne facciamo granché.

Però devono essere tutti così. E siamo convinti che prima si adattano queste regole auree della nostra società e meglio è.

Io non dico questo perché pensi che non debba esserci la com-petizione. Però mi dà un fastidio fisico  l’idea della monocultura,  di una società che cresce solo a una dimensione. Certo, esistono le persone che amano la competizione, ma non per tutti è così. Non siamo tutti uguali, ci sono anche le persone miti. Devono forse essere schiacciate o vilipese? Sono un peso per la società? Non lo credo affatto. Penso per esempio alle persone molto creative, che non sono necessariamente dei competitivi. Un pittore, per esempio, non com-pete. O semmai lo fa con se stesso. Ma non è così interessato dalla competizione. Certo, se poi vive in una società in cui l’unica identità  per lui è quella di vincere la coppa del ragazzino che fa il miglior quadro della scuola, se cioè noi lo costringiamo fin da bambino a  entrare in questa logica, anche lui poi diventerà questo.

È quello che avviene tragicamente con lo Zecchino d’Oro, tanto  per fare un esempio. Non si capisce proprio perché l’amore per la  musica debba diventare una competizione per la musica. Bisogna

spiegare a ragazzini di quattro, cinque o sei anni che non è solo bello cantare, ma che bisogna fare una gara canora. Quando allora ti domandano cosa è, devi rispondere che è semplicissimo: sono in cento e vince uno. E gli altri 99? La nostra società è fatta così. Se poi uno volesse mantenere questa idea della competizione in maniera più mite, potrebbe farne vincere 99 e perdere uno. Sarebbe già un po’ più  umano, visto che sono dei frati a proporre questa iniziativa. Ma non è così, anche loro si mettono all’interno di questa logica: uno deve  vincere e gli altri 99 passeranno alla storia per essere dei brocchi.

Tutto questo ha poi una contraddizione di fondo. Uno potrebbe dire: va bene, questo serve perché acquisendo queste capacità fin  da piccolo serve poi a far andare avanti meglio nella vita. Ma non è mica vero: chi l’ha detto che chi va benissimo a scuola poi andrà  benissimo nella vita? C’è forse una corrispondenza tra queste due  cose? Mai successo: è un caso che chi va bene a scuola vada bene anche nella vita. Anzi. I bambini primi della classe io li chiamo i bambini “Abart”, con riferimento a un termine coniato per delle  utilitarie pretenziose, che covavano motori potentissimi e truccati senza lasciarlo intuire da fuori. Queste auto facevano un certo effetto con le ragazze, ma naturalmente duravano poco, perché andavano sempre fuori giri. Ecco, i primi della classe sono bambini appa-rentemente normali, che hanno lo stesso cervello degli altri. Ma il motorino interno è truccato, costretto ad andare al massimo, perché c’è il fiato sul collo dei genitori, che chiedono come mai non si è  preso un otto ma soltanto un sette. Il che è come dire: io ti amo se prendi otto, meno se prendi sette. Dunque il mio amore è vincolato, non è indipendente da questo. Io ho conosciuto pochissimi genitori capaci di adorare i loro figli che vanno malissimo a scuola. È quasi  una cosa impossibile da fare, ma questo grida vendetta: se c’è un  diritto universale, visto che li abbiamo messi al mondo, è quello di amarli comunque. Poi faremo i conti, ma intanto ti amo per quello che sei, anche per quel cialtrone che sei. E poi magari nella vita - vai

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a capire il perché - quel cialtrone diventerà un geniaccio. Così ci perdiamo anche delle belle occasioni a non volergli bene da piccoli.

Ma a noi piace questa cosa, perché si fa prima a far corrispondere il nostro giudizio su una scala di valori così misurata. Pensate a quanto sia più complicato valutarli interamente.

Ecco quello che ci chiedono i ragazzi. L’altro giorno a Novi Ligure  mi dicevano: noi vogliamo essere ascoltati come persone, cioè nella nostra interezza. Questo è molto complicato, perché dovremmo ad esempio occuparci non solo delle loro capacità cognitive, che sono le cose più semplici, ma del loro mondo interiore. E questo è molto più difficile. Un giornalista di Repubblica ha scritto l’altro giorno  in sostanza che io sono un imbecille, perché penso che una mamma debba ascoltare sua figlia. La sua tesi, del resto abbastanza diffusa,  era che questo è del tutto insignificante, poiché che noi lo facciamo  o meno tanto poi c’è la società, ci sono i modelli sociali, che li fanno  crescere come se fossero letame per l’insalata. Io non ho capito che  cosa è la società. Secondo me, la società siamo noi. Esiste forse una

“signora società”, una sorta di istituzione in cui noi non entriamo  affatto? A me pare che la società sia esattamente la sommatoria delle nostre persone, cioè sia la comunità.

Una psicologa americana scrisse circa un anno e mezzo fa un libro che negli Stati Uniti ha venduto milioni di copie e che ha avuto un certo successo anche da noi. Il libro si chiamava: “Genitori, non  avete colpe”. E così capite bene perché ha venduto milioni di copie: 

per tante persone finalmente una psicologa ha capito il loro dram-ma, poiché essi non volevano avere alcuna responsabilità. Ci sono genitori che mi dicono: sa, fino a 18 anni era un bijou, un orologio  svizzero, la perfezione, poi una sera le cattive compagnie me l’hanno  guastato. Se fosse così, sarebbe davvero drammatico. Il lavoro di un genitore per 18 anni vuol dire miliardi di segnali, di sguardi, di toni di voce, di carezze o di non carezze, di vicinanze e di lontananze.

Tutte queste cose, ricchissime e fantastiche, vengono vanificate da 

una serataccia in cui invece di andare al bar dello sport è andato al bar della stazione. Se fosse così, allora tanto vale abdicare. Se noi fossimo così indifferenti, se contassimo così poco, tanto vale farli crescere in un istituto svizzero: uno paga una retta, ci va quando può, la domenica pomeriggio, e saranno loro a tirarli su. Una volta i nobili e i ricchi facevano così e da quei collegi svizzeri sono venute fuori cose terrificanti, il peggio mai visto.

Il bello è invece raccogliere questa sfida, che è fatta anche da quelle  straordinarie capacità di ascolto che non si riferiscono all’ascolto  delle parole, ma all’ascolto della persona. Questo significa ascolto  dei suoi modi, dei suoi silenzi, delle sue incapacità, del suo talento.

Per questo ci vuole grande rispetto. Per esempio, bisogna essere di-sponibili ad un tempo. Noi ci siamo raccontati una storia, sempre per salvarci la coscienza, secondo cui la qualità è meglio della quantità.

Questa è una pataccata. Non è vero: la quantità in certi momenti è qualità. Ci sono dei momenti dell’adolescenza in cui hai bisogno  del tempo che sarà necessario, non di quanto siamo disponibili noi a darne. Di quante mezz’orette di ascolto avrebbe bisogno una ra-gazzina che pesa 30 chili e non ha le mestruazioni da un anno? Di quante ne ha bisogno lei. E queste ore devono venire da noi, dagli educatori, dalla gente del quartiere, dal prete, da chiunque, perché chiunque può essere strategico. E non sappiamo chi sarà strategico, ma ci dobbiamo provare tutti.

Ci sono state delle persone che involontariamente sono diventate dei grandi maestri per noi, non perché dicevano chissà quale saggezza ma perché ci chiedevano semplicemente come andava la vita. Ed era in quel momento, quando pensavi di essere un ectoplasma invisibile, quando pensavi di essere sul dirupo, senza nessuno a guardarti o senza contare per qualcuno, che è importante sentirsi chiedere come va.

Questo è un miracolo, ti fa pensare che allora esisti. E quella piccola domanda, a volte, ti cambia la vita. La vita, non la giornata, perché cominci a vedere le cose in maniera diversa, cominci a pensare che

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forse esisti, forse ce l’hai fatta ad esistere. Pensate allora che ci vo-glia solo qualità? E quale sarebbe la qualità dell’ascolto? Abbiamo  forse un certificato di qualità dell’ascolto? Ognuno ci prova, ma non  siamo mica tutti uguali. Pensate forse che i papà siano tutti uguali, che abbiano ad esempio la stessa capacità di trasmettere le emozioni.

Un insegnante di un liceo classico, in Toscana, mi diceva che io parlo di insegnare le emozioni, ma chiedeva anche come si può fare questo. Io dissi che ad esempio, poiché lei insegnava italiano, si può leggere Leopardi con passione, facendo vedere ai ragazzi che a lei vengono i brividi e non pretendendo che vengano a loro. Lei mi guardò e mi rispose che da vent’anni non aveva la passione. Voi  ora ridete, ma guardate che è la fine: se noi accettiamo questo come  normale, abbiamo chiuso. La passione è l’unica cosa che gli educa-tori dei nostri figli devono avere, prima ancora delle competenze. Tu  puoi avere le competenze, ma cosa te ne fai se non hai la passione?

È meglio avere la passione e magari poche competenze, almeno  potrai trasmettere qualcosa. Ma se tu hai le competenze e non hai la passione, vuol dire che tu hai delle cose che non sai trasmettere.

Questo è terribile: è come scrivere una lettera e tenertela nel cassetto.

Come si fa a pretendere le passioni? Credo che sia innanzi tutto un obbligo morale, etico: noi dobbiamo pensare che questo sia il centro della nostra vita, non la periferia, non le cose opzionali. Noi abbiamo sempre ritenuto, secondo me sbagliando, che quel che valeva della nostra esistenza fosse la nostra parte razionale, ad esempio ciò che attiene al nostro lavoro, alla nostra professione. Noi ci presentiamo così, noi siamo il lavoro che facciamo, la nostra identità è questa ed è questo ciò che noi abbiamo voluto accettare nella nostra cultura.

Quando due persone sconosciute tra loro si incontrano in piazza, cosa dicono? Piacere, ingegner Rossi. Ma di questo, a meno che non cercaste proprio quella mattina un ingegnere, non me ne può fregar di meno. Non è così importante sapere che quello fa l’ingegnere. 

Avete mai sentito due signori che si incontrano e uno dice: “Piacere, 

sono Rossi, attualmente parecchio innamorato”? Non l’avete sentito,  invece questo è strategico, è assolutamente fondamentale, perché se io sono innamorato posso aiutarti, posso portarti sulle spalle, perché ho più forza e guardo più in alto, vedo prospettive più grandi, ho capacità di vedere nella nebbia con i fari giusti. Invece magari l’altro  è lì che si è incartato, non ce la fa ad andare avanti. Vedete allora che dell’ingegnere non ci importa, ma del sapere che il signor Rossi  è parecchio innamorato sì. La nostra identità emotiva, quella di cui noi ci vergogniamo, sarebbe in realtà la parte più importante. Se noi cominciassimo ad avere coscienza di questo, insegneremmo ai nostri bimbi che la prima cosa è esprimere le proprie emozioni. E come si fa questo? Dandogliele! Le emozioni non si possono pretendere, bi-sogna prima darle. È come per i pescatori: prima si pastura e soltanto  dopo si pesca.

Una volta, quando lavoravo con Oliviero Toscani, mi ha insegnato un giochino. L’ho scritto nel libro: è un giochino che si può fare con  una decina di bimbi di 7-8 anni. Li mettete in un bel posto comodo, gli date tutto quello che è necessario per dipingere e colorare. Poi date loro un bel foglio bianco grande, uno per ciascuno, foglio su cui c’è un grande quadrato, diviso in tanti quadratini. Poi chiedete  ad ogni bambino di dipingere come vuole, come sa. E alla fine gli  farete firmare il foglio. Dopo di che ritirate via tutto. Poi fate perdere  un po’ di tempo, cosa che è importante, in modo che siate sicuri che  i bambini hanno dimenticato quello che hanno appena fatto. Poi gli date nuovamente un altro foglio bianco. E prima di chiedere loro nuovamente di dipingere, gli dite: adesso facciamo silenzio, chiu-diamo gli occhi e pensiamo tutti quanti ad una persona che ochiu-diamo moltissimo, che vorremmo vedere incenerita davanti a noi. Quando siete sicuri che tutti i bimbi stanno pensando a questa cosa terribile, improvvisamente fate loro aprire gli occhi e disegnare. Prendete

Una volta, quando lavoravo con Oliviero Toscani, mi ha insegnato un giochino. L’ho scritto nel libro: è un giochino che si può fare con  una decina di bimbi di 7-8 anni. Li mettete in un bel posto comodo, gli date tutto quello che è necessario per dipingere e colorare. Poi date loro un bel foglio bianco grande, uno per ciascuno, foglio su cui c’è un grande quadrato, diviso in tanti quadratini. Poi chiedete  ad ogni bambino di dipingere come vuole, come sa. E alla fine gli  farete firmare il foglio. Dopo di che ritirate via tutto. Poi fate perdere  un po’ di tempo, cosa che è importante, in modo che siate sicuri che  i bambini hanno dimenticato quello che hanno appena fatto. Poi gli date nuovamente un altro foglio bianco. E prima di chiedere loro nuovamente di dipingere, gli dite: adesso facciamo silenzio, chiu-diamo gli occhi e pensiamo tutti quanti ad una persona che ochiu-diamo moltissimo, che vorremmo vedere incenerita davanti a noi. Quando siete sicuri che tutti i bimbi stanno pensando a questa cosa terribile, improvvisamente fate loro aprire gli occhi e disegnare. Prendete