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“pedagogia della memoria”

Venerdì 16 febbraio 2001

È sempre un grande piacere per me essere qui. In effetti mi sen-to un po’ di casa. D’altra parte si tratta di lavorare dove ci sono le  condizioni migliori. Indubbiamente Senigallia per me ha una storia, una memoria viva di un lavoro, di persone, di situazioni. E questo mi consente di operare in un contesto che ha delle radici, è qualcosa di estemporaneo, qualcosa che costruisce a poco a poco un discorso.

Non sono di certo il primo a dire che la vita esiste solo se raccon-tata: è il racconto che genera il senso stesso della vita. E se non c’è  racconto, in qualche modo è come se non esistesse la vita. Esiste insomma solo ciò che viene raccontato.

Voi sapete che per gli storici un problema molto serio è quello di non poter raccontare la storia dei popoli che non hanno una tradi-zione scritta, che non hanno cioè lasciato delle fonti documentarie scritte. Questi popoli, non lasciando di sé qualcosa che potesse essere tangibilmente raccolto dalle generazioni successive, scompaiono in questo buco nero del tempo e nulla si sa di loro. Anche i potenti erano consapevoli di questo. Non per niente le grandi dittature sono sempre state contrarie alla cultura, alla storia, alla memoria: pensate al fascismo che decise di cambiare la numerazione degli anni, stabi-lendo che l’epoca iniziava con la Marcia su Roma. Se vi capita nei  mercatini di trovare i vecchi sussidiari del fascismo, potete vedere che si trova scritto “anno primo”, “anno secondo” o “anno terzo”. 

Dittature e tirannie hanno sempre questa necessità di ricostruire la storia a loro immagine e somiglianza.

Il tema della memoria è dunque sempre legato alla libertà. Su questo non avrei dubbi. Non possiamo pensare che il tema della me-moria sia nostalgico. Noi siamo appena reduci dalla prima Giornata della Memoria, che come avviene anche nel resto d’Europa è stata  fissata in Italia per il 27 gennaio. Bisogna fare attenzione, perché  questa giornata è stata giustamente intesa come la giornata del ricordo dello sterminio ebraico, ma io direi che non è solo questo, non deve essere solo questo. Il ricordo di quello che è successo agli ebrei in

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Germania è veramente importantissimo, ma penso che il tema della memoria sia più complesso, in qualche modo ci riguarda tutti e ci consente di fare delle riflessioni più ampie. Da questo punto di vista  non bisogna secondo me temere l’idea della memoria come un’idea  conservatrice o nostalgica. Tutt’altro: la memoria è sempre libertà,  proprio per quello che dicevo prima.

Il problema è quello di non trasformare la memoria in pura e semplice nostalgia del passato, di qualcosa che non esiste più, di qualcosa che era semplicemente meglio del presente. Questo non è un atteggiamento costruttivo, ma è un atteggiamento che esiste.

Da questo punto di vista l’infanzia è l’età più a rischio, perché è  notoriamente quell’epoca in cui il tempo è sospeso in una magia  particolare. È un tempo irripetibile e ogni infanzia è sempre un’età  particolare, che in qualche modo si finisce per ricordare volentieri,  anche se poi ritengo che le infanzie non siano così dolci, edulcorate e meravigliose come ci vogliono raccontare.

Questo è dunque il tema della memoria come nostalgia, come sentimento di qualcosa che è andato perso. Questo è indubbiamente anch’esso legittimo e in qualche modo ha a che fare proprio con la  nostra infanzia. Da questo punto di vista abbiamo scelto un brano tratto dai ricordi di un grande poeta francese, Jacques Prévert, che ci dice qualcosa su questa età magica, su questi occhi infantili che guardano il mondo, che osservano con categorie molto particolari la vita degli adulti e che ci rimandano questa idea di qualcosa che si perde lontano nel tempo, come un sentimento in fondo inesausto.

Prende ora la parola Mauro Pierfederici per leggere un brano:

E poi ritornava la festa, e sempre a due passi da casa nostra. Dal balcone di Rue Luis Philippe, dove abitavamo, la sentivamo installarsi a grandi colpi di martello. Ci entravamo dentro, come a casa nostra, e per lo più senza pagare. Mio padre conosceva tutti: il domatore Marc, che mi permetteva di accarezzare la zampa dei suoi leoni, i

cavallerizzi e le cavallerizze, i fantini d’Epsong, i lottatori che sfi-davano i soldati confusi nella folla e perfino Aroph, che spaccava le  pietre con il pugno. A-roph, A-roph, lo si sentiva di lontano, e quando si accorgeva di noi ci sorrideva, travestito da arabo, seduto sul suo vecchio tappeto, e ci chiamava con la mano. Aveva sempre con sé un litro di vino e mio padre brindava insieme con lui. Andavamo anche dietro le quinte del gran teatro Foren, a vedere gli attori, e poi in sala, a vedere lo spettacolo. Si recitava sempre “Il gobbo”: 

era bello, e anche il gobbo era bello, ma non lo si sapeva subito, e se poi lo si sapeva, si dimenticava prestissimo. Era un tale che si chiamava Lagardère, e passeggiava nei fossati di Caylus, con una spada in pugno e un bambino tra le braccia. Uccideva Gonzague e tutti i nemici del neonato. E Coccarda e Passepoul, due briganti suoi amici, scaraventavano in acqua un tizio tutto nero e cattivo; e poi ridevano e gridavano: “è contento questo bravo Mounsier De  Peyrold?”. Ci si divertiva, come al circo d’inverno, dove i clown  facevano trucchi tremendi per far ridere (...)

Mauro Pierfederici salta qualche pagina, per l’impossibilità di leggere tutto il testo, traendone solo qualche brano. Spiega che c’è stata qualche vicissitudine familiare e Prévert ci racconta come, a mano a mano, la famiglia si impoverisce.

(...) Tutto continua come prima, ma la domenica, e non si sa nem-meno bene il perché, ora andiamo a pranzo dal nonno. Si prende la metropolitana e si arriva in Rue Monge, vicino a un mercato, davanti a una grande piazza con una statua, Piazza Mobert, il quartiere più malfamato di Parigi. ”Una vergogna”, dice mio nonno. Per fortuna c’è  Notre Dame, e non se ne parla neanche di traslocare, non possiamo mica fare un torto del genere a San Nicola di Chardonnet. È la sua  parrocchia, San Nicola di Chardonnet, dove lui è, credo, qualcosa come fabbriciere e dove ha il suo posto nel banco dei fabbricieri, così

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come la nonna Sophie. Il loro era un appartamento molto in alto, un grande appartamento, con un’infinità di pattine per non graffiare la  cera del parquet. Nella sala c’era una libreria e un po’ dappertutto  sui tavoli c’erano libri posati con cura: la vita di San Luigi, la storia  delle Crociate, le guerre d’Italia, San Francesco di Sales. Ricordi di  vacanze: tutta la Svizzera in due album, grossi come dizionari, che mio nonno commentava sentenziosamente quando c’erano visite. 

Sophie e io ci siamo recati sulla Mar de Glass e abbiamo visto la Jungfrau, la Jungfrau; e, per farla breve, la vetta. E tutte le Alpi sfilavano con gli orari, gli itinerari, i nomi e i prezzi degli alberghi. 

I visitatori gustavano il Madera, ascoltandolo a bocca aperta. (...) Mauro Pierfederici spiega che Jacques Prevert sta per avere un fratellino.

(...) Un bel giorno - si dice sempre un bel giorno, ma quello non era più bello degli altri, al contrario - mia madre sembrò d’improvviso  più malata di quello che mi avevano detto, e mio padre molto più nervoso del solito. Litigava con nonna Sophie, che ci raccontava storie di cavoli, di cicogne, di bambini futuri monarchici o repubblicani e di non so cos’altro ancora. Una grossa comare attraversava di continuo  l’appartamento con delle secchie piene di cotone insanguinato. Era  come all’ospedale, il giorno delle tonsille. E mio fratello arrivò. Mia  madre, ancora più sorridente del solito, teneva mio fratello in braccio e lo guardava senza dire nulla. Gioca alle bambole, disse il papà.

E io trovavo che Pierre, era il nome del mio fratellino, per essere un neonato aveva l’aria piuttosto giovane anche lui. E forse, per far  piacere a mia madre, dichiarai che l’avrei amato molto.

Riprende ora la relazione Daniele Novara.

Ecco, questo è appunto il sentimento di un tempo perduto. La memoria, quindi, come nostalgia del passato. Questo non è ciò che ci interessa, a noi interessa la memoria come struttura di apprendimento,

non tanto nel senso delle tabelline ma nel senso della permanenza della capacità di renderci consapevoli delle trasformazioni e quindi di avere il senso del cambiamento. La memoria è quindi funzionale al cambiamento: senza memoria non può esserci cambiamento.

Questo è molto palese oggi, poiché è praticamente impossibile fare una previsione non solo su cosa succederà tra dieci anni, ma su cosa succederà il prossimo anno. Da ultimo, anche in questi giorni - giu-sto ieri - l’Istat ha smentito tutte le previsioni catastrofiche sul PIL  italiano, che doveva essere un disastro totale mentre invece i dati Istat dicono che va benissimo ed è superiore a quello che si pensava.

È da almeno 10-15 anni che nessuno è più in grado di fare una  previsione che non sia al massimo una previsione meteorologica per i prossimi due o tre giorni. Questo ci dice già qualcosa sulla nostra mancanza di radici e di memoria. Nessuno riesce non dico a prevedere, ma nemmeno minimamente a intercettare che il Muro di Berlino sarebbe caduto e tutto il sistema dell’Unione Sovietica sarebbe  crollato. Ricordo di aver letto due anni prima di questi avvenimenti un’intervista ad Havel, l’attuale Presidente della Cecoslovacchia, il  quale candidamente diceva che il sistema dell’Unione Sovietica era  troppo forte e nulla poteva essere fatto. Dopo tre anni egli si sarebbe trovato presidente di una nuova nazione sorta proprio sulle ceneri del sistema sovietico.

Nel preparare questa conferenza mi ha incuriosito rivedere un libro di Jeremy Rifkin, che è considerato un vero guru della futurologia.

Forse qualcuno di voi avrà sentito questo nome: è un americano che vorrà almeno 20 milioni per fare una conferenza, perché gira il mondo per dirci come sarà il futuro. Nel 1995, cinque anni fa, egli  pubblicò un libro che venne discusso moltissimo. Si intitola: “La  fine  del  lavoro.  Il  declino  della  forza  lavoro  globale  e  l’avvento  dell’era post-mercato”. Sono 520 pagine per dire che il lavoro sta  cambiando. Ebbene, vi garantisco che non c’è una parola su Internet,  che nel 1995 non esiste dunque ancora come prospettiva di lavoro. 

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E questo guru della futurologia internazionale non è stato in grado di intercettare una cosa che oggi ci appare banale, dato che chi non è collegato ad Internet sembra lo scemo della terra, o almeno così ci vogliono far credere quelli della new economy in modo che com-priamo i loro prodotti.

Facciamo attenzione, allora, perché questa situazione è piuttosto preoccupante.  La  difficoltà  a  prevedere  il  futuro  è  una  difficoltà  nuova, inedita, nel senso che una certa competenza sul futuro c’è  sempre stata. Anche le grandi trasformazioni furono sempre previste.

In campo pedagogico, per esempio, noi sappiamo che con il tempo tante idee si sono avverate. Invece ora questo si sta spegnendo. E un mondo senza memoria è incapace di futuro, è incapace di con-cepire qualcosa che vada al di là dell’eterno presente in cui siamo  calati. Questo eterno presente investe gravemente la nostra vita, e in particolar modo i bambini. A questo proposito c’è un libro molto  bello che vi consiglio: è un libro grottesco di Paolo Landi, colui che nel suo ruolo di direttore ci ha tormentato con la pubblicità della Benetton. Il libro si intitola “Manuale per l’allevamento del  piccolo consumatore”. Quasi nessuno ne ha parlato, giustamente,  ma questo libriccino di circa 80 pagine è molto divertente perché ci spiega come al giorno d’oggi non ci sia più il problema di dire che  i bambini saranno i consumatori di domani, in quanto già lo sono oggi. Altrimenti non si sa più a chi vendere la merce. Il libro si apre proprio dicendo: “Quanto valgono i bambini? La legge mercantile del  valore è una legge dell’equivalenza: cresce come cresce il valore di  una pelliccia per la rarità dell’esemplare. Un bambino è un fondo di  investimento, commerciabile alla stregua di qualsiasi altro prodotto.

Un bocconcino prelibato: produce denaro e nuovi capitali. Invece di lucrarlo, va allevato per essere consumato subito o per produrre in futuro lucrose plusvalenze”.

Questo aspetto viene ripreso anche in un altro testo piuttosto

importante di Stefano Laffi, in cui appunto si parla dell’analisi del-la società dell’eterno presente in cui siamo calati, che è appunto la  società dei consumi. Voi sapete che a Natale l’Italia ha avuto questo  grande boom dei consumi: c’è stato il 15 per cento in più di vendite  da parte di coloro che si occupano dei regali di Natale. Pare che questo sia in relazione al cosiddetto bonus fiscale. Dice Laffi: “Una  società di consumi ha bisogno di una società di bambini, cioè persone incapaci di fermare il desiderio, senza il senso del superfluo di fronte  all’illusione di libertà che dà lo scaffale del supermercato. Tutta la  retorica pubblicitaria è finalizzata a sdoganare da freni e inibizioni  il capriccio, certo non a comunicare l’utilità di qualcosa. Attraverso  uno spot televisivo non dobbiamo accorgerci che qualcosa ci serve, ma solo lasciarci andare”. Questo eterno presente consumistico è un  eterno presente infantile: solo nell’infanzia il desiderio, come abbia-mo sentito prima, può essere non solo immaginato ma realizzato in termini di capriccio, in termini di una richiesta che viene in qualche modo soddisfatta. L’età infantile è insomma l’età dell’onnipotenza,  in termini psichici ovviamente.

Cosa ci dicono, in definitiva, questi due libri? Landi della Benetton  ci dice che il problema non è quello di educare i bambini a diventare consumatori, ma è quello di individuare nei bambini il target dei consumi. Su questa base gli adulti si adegueranno, ma non nel senso che compreranno per i bambini, bensì nel senso che diventeranno come bambini. Questo è il ragionamento che chiude il cerchio di una situazione che è legata anche a cambiamenti piuttosto epocali nel ciclo della vita. Voi sapete che fino al 1900, cioè un secolo fa,  l’aspettativa di vita era di 40 anni. Oggi i concorsi per i giovani,  nell’ambito artistico o comunque per lavori da fare, si riferiscono  ad una fascia di età che arriva giusto fino a 40 anni. Questo significa  appunto che il ciclo della vita è completamente cambiato. Oggi una persona di 40 anni è ancora giovane, viene considerata tranquilla-mente “abbordabile” in senso adolescenziale da questo sistema un  po’ consumistico ma non solo. Questa persona è giovane in quanto 

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assume i valori, i comportamenti, i consumi dell’età precedente,  cioè dell’età adolescenziale se non infantile. In altre parole, questa  situazione di deprivazione della memoria è anche legata a un cam-biamento del ciclo della vita che vede come unica età possibile quella infantile e adolescenziale.

A volte io mi diverto con gli insegnanti che si lamentano dei loro alunni chiedendo se per caso c’è qualcosa, sotto il profilo dei com-portamenti o anche dei vestiti, che li rende diversi dai loro alunni.

È una provocazione che in genere non raccolgono e si arrabbiano  moltissimo. Io li capisco perché in effetti è una provocazione e in fondo anche un po’ una stupidata. Ma quello che voglio dire è che  in effetti siamo immersi in una cultura che stenta a riconoscere l’età  adulta come un’età possibile. Questo perché l’età adulta è antitetica  al consumismo. Da questo punto di vista è un’età che assume la  memoria come ciclo inevitabile del tempo, mentre oggi come oggi bisogna invece fermare il tempo, eliminare anche la stessa idea della morte come possibilità, eliminare le sue stesse connotazioni fisiche. 

Il consumismo dunque è antitetico all’essere adulto, perché dicevamo  prima che si innesta sulle istanze psichiche di onnipotenza, cioè su quelle infantili e adolescenziali, su quelle di narcisismo. Invece l’età  adulta sa accettare il limite, sa accettare di relazionarsi con le altre età della vita come età di passaggio.

Da questo punto di vista l’ideologia consumistica dell’eterno pre-sente, per poter regnare, deve eliminare il desiderio di “adultità”, in  modo da avere un target sempre più allargato. Deve quindi eliminare la stessa idea che ci sia una crescita, un passaggio, un’evoluzione che  assume il senso del limite, fino alle estreme conseguenze della morte. 

Da questo punto di vista, se l’adulto assumesse la sua età come età  piena di significato, cosa che oggi si fa sempre meno, spegnerebbe  l’imprinting consumistico come istanza psichica regressiva e con-solatoria, basata in termini psichici sul soddisfacimento materno del bisogno. È come se noi fossimo calati in un paese, in un luogo dove 

tutto è possibile, dove il piacere è a portata di mano di tutti. Prose-gue così questa istanza psichica legata alla “fusionalità” materna,  allo stare sempre in un grembo, che oggi non più quello materno in  senso  fisico  ma  è  quello  consumistico  in  senso  commerciale. 

Questo ci consente di soddisfare tutti i nostri bisogni e desideri di gratificazione immediata.

Addirittura negli Stati Uniti, che sono abbastanza attrezzati su temi consumistici, un sociologo ha scritto un libro: “La religione dei  consumi: cattedrali, pellegrinaggi e riti dell’iperconsumismo”. Io resto  sempre stupefatto dal sapere che negli Stati Uniti, ma anche in certe zone dell’Italia, questi famosi ipermercati, queste città-mercato, sono  vere e proprie forme di aggregazione dei più giovani, sono cioè dei luoghi dove i ragazzi si ritrovano. All’interno di queste mega strutture  dove si può trovare di tutto è possibile incontrarsi e strutturare delle modalità non soltanto di acquisto ma anche di socializzazione. La città mercato o il grandioso ipermercato secondo il modello statu-nitense in Italia non c’è ancora, ma sicuramente arriverà. Si tratta di  qualcosa che va oltre la città mercato. Ed è interessante come queste città mercato cerchino di riprodurre quello che purtroppo nella città non si trova più: spazi tranquilli, senza auto, dove è possibile anche passeggiare senza pericolo. È tutto quello che nel contesto urbano  abbiamo completamente dimenticato, non pensando a strutturare delle zone dove ci si possa semplicemente incontrare. Di questo, peraltro, stanno facendo le spese proprio i bambini

Se dunque il primo tema è quello del consumatore senza radici, senza memoria e senza tempo, calato in un eterno presente narcisi-stico e gratificante, facciamo attenzione: questo eterno presente deve  essere anche molto individualistico. Il secondo passaggio è dunque eliminare l’aggregazione e definire l’unica aggregazione in termini  consumistici. Pensiamo al Grande Fratello, tanto per dire, o al trovarsi in una città mercato. Il fenomeno è abbastanza inquietante, in questa logica. Facciamo un passo indietro: la memoria è una memoria

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le, perché la memoria individuale non esiste e la memoria è sempre una storia sociale. Non ha senso uno che racconta la sua storia: se voi raccontate la storia della vostra famiglia, raccontate una storia sociale. Ecco, quello che sta succedendo con i bambini è che si cerca di fare anche questa operazione: eliminare la socializzazione infantile e possibilmente, già che ci siamo, anche quella preadolescenziale e adolescenziale. Si tratta quindi di isolare i bambini il più possibile e creare degli iperconsumatori di ogni cosa, che però non possono organizzarsi in maniera sociale in modo autonomo. Questo è un fenomeno altrettanto grave di quello precedente, cioè del consumo senza radici, fine a se stesso, perché ci sono bambini che non hanno  un gruppo spontaneo ma la cui socializzazione è sempre eterodiretta, è sempre strutturata, è sempre organizzata e finalizzata. Capite allora  che questa finalizzazione è basata sulla prestazione, cioè non su una  storia ma su una performance da realizzare.

Succede allora che i bambini si sono abbarbicati nelle scuole, uno

Succede allora che i bambini si sono abbarbicati nelle scuole, uno