1. Quando apparve la prima edizione di Les Stars, nel 1957, avevo nove anni. Lo lessi per la prima volta vent’anni esatti dopo, quando comprai quasi per caso l’edizione tascabile Garzanti. E come accade solo con pochi autori nel corso di una vita, scoprii nelle prime pagine di avere incontrato una guida: la parola è ingombrante, anche un po’ preoccupante (dopo un secolo di “conducator”) ma è quella giusta. Un autore che ti indica una strada, ma non solo, che ti aiuta a fare, e a sentire tuo l’itinerario. Lessi nel giro di pochi mesi il libro sul cinema, quello sulla morte che gli è stretta- mente legato (le due facce del doppio); e l’Esprit du temps. E Autocritique. E più tardi il volume sulla metamorfosi di un villaggio, Plodemet. E capii che ero stato preso, come reclutato per un progetto, ambizioso e necessario, quello di un’antropologia di un’umanità in transizione: antropologia non nel senso di una tipologia classificatoria ma di una ricerca sul campo; non solo per i tanti nessi che collegano L’uomo e la morte con Morte e pianto
rituale ho sempre pensato che straordinario incontro sarebbe stato quello
tra Morin ed Ernesto De Martino. Il progetto di un’antropologia non giu- dicante (cosa che alla fine di un’epoca dove lo scontro politico sembrava il solo criterio di verità era prima di tutto un sollievo) ma nondimeno im- pegnata. Un progetto che Edgar Morin poi ha in parte accantonato in parte ri-codificato, con una sorta di “superamento” hegeliano, ma che continuo da allora a sentire mio.
Solo a molti anni di distanza mi sono reso conto di una cosa: che Morin è uno dei pochissimi pensatori su questi temi che non si siano fatti inca- strare da quel concetto apparentemente essenziale quanto ingannevole che è il “moderno”, un concetto che anche nelle opere degli ultimi vent’anni ha usato con molta parsimonia e (mi conferma uno dei massimi esperti del suo pensiero, Sergio Manghi) non in senso pregnante. Non solo perché ha posto sempre al centro della sua attenzione la varietà dei tempi che coesi- stono nel presente, ma anche perché rifugge a periodizzazioni così rigide e approssimative insieme. (Direte che la mancanza di un concetto è appunto una mancanza, non fonda nulla. Invece io sono convinto che un pensatore
che evita categorie che sembrano ovvie ai suoi contemporanei può con ciò stesso indicare una strada. Per esempio, la cosiddetta “sociologia” di Tocqueville non sarebbe la stessa se lui non avesse quasi sistematicamente evitato il concetto di società, non avesse fornito per pensare le relazioni tra gli uomini una serie di linee che facendo a meno di quella generalizzazione apparentemente ovvia ci sfidano a cercare categorie diverse). Il Morin di quell’ormai antico ma sempre presente progetto è interessato, non tanto a contrapporre un’umanità di prima a una “post-”, quanto all’esperienza del cambiare; quello che attira il suo sguardo non è l’individualismo come una realtà storica “data” ma il processo allora iniziale e tuttora non compiu- to dell’accesso delle masse all’individualità, secondo l’espressione usata in L’esprit du temps. La sua umanità semi-immaginaria non può essere inchiodata a una “condizione” statica, si presenta sempre sospinta verso il futuro e insieme indaffarata a cercare radici che affondano non in uno ma in più passati, nella storia come nel magico; ed è la concentrazione su questa attività incessante che caratterizza l’antropologia di Morin, almeno in quella fase.
Quello che mi interessa, però, non è tanto rendere omaggio ai libri di Morin degli anni Cinquanta, o a uno specificamente di essi, Les Stars ap- punto quanto “farci i conti” come si dovrebbe sempre fare coi veri classici: riprenderne i temi essenziali e provare a verificare se usando categorie in parte differenti, e prolungandone i tempi, possiamo capire meglio, di quel libro, la presenza che tuttora ci accompagna.
2. Al centro dell’analisi di Morin sul divismo non ci sono i miti in quanto tali, oggetto in quello stesso anno da parte di Roland Barthes di indagini ce- lebri; e solo in parte gli apparati produttivi. C’è piuttosto un sistema di riti (deboli e mutevoli, ma capaci di diffondersi con una rapidità straordinaria), c’è la dinamica di prossimità e di distanza alla base dell’appropriazione della figura del divo da parte degli appassionati. C’è il gioco che (complice il cosiddetto “dispositivo” cinematografico) traduce in modo assolutamen- te ininterrotto la concretezza fisica delle persone in potenze simboliche e cala l’universo dei valori nella cronaca anche minuta di una vita. C’è insomma, un quadro di relazioni.
Non ho nessuna intenzione di riprendere ora punto per punto i contenuti di Les Stars, anche perché si tratta di un essai troppo limpido anche come scrittura per aver bisogno di un’esegesi, e perché credo chi mi legge non abbia bisogno di un riassunto. Piuttosto, da quando ho letto quel libro ho continuato a interrogarmi soprattutto su due punti: da un lato, se e come possiamo meglio comprendere, seguendo e insieme ridisegnando in parte
il cammino di Morin, i meccanismi effettivi alla base di questo fenomeno così proprio del nostro tempo; dall’altro, se l’idea moriniana di divismo ci aiuti a capire qualcosa dei comportamenti caratteristici della fase dei nuovi media.
Come spesso accade, un autore non si comprende mai così bene, non si “fa lavorare” mai in modo così produttivo come quando lo si fa incontrare nella mente con una voce diversa, inattesa. Per quanto riguarda i mecca- nismi del divismo, solo da qualche anno ho preso in considerazione come meritava un testo assai più antico di quello di Morin, che mi appare ora de- cisivo. È il Paradosso sull’attore. Per Diderot la vita del teatro sta in quella che possiamo chiamare una “divisione del lavoro”: tra l’attore, che agisce intensamente e pubblicamente, ma artificiosamente, e pertanto non sente nulla; e gli spettatori, che non agiscono, anzi sono costretti all’inazione, ma (o forse proprio per questo) sono pervasi da un’ondata dei sentimenti.
“Deposto l’abito di scena, la sua [dell’attore] voce è spenta, prova una stanchezza estrema, non ha che da cambiarsi e andare a dormire; ma non gli resta né turbamento, né dolore, né melancolia, né depressione. Siete voi che portate queste impressioni con voi. L’attore è stanco, voi siete triste [il riferimento è alla tragedia], perché lui si è agitato senza sentire niente, mentre voi avete sentito senza muovervi... L’illusione è solo vostra: lui lo sa bene, di non essere il personaggio. Abbiamo delle sensibilità diverse che si concertano tra loro per ottenere il più grande effetto possibile, che si sintonizzano, che si indeboliscono, si rafforzano, si sfumano per formare un tutto unico: questo mi colpisce”.
L’attore, secondo l’interpretazione, da allora ininterrottamente discussa, di Diderot, vive un’esperienza totalmente diversa da quella del pubblico. Il suo è un agire fondamentalmente meccanico, per quanto alto sia il talento,
professionale comunque, che viene profuso. Lo spettatore d’altra parte è
attraversato da una corrente tra due poli: l’azione interiore dei sentimenti e quella esteriore della rappresentazione; ed è questa corrente che lo uni- sce, lo sintonizza alla maniera di un diapason, con colui a cui “delega” la corporeità connessa ai suoi sentimenti. L’attore si traveste ma siamo noi che “cambiamo personalità”; lui indossa l’aspetto fisico del personaggio ma siamo noi che ci riconosciamo fino all’identificazione totale; lui mima, “fa” il personaggio noi lo viviamo. Diderot ci dice, prima di tutto, che lo spettatore non è “passivo”: lui, quello che sembra muoversi di meno “vive” di più. Solo una visione superficiale, limitata ai comportamenti esteriori, considera passivo il comportamento di chi sta fisicamente fermo e “attivo” (con le implicazioni positive, a volte anche un po’ razziste, di questa paro- la) chi fa fisicamente qualcosa.
Prendendo le mosse da Diderot possiamo ampliare il ragionamento di- cendo che è in atto, nello spettacolo, una forma di transfert, una corrente psichica che lega chi sta seduto in poltrona a un universo “altro”, quello della scena; resta separato fisicamente ma, anzi proprio per questo vive una partecipazione psichica intensa. È il trasfert che nasce da questa di- visione dei compiti a garantire la scarica emotiva che da Aristotele in poi abbiamo imparato a riconoscere come propria dello spettacolo recitato. Del resto è una forma di transfert, ancora a maggior ragione, quella che si stabilisce tra gli appassionati dei grandi sport di massa e i “giocatori”. Ho dimostrato altrove che anche nel calcio, come nel basket o nel cicli- smo, si produce una sorta di separazione fisica, e riunificazione emotiva, tra due metà dell’attività ludica quale è stata definita da Roger Caillois: ai professionisti l’impegno fisico, il rispetto delle regole (e le sanzioni quando non le rispettano), lo spazio “altro” che è proprio di tutti i giochi strutturati; al pubblico e prima di tutto ai tifosi la passione, l’identifi- cazione nei colori della squadra, la libertà e il senso di gratuità senza i quali un gioco non è più un gioco, mentre di contro, i giocatori sono tutto tranne che liberi o improduttivi, vincolati come sono a contratti anche miliardari.
Tutto bene, mi si dirà; ma se è vero che questo meccanismo è legato allo spettacolo, perché il divismo nella sua espressione novecentesca si manifesta solo con quella forma particolare di spettacolo che è il cinema? Continuiamo a ragionare sulla base di Diderot.
Prima di tutto, al cinema il paradosso si radicalizza: perché quello che si muove sullo schermo sono ombre e quindi non solo non sentono ma non
possono sentire nulla, però simulano la vita e il movimento come nessuna pièce teatrale può fare e producono un transfert unico tra le arti. Per pa-
rafrasare il Paradosso sull’attore possiamo dire “finito il film lo schermo torna bianco, cioè vuoto, voi siete carichi di emozioni; l’illusione è tutta vostra”. È l’intuizione di Ejzenstejn: sull’oscillazione perennemente irri- solta, al cinema, tra credere e non credere, per cui se non ci rendessimo conto che è un’illusione ci avventeremmo contro il cattivo dello schermo, ma se fossimo del tutto convinti che di illusione si tratta non proveremmo nulla.
Di più, proprio nei termini della teoria di Edgar Morin, il cinema a dif- ferenza degli spettacoli dal vivo stabilisce una tensione anch’essa perenne- mente irrisolta tra la vita puramente immaginaria del “doppio” e l’universo reale, tensione che siamo portati ad attribuire a una forma di magia a ca- vallo tra il trucco del prestigiatore e il sortilegio vero e proprio. E infatti per Morin la potenza emotiva del cinema è indissociabile dal fatto che lo
spettatore è fisicamente bloccato, non ha neppure quello sfogo che in teatro è dato dagli applausi, magari a scena aperta, o dai fischi. È per questo tra l’altro che in pochi luoghi si piange, così irrefrenabilmente e così spudora- tamente, come al cinema.
Lo spettatore delle ‘sale oscure’ è oggetto passivo allo stato puro. Egli non può nulla, non ha nulla da dare, neppure il suo applauso. Paziente, patisce. Soggiogato, subisce. Tutto avviene molto lontano, fuori dalla sua portata. Contemporaneamente e improvvisamente, tutto avviene in lui.
Impotenza e partecipazione, lontananza e vicinanza, insomma, non solo non si elidono nell’esperienza dello spettatore cinematografico, ma al con- trario si alimentano a vicenda. Questa situazione di passività forzata, in cui ci sentiamo estranei e insieme coinvolti, è ideale per farci caricare il film di frammenti di ricordo e di rappresentazione tratti dalla nostra vita. Per cui alla fine piangiamo sempre di noi stessi.
Al cinema si piange da soli, protetti dal buio, e quando si accende la luce si vedono tanti che si affrettano a togliere dalla faccia le tracce troppo vi- sibili della commozione; ma si piange anche aiutati dal fatto di sentire che altri sono come noi turbati dalle stesse scene. E aiutati dal fatto di vivere in una sorta di bolla temporale, in un mondo “protetto” dove l’emozione può essere consumata e vissuta senza subire sanzioni sociali (salvo forsa una leggera vergogna) e senza effetti sulla vita pratica. Se è vero, in generale, che il cinema è paradossalmente la più personale delle esperienze e insieme un’arte “sociale”, che presuppone un pubblico fatto non di singoli ma di gruppi, che mette alla prova se così si può dire i diversi grumi di socialità propri del nostro vivere (al cinema si va in coppia, si va con gli amici del cuore, si va con i gruppi con cui poi si va a cena, eccetera, pur di non andare da soli), è vero che il piangere al cinema mette specificamente alla prova questi nessi sociali.
3. Il divo, nel momento in cui noi guardiamo il film, è un’ombra che non sente letteralmente niente (neppure la stanchezza fisica dell’attore) ma sulla quale “appendiamo”, possiamo dire come quando si appendono gli abiti: un tumulto emotivo più forte, in generale di quello prodotto dagli spettacoli dal vivo.
Inoltre, nel meccanismo cinematografico, il volto e la maschera sta- biliscono una nuova, complessa dialettica. Da sempre la “persona” degli antichi, la maschera, deve la sua potenza sacrale al fatto di fissare il viven- te, evocandolo e insieme sopravvivendogli, trasformandolo in materiale duraturo. Come uno strumento, come un giocattolo. Il cinema al tempo stesso esalta la fisicità dell’attore (di contro all’oggettualità della maschera
classica ma anche alla convenzionalità esasperata del trucco teatrale), e fa della fisicità stessa una maschera. Non penso tanto al campo del comico, dove la maschera può essere intesa in un senso ancora relativamente tra- dizionale (quella di Charlot o Fernandel, ma anche di Walter Matthau o Roberto Benigni), nel suo diventare feticcio, “fare ridere da sola”. Penso invece al divismo drammatico, dove è il volto stesso dell’attore, fissato nelle fotografie e nelle immagini conservate nella memoria dello spetta- tore a farsi maschera. È come se chiedessimo continuamente all’uomo o alla donna che la macchina da presa trasferisce sullo schermo di adeguarsi alla sua identità precostituita, fatta dei tanti ruoli interpretati in preceden- za, del cumularsi delle emozioni che quel volto già ci ha fatto vivere. Per questo come sappiamo il nome dell’attore, al cinema, prevale su quello del personaggio. È una mitologia tautologica come gran parte delle mitologie identitarie: “sii quello che sei”. Come la maschera antica, il volto stesso dell’attore fissa il destino possibile del personaggio. Una maschera meno materiale delle maschere antiche ma più stabile e più condivisa, grazie alla fissazione operata dalla fotografia.
La tensione generata dal doppio cinematografico è anche la causa di un’ossessione degli spettatori, e tanto più di quelli che più intensamente si sono lasciati emozionare, per la realtà concreta, per la vita umana (non più semidivina) del divo, quasi a verificare se la frattura tra la realtà e la scena non possa essere ricomposta. Lo spettatore è attraversato dalla ten- sione tra il divo sullo schermo e il divo stesso come volto già fissato, come mito già noto: e questo produce più che un carisma, un transfert al quadra- to, il perenne inseguimento tra la grandiosità della leggenda e il sospetto che dietro la maschera, appunto, non ci sia niente. Un’ossessione prima di tutto erotica, perché il divismo non sarebbe immaginabile senza quella sessualizzazione esplicita dell’immaginario che è un tratto dominante del Ventesimo secolo.
Il meccanismo di base del divismo musicale è, analogamente, la pos- sibilità di fissare una voce in una persona. Le conseguenze sono solo in parte simili. L’udito è più intensamente aggregante (e ancora di più lo è un’amplificazione che invia i suoi messaggi non solo alle orecchie ma alle gambe, letteralmente fino al sedere incluso), la voce è più volatile, più si- mile allo spirito. Non è un caso che l’erotizzazione del divo nel rock abbia prodotto nuovi esperimenti, dal bacino ostentato come un trofeo di Elvis Presley fino alla dichiarata sessualità gay di Freddie Mercury. Il transfert del pubblico rock sta nel voler vivere nella propria fisicità la traduzione della voce in carne, e farlo attraverso un rituale elaborato ma al tempo stesso immediato.
Non è un caso che proprio attorno al rock si siano sviluppati alcuni dei cerimoniali più intensi della nostra cultura, e insieme alcune delle aggrega- zioni numericamente più vaste. Che siano stati proprio il rock e il divismo musicale a fissare alcuni passaggi culturali in senso antropologico, basta pensare a Woodstock, autentico evento simbolo della controcultura ancora in formazione. Che alcuni dei grandi riti nel senso classico del termine abbiano richiesto un’aggiunta per così dire di musica aggregante: come è accaduto al rito funebre per antonomasia della svolta del secolo, il funerale di Lady Diana, con la canzone di Elton John, Candle in the Wind. Non è un caso che nei concerti abbiano successo le canzoni già note, siano accolte spesso con difficoltà quelle nuove: il bisogno è di riconoscere: ricongiun-
gere la voce col corpo; con una possibilità in più, quella di partecipare con
la propria voce. L’appassionato di musica non si contenta di “sentire senza muoversi”, scopre un possibile ruolo attivo nel senso letterale del termine, nel quale sembra prefigurarsi quella specie di febbre partecipativa e prota- gonistica che sarà tipica del nuovo universo mediatico.
4. Il divismo, sistema di metafore e metamorfosi che hanno attraversato il secolo del cinema, ha esso stesso subito storicamente, da quando Les
Stars è uscito, una serie di aggiustamenti e di metamorfosi ulteriori.
Non mi soffermerò sulla televisione, se non per citare una frase (cara a un altro grande antropologo del nostro presente, Marshall McLuhan) di un’attrice drammatica, Joanne Woodward: “Quando facevo del cinema la gente diceva ‘Guarda, quella è Joanne Woodward’. Adesso invece [che fac- cio televisione] dicono: ‘Quella lì è una che conosco’”. Possiamo dire che la tensione, che nel cinema è alla base del transfert , con la televisione da un lato sembra attenuarsi, dall’altro e soprattutto si “cronicizza”: il divo della televisione vive una vita parallela alla nostra, e questo per un verso ce lo rende prossimo ma per un altro rende i privilegi di cui gode meno legittimi e motivati; oggetto, più che di amore o di odio, di una corrente insieme di familiarità e di invidia, di identificazione soft e di potenziale irrisione. Il trionfo della televisione però contrariamente a quanto molti immaginavano non ha realmente, né sfidato né ricodificato, il divismo cinematografico né tanto meno quello legato al rock, che anzi proprio nell’epoca della TV si è posto come il polo più “elettrico” letteralmente del transfert di quella “nuova classe adolescente” di cui Morin (nel libro sul divismo ma anche in alcuni splendidi saggi poi raccolti in L’esprit du temps 2) segnalava l’av- vento. In sostanza, contrariamente a chi sostiene che Les Stars sia stato “lasciato indietro” dall’avvento della TV, io penso che fino al nuovo secolo l’antropologia delineata da Morin sia rimasta ben salda.
La TV ha semmai aggiunto non direi un divismo di serie B ma un lato B del divismo, un divismo a basso livello di coinvolgimento, dove è la storia a risucchiare dentro di sé l’attore: e lo dimostra ancora una volta il gioco dei nomi, il fatto che in questo caso chiamiamo l’attore col nome del personaggio, non viceversa, il fatto come notò già McLuhan che fu consi- derato normale invitare l’attore che interpretava Perry Mason ad aprire il congresso degli avvocati americani. Un divismo debole tra l’altro permette di fare emergere tutte le ambivalenze che nel divismo cinematografico ven- gono tenute nascoste dalla forza stessa del transfert. Per cui, soprattutto in questa fase della storia della televisione, è normale mettere in scena anche