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POLITICA E VERITÀ A PARTIRE DA EDGAR MORIN

La politica lancia la sfida maggiore alla conoscenza. Edgar Morin Il dono di se stessi alla verità tende a trasformarsi in appropriazione della verità. Edgar Morin Non si può ingannare una pianta come non si può ingannare la Storia – ma si può annaffiarla. Vaclav Havel Sfida intellettuale e sfida politica

Nella breve storia della modernità occidentale (alcuni secoli appena), la sfida civile è connaturata all’impresa intellettuale. La promozione della “cittadinanza terrestre”, per dirla con un’espressione cara a Edgar Morin, è inscritta nell’atto stesso di nascita del soggetto moderno, a partire dal

cogito cartesiano. Che infatti non è solo ipotesi “neutralmente” scientifi-

co-filosofica circa la natura universalistica dell’io pensante. Ma anche, e insieme, “manifesto” assertivamente engagé del moderno individualismo dualista. “Manifesto” della lotta civile, e subito politica, alle “oscure” radi- ci comunitario-religiose dell’ancien régime. Una lotta sostenuta con l’arma epistemologica dell’individualizzazione e della disgiunzione. Disgiunzio- ne della coscienza individuale dall’essere sociale (come avrebbe poi detto Marx). Disgiunzione dell’universale-verità dal particolare-apparenza. E di- sgiunzione, all’interno stesso dell’individuo, delle nobili – civili – funzioni intellettive dal cieco – incivile – meccanicismo delle passions de l’âme. Una disgiunzione che, a nobiltà per così dire invertite, avrebbe poi nutrito anche l’impegno civile sul lato romantico dell’individualismo moderno.

Questa risposta modernista alla crisi degli ordini sociali e simbolici tradizionali è ancora vigorosamente attiva, sebbene ovviamente in forme del tutto nuove. È pur vero che nel corso degli ultimi decenni la critica “decostruzionista” a quel soggetto ha via via portato alla luce il carattere “incivile” del suo universalismo. Che fonda l’inclusione nella “cittadinan- za terrestre” di tutti gli esseri umani sul sacrificio violento delle differenze individuali, di genere e di cultura. Ma questa sistematica corrosione “de- costruttiva”, giunta fino all’estremo di celebrare (con discutibile euforia) un numero imprecisato di esequie anti-universalistiche (per la morte del soggetto, della ragione, della modernità, del padre, della politica, della de- mocrazia, della verità e via celebrando), non è affatto estranea a quella compenetrazione engagé tra sfida intellettuale e sfida civile che ha messo al mondo l’universalismo occidentale. Ne è al contrario uno sviluppo mi- litante radicale. Ben insediato, oltretutto, nell’impetuoso vortice dell’im- maginario post-modernizzatore, in effetti iper-modernizzatore, degli ultimi decenni. In quel travolgente vortice “tecno-nichilista” (Magatti, 2009) che procede per metodica “liquefazione” (Bauman, 2000) delle “pesantezze” del senso universalistico, appunto, e delle sue istituzioni, traducendole sempre più rapidamente in secessioni dal legame sociale e in “leggere” opportunità di godimento individuale (Žižek, 2001), assistite dagli sviluppi più sofisticati della tecno-scienza. Di tale metodica “liquefazione”, la fede decostruzionista è stata e continua a essere una componente attiva a tutti gli effetti, portando alle estreme conseguenze la corrosività del moderno “dub- bio cartesiano”, tanto nelle sue potenzialità critico-disincantatrici quanto nelle sue potenzialità scettico-nichilistiche.

In Edgar Morin, come ho cercato di evidenziare in altre occasioni (Man- ghi, 2009a), la moderna aspirazione a tener insieme sfida civile e sfida intellettuale batte altre strade ancora. Il “moriniano” pensiero della com-

plessità, infatti, non è ascrivibile né ai modernismi di matrice variamente

illuministica né ai postmodernismi di matrice variamente decostruzioni- sta. Esso incorpora piuttosto, in chiave dialogica, a un tempo oppositiva e complementare, le “buone ragioni” di entrambe queste correnti culturali: l’unità e la molteplicità, l’universalismo e la differenza, la convergenza e la divergenza, l’aspirazione alla verità e la pratica del dubbio.

In queste note, proporrò alcune riflessioni che prendono spunto da questa “dialogica” moriniana, soffermandomi sul modo peculiare in cui essa raccor- da sfide del sapere e sfida civile. Ancor più specificamente: sfide del sapere e sfida politica. O se vogliamo, anche più in breve: verità e politica.

Non accade di frequente, o almeno così pare a chi scrive, che ci si ac- costi all’opera moriniana attraverso questa problematica. È soprattutto al

vasto ripensamento epistemologico dei principi organizzatori prevalsi nel sapere moderno, sviluppato nei sei volumi intitolati La Méthode (1977- 2004), che si rivolgono gli studi dedicati a quell’opera. Ma i due nuclei tematici, quello “politico” e quello “epistemologico”, sono in Morin inse- parabili. Accostarsi al secondo, come spesso avviene, separatamente dal primo, rischiando di ridurre La Méthode a una filosofia delle scienza fra altre, o a una teoria generale della compolessità, conduce facilmente a sem- plificazioni interpretative che allontanano dalla comprensione unitaria del pensiero moriniano (Manghi, 2010).

La Méthode non scaturisce infatti da una generica, per quanto incon-

tenibile, curiosità epistemica verso il mondo e verso le conoscenze pro- dotte per interpretarlo. Quell’impresa straordinaria scaturisce piuttosto da un’acuta, intensa sensibilità insieme personale e antropologica per le radi- cali sfide civili del tempo vissuto da Edgar Morin. Per la “radicalità della crisi dell’umanità”, scrive testualmente Morin nell’introdurre il primo vo- lume del suo opus magnum, La nature de la nature:

La radicalità della crisi della società, la radicalità della crisi dell’umanità mi hanno spinto a ricercare al livello radicale della teoria” (Morin, 1977, trad. it. p. 21).

E ancora, nelle ultime pagine del secondo volume, La vie de la vie:

La tragedia politica sta, inannzitutto, nell’opposizione tra una realtà antropo- sociale, che produce e richiede un’elevata complessità, e il pensiero politico, che risponde all’ambiguità, all’incertezza, e alla contraddizione con la sempli- ficazione, il manicheismo, l’esorcismo. (Morin, 1980, trad. it. p. 522)

L’acuta percezione dell’urgenza di pensare in forme nuove, non più “nove- centesche”, il rapporto tra verità e politica, nutre del resto il pensiero di Edgar Morin fin dalle origini, forgiandosi nelle controversie degli anni 50 che lo vedo- no in polemica permanente con le culture politiche dominanti – quella marxi- sta, quella esistenzialista, qualla strutturalista. Il ripensamento di quel rapporto trova una prima importante “sistemazione” nel bellissimo Autocritique (1959), dove Morin riflette in profondità sulla sua espulsione, avvenuta nel 1951, dal Partito Comunista Francese, al quale aveva aderito nel corso della Resistenza. Ma assume una particolare pregnanza – passando per tappe progressive di ap- profondimento (in particolare: Morin, 1965) – in un volume del 1981 intitolato significativamente Pour sortir du XXe siècle (d’ora in avanti, per brevità: PS).

Un testo ponderoso uscito subito dopo il secondo volume della Méthode, La vie

mo dire, uno sviluppo collaterale, in grado di rivelarcene l’intima ispirazione

politica. PS verrà ripubblicato oltre 20 anni dopo con il titolo Pour entrer dans le XXIe siècle (2004a), senza che il suo nucleo epistemologico originario – di

otto anni precedente il crollo del Muro di Berlino, è il caso di evidenziare – ne risultasse sostanzialmente scalfito. Ed è riflettendo intorno a questo saggio che prenderano forma le note che seguono.1

Verità e certezza

Lungo tutto il 900, le pratiche intellettuali-intellettualizzate hanno pro- liferato come in nessun’altra epoca storica, all’interno delle organizzazioni produttive e dei servizi, sviluppando i propri fondamenti per vie relativa- mente autonome, in appositi contenitori denominati “scientifici” e “tecno- logici”. Questo processo di progressiva intellettualizzazione della nostra vita sociale è avvenuto sotto il segno prevalente di una forte compenetra- zione simbolica tra progresso della conoscenza e progresso civile, nel solco dell’ottimismo illuminista. Nel solco delle speranze moderniste, da un lato, e delle speranze rivoluzionarie dall’altro. O del sapere come razionalizza- zione tecno-scientifica del mondo, da un lato, e del sapere come critica- superamento dello “stato di cose presente”, dall’altro.

La retorica del discorso modernista, in effetti, è spesso costruita sul presup- posto della netta separazione tra le sfide del sapere, sempre più “mestierizza- to” e autoreferenziale (lo sviluppo della conoscenza per la conoscenza), e le passioni civili, considerate come un ostacolo, di per sé, alla vera (“oggettiva”) conoscenza dei fatti, siano essi sociali o naturali. Ma tale retorica scientista – consapevolmente o meno – è manifestamente figlia di una precisa scelta di ci- viltà: la risposta razionalizzatrice alla crisi dell’ordine simbolico tradizionale. Una risposta che ha trovato la sua prima elaborazione chiara e netta nell’uto- pia positivistica, sorta due secoli fa nel cuore dell’Europa: la scienza dei fatti,

1 Più precisamente, riprenderò e svilupperò questioni esposte in prima scrittura nella mia introduzione (Manghi 2009b) al volume di Edgar Morin, Il gioco della

verità e dell’errore. Rigenerare la parola politica, pubblicato dalla casa editrice

Erickson, che propone al lettore italiano la seconda parte di PS, preceduta dalla nuova Prefazione scritta da Morin in Pour entrer dans le XXIe siècle e seguita

da due altri scritti: un’intervista di François L’Yvonnet a Egar Morin per il suo 80° compleanno (2001) e un omaggio a Edgar Morin, per la stessa occasione, dell’amico Alain Touraine (tratti da López Ospina, Vallejo Gomez, 2001). In pre- cedenza, PS era stato pubblicato per intero, in italiano, dall’editore Lubrina di Bergamo, nel 1987, che poco tempo dopo ha tuttavia cessato le pubblicazioni.

separati dai giudizi di valore, interpretata come levatrice di un’epoca nuova, finalmente affrancata dalle fumisterie metafisiche e dalle superstizioni sacro- religiose. Secondo Auguste Comte, padre del positivismo, la scienza dei fatti avrebbe incanalato le energie liberate dalla “disordinata” stagione settecentesca delle grandi rivoluzioni nell’alveo dell’“ordinato progresso”.

Questo ideale, che nell’atto di reclutare scienziati e studiosi li trasforma

ipso facto in benintenzionati funzionari della tecnoscienza, è oggi quanto

mai vivo e vitale. Con la rivoluzione digitale ha conosciuto anzi un rilan- cio poderoso, grazie alla facilità crescente con la quale i progressi della conoscenza possono essere misurati – indicizzati, proceduralizzati, valuta- ti, amministrati, incentivati – e funzionalmente incorporati nel complesso tecno-socio-economico globale e nell’effervescente immaginario del neo- capitalismo egemone sul pianeta negli ultimi tre decenni.

L’alternativa critico-rivoluzionaria all’ideale dell’“ordinato progresso”, per parte sua, ha perduto rapidamente, con il crollo del comunismo sovietico, la sua forza generativa. Ma non si può dire che abbia ancora rielaborato evo- lutivamente il lutto di quella perdita. La crisi dell’intellettuale critico, figura- perno di quell’alternativa, sembra piuttosto aver prodotto un’incerta oscilla- zione tra il “positivistico” votarsi al mestiere, da un lato, e il gioco estetizzante della “decostruzione” a oltranza, dall’altro, dove l’arma della critica, sciolta dalla missione “rivoluzionaria” di dover nutrire grandi speranze, rivelatesi tragicamente illusorie, si esercita nel compito non meno radicale di procurare grandi delusioni – lo strano piacere di sciogliere nella corrosività onnivora del “sospetto” qualsiasi ragionevole verità, nel segno di una verità superiore, cui si dà il nome ineffabile di assenza di verità, come osserva Morin:

La problematica della verità è ineliminabile. Quando Châtelet scrive impru- dentemente che non esiste alcuna verità, formula con ciò la sua verità, quella dell’assenza di verità, ovvero una verità di secondo grado, una metaverità più vera delle (apparenti) verità. (PS, trad. it. p. 51)

È con questo “conto aperto” dell’intellettuale critico verso il proprio rap- porto con la verità che si misura soprattutto PS, cercando di includere l’inte- ra problematica nel più vasto alveo costituito dal pensiero in progress della complessità, unitamente alla problematica del rapporto “mestierizzato”, fat- tivamente “tecnoscientista”, con la verità. Nell’ipotesi, possiamo a buona ragione supporre, che entrambi questi versanti della promessa modernista, al di sotto dell’antagonismo che li ha storicamente caratterizzati, coltivino una sostanziale convergenza epistemologica in ordine al tema della verità. Al rapporto, più precisamente, tra verità e certezza. Tra ricerca della verità e promessa di certezza – fosse pure la certezza che tutto è incerto.

Uscire dal ventesimo secolo

PS è stato scritto quasi di getto, tra l’estate del 1980 e l’inverno succes-

sivo, in un periodo vorticoso della vita di Morin, sul quale torneremo. Il Muro di Berlino era ancora ben saldo in piedi. Nessuno stupore, dunque, se questo saggio individua nel comunismo sovietico un oggetto di studio di rilevanza primaria2. Quel che colpisce, semmai, è che quell’analisi rimanga

pregnante ancor oggi, a trent’anni di distanza e oltre venti dal crollo del Muro, per comprendere non soltanto l’esperienza storica del comunismo, ma i dilemmi intorno ai quali ancora oggi siamo chiamati a ripensare il rapporto tra sfida intellettuale e sfida politica.

La conclamata follia di quell’esperimento storico, interrogata in chiave di pensiero della complessità, è in grado di farci da specchio rivelatore delle nostre, di follie. Delle nostre ricorrenti tentazioni di fondare le nostre pratiche politiche sull’autoidentificazione con la verità – quale che sia que- sta verità. Una presunzione che sfocia necessariamente, pur animata dalle migliori intenzioni, nel non ascolto, nella squalifica, nella demonizzazione, fino alla persecuzione, dell’altro, eletto a ostacolo, traditore, nemico.

La questione del rapporto tra verità e politica non si può liquidare pren- dendo atto degli errori, senza interrogarsi a fondo sulle ragioni profonde che in nome della verità ci hanno spinto a compierli – e che presumibil- mente ci spingeranno a compierne altri:

Finché non avremo cominciato a capire, le nostre menti saranno disarmate, non faremo che errori di visione e di previsione, come non cessano di fare i nostri vertici politici, che credono di conoscere i vari regimi soltanto perché brindano, vanno a caccia, tengono conversazioni appartate con i loro dirigenti (PS, trad. it. p. 68).

Soprattutto non dobbiamo ignorare, per Morin, che le attuali pretese di verità non sono accampate su interessi scopertamente di parte (la nazione, la razza, un dio esclusivo), ma su valori dichiaratamente universalistici. Sull’amor di verità tout court. Su di un amor di verità, questo il punto, strettamente associato alla nozione moderna di certezza e al suo rapporto univocamente antagonistico – aut aut – con l’incertezza. Il cuore profondo dell’analisi dev’essere pertanto, secondo Morin, il percorso paradossale, largamente inconsapevole, che fa convivere genuine aspirazioni universa-

2 L’analisi del comunismo sovietico verrà ulteriormente sviluppata da Morin due anni dopo in un altro volume (Morin, 1983).

listiche alla libertà, alla democrazia e al socialismo con deliranti involuzio- ni intolleranti e totalitarie.

Il fatto è che noi non siamo oggi meno abitati dei comunisti sovieti- ci di un tempo, nonostante le apparenze, dall’idolatria della verità come certezza. Partiti-verità, partitini-verità, contropartiti-verità, movimenti-ve- rità, giornalisti-verità, siti web-verità, persino attorcomici-verità, a sinistra come a destra, continuano a sorgere e risorgere di continuo. (E come in epoca sovietica, fra l’altro, le verità più idolatrate sono quelle della scienza economica).

A differenza che nell’URSS, certo, le attuali democrazie sono pluraliste. Differenza enorme, beninteso. Ma che non cancella affatto il problema di fondo. A maggior ragione in un tempo come il nostro, nel quale la parola de- mocrazia ha preso a indicare per tanti assai più un problema che una soluzio- ne, e in nome della “crisi della democrazia” si vanno moltiplicando le voci politiche di partiti e partitini, gruppi e gruppetti – non ultimi quelli armati – che dalle loro nicchie particolari ambiscono a smascherare errori e menzogne altrui e a vaticinare verità universalmente vere. La questione epistemologica del rapporto tra verità, certezza e politica è tutt’altro che liquidata.

Il “comunismo d’apparato”, come lo chiama Morin in PS, è stato l’in- carnazione storica più coerente e radicale di una tentazione delirante di certezza che va al di là di quell’esperienza storica. Una tentazione totali- taria del nostro immaginario e delle nostre pratiche sociali e politiche che è propria del tempo d’illuminazioni “scientifiche” chiamato modernità e che continua a essere per molti aspetti il nostro orizzonte quotidiano di senso. Una tentazione che vediamo fiorire non a caso, in varie forme e formati, anche al largo dell’esperienza politica denominata “comunista”: in seno a movimenti etnici, religiosi, populisti, a partiti sorti intorno al culto adorante di un capo (o capetto), a progetti di controllo monopolistico dell’informazione, dotati di modernissimi “comitati centrali” non elettivi o fintamente elettivi. E a sinistra, osserva Morin ancora di recente (Morin, 2010a), si preferisce tuttora spesso risolvere le controversie con la scissio- ne politica, fino alla polverizzazione, in nome dell’unità-verità tradita, nel- la persuasione che la verità-certezza sia il bene supremo cui votarsi. Nella persuasione che essendo una sola la verità-certezza, ciò che se ne discosta sia fatalmente errore – piuttosto che, per dirla con Pascal, un’altra verità, fonte di possibile interrogazione sui limiti della nostra, sui quali tendiamo disinvoltamente ad autoingannarci (per amor di verità, naturalmente).

Anche il terrorista, “l’infelice che ha in mano una bomba”, scrive Morin, deve fare da specchio alla nostra moderna pretesa di certezza, eticamente universalistica:

Per uno stupefacente fenomeno di allucinazione e di possessione ancora su- periore al vudù, l’infelice che ha in mano una bomba si vede, si sa portatore di una missione affidatagli dal proletariato, ergo dall’umanità tutta intera. Il silen- zio del proletariato che dorme gli conferma che è proprio lui la sua sentinella e colui che lo sveglierà. (PS, trad. it. p. 70)

Menzogna come falsa coscienza

Non rifletteremo mai abbastanza, con il rigore e l’amor proprio necessa- ri, sulle ragioni profonde della nostra facile adesione a verità vissute imme- diatamente come certezze. Verità-Messia, le chiama Morin:

Eccolo, il punto centrale del furore e del delirio politico dei tempi moderni: l’occupazione del luogo della Verità-Messia. (PS, trad. it. p. 69)

Di queste verità diventiamo ottusi seguaci proprio nel momento in cui crediamo di esserne padroni, persino stupiti che altri possano seguirne al- tre con la medesima, speculare, disinvoltura, finendo per diventare autori o complici di nefandezze anche terribili, senza cessare di sentirci animati dalla migliore delle intenzioni. Non possiamo dunque cessare di interro- garci sul lato oscuro del rapporto che intratteniamo con la verità.

Con questo, come già dicevamo, non dobbiamo tuttavia cedere alla tentazione “postmodernista” di gettare il bambino con l’acqua sporca, eli- minando il problema stesso della verità. Non dobbiamo cedere, in altre parole, alla tentazione di separare la parola politica dalla parola verità, riducendo quest’ultima a opinione soggettivistica, quando non addirittura a sensazione estetizzante, al “mi piace / non mi piace” da social network. Ma per questo è necessario molto pensiero. Pensiero complesso.

Ripartiamo dunque dalla domanda: per quali ragioni la parola politica, nel secolo appena chiuso, si è ripetutamente riproposta di affermare grandi verità universalistiche, finendo per mettere alla luce il loro opposto, cioè errori e menzogne? Veri e propri deliri collettivi? Osserva Morin:

La parola politica si dà la missione di proclamare la verità, di snidare l’errore, di smascherare la menzogna. Mette in guardia contro i pericoli mortali ai quali conduce l’errore. Pravda – “La Verità” – è il titolo del giornale fondato da Lenin e divenuto portavoce della parola ufficiale dell’URSS. (PS, trad. it. p. 47)

Le spiegazioni più comuni a questo fenomeno ricorrente sono per lo più di due generi, osserva Morin: il primato degli interessi materiali, di classe

o di potere, sulle idee, e le cattive intenzioni prevaricatrici di qualche cricca di potenti manipolatori. Potremmo dire, schematizzando: una buona fede opaca e una lucidissima malafede.

Nel primo caso, le grandi menzogne costituiscono una derivazione di interessi materiali sottostanti, da considerarsi come la “vera realtà” dei rap- porti umani, nascosta sotto rappresentazioni di sé e del mondo che gli es- seri umani elaborano ingenuamente, in apparenza per disinteressato amor di verità, ma di fatto, senza rendersene conto, per posizionarsi e affermarsi all’interno dei conflitti sociali in atto. Tale spiegazione (che sul piano psi- cologico evoca la “razionalizzazione” freudiana o i “residui” paretiani) ha avuto notoriamente tra i marxisti i suoi più strenui e rigorosi sostenitori, e per questa via ha guadagnato una posizione di primo piano in ambito politico, influente ancora nei decenni vicini a noi. L’autorevole filosofo marxista-strutturalista Louis Althusser ha insistito negli anni 70 con par- ticolare vigore e rigore sul carattere squisitamente “scientifico” di questa spiegazione, che avrebbe consentito all’avanguardia politica di diradare le nebbie della “falsa coscienza” dalla mente degli oppressi-sfruttati, e per loro tramite dell’umanità intera.

Questa spiegazione, ritenendosi immune a priori, non solo in quanto “davvero sincera”, ma anche e insieme in quanto “davvero scientifica”, dall’errore della “falsa coscienza”, non faceva evidentemente che ripro-