• Non ci sono risultati.

IDENTITÀ APPUNTI CRITIC

1. Il termine di “identità” è oggi di uso ampio e frequente in più universi di discorso; tra questi ci interessa distinguerne due: a) quello, più diffuso, dei media, degli operatori nel settore della cultura e del patrimonio, dei po- litici locali e nazionali, degli opinionisti, che tra l’altro è anche quello che fa maggiormente senso comune; b) l’apparato concettuale e argomentati- vo di chi è attivo professionalmente nella ricerca nel settore delle scienze umane (un recente esame critico di tali usi sta in Remotti, 1996 e 2010). Il primo è quello con cui abbiamo frequentemente a che fare quando ci tro- viamo ad interagire con enti territoriali e fondazioni, politici, amministra- tori e intellettuali locali, nelle ricerche su comunità e tradizioni territoriali, loro riproposta e rivitalizzazione, nel lavoro all’analisi e alla costituzione del patrimonio demoetnoantropologico e all’organizzazione di campagne di catalogazione, nello studio e progettazione dei musei etnografici e con- tadini; ma è anche quello che contribuisce non poco alla formulazione di programmi di gestione, intervento, catalogazione, valorizzazione a livello ministeriale, nazionale e regionale. È dunque da questo che intendiamo ini- ziare un conciso esame critico, anche sulla base della nostra esperienza di indagine e intervento; contrapporremo poi ad esso alcuni nostri presuppo- sti, strumenti concettuali e indicazioni per la ricerca, con lo scopo di elabo- rare posizioni chiare e operative. Nel far questo proporremo anche qualche osservazione sul secondo uso del concetto, legato all’attività scientifica.

Va notato innanzitutto che si parla di identità in modo generalmente sciatto e impreciso, dando però per scontato che sia di immediata compren- sione e di significato trasparente, che non celi ambiguità, che non faccia problema. Vediamo in ogni modo quelli che ci appaiono i più evidenti e diffusi presupposti e aspetti di questa concezione.

In primo luogo, l’identità è concepita in modo essenzialista, come una “cosa”, una sostanza che sta da qualche parte, a prescindere da una precisa localizzazione sociale e territoriale dei suoi portatori e dell’interazione tra essi; non sarebbe dunque tanto un fenomeno da spiegare quanto piuttosto

un dato di fatto che può essere utilizzato per spiegare altri fatti o che può diventare oggetto di politiche e iniziative di promozione e valorizzazione.

Poi, in secondo luogo, se ne parla in rapporto a unità umane molto di- verse quanto a dimensioni, parametri che le individuano, tipi di territorio: una comunità locale o un quartiere - e in questo caso si può ipotizzare tra i membri una misura d’interazione diretta - un territorio più o meno ampio o una città - ma qui, come nei casi che seguono, come può configurarsi una sorta di fruizione condivisa, di pratica interattiva della locale identità? - o addirittura una regione, una nazione, un continente; ci si può riferire pure a una classe sociale o una categoria professionale o funzionale, a una classe di età (i giovani, gli anziani), a un genere, a una popolazione a caratterizza- zione linguistica, ad es. gli occitani, i franco-provenzali, i walser germano- foni delle Alpi occidentali, caso ultimamente abbastanza frequente, a una categoria sociostatistica o demografica, ad es. gli immigrati (o gli immi- grati a Torino, o i calabresi immigrati, ecc.), ad un insieme genericamente “etnico” e nazionale, gli arabi, o religioso, gli islamici, al limite a quelle che sono definite “comunità virtuali”. Infine queste diverse configurazioni possono apparire tra loro associate: un quartiere operaio, un quartiere di immigrati, una minoranza linguistica e religiosa, come i valdesi ecc. Pur nella loro varietà i riferimenti risultano il più delle volte di carattere ter- ritoriale e geografico (o alludono addirittura alle più artificiali ripartizioni politico-amministrative), nazionale, linguistico, religioso, tutti in genere intesi come indicatori di gruppi “etnici”, cioè portatori di una propria ed esclusiva valenza di profondità storica, di una più o meno definita affinità biologica e psichica. Vale la pena infatti di osservare come non manchino i casi in cui entra in gioco in primo piano anche il carattere o il “tipo” fisico, del quale non è tanto importante la frequenza nell’unità umana in questione quanto il fatto che si presti a rappresentarla, ad identificarla.

In terzo luogo il gruppo umano cui si attribuisce un’identità è implicita- mente concepito come un’entità omogenea, nella quale non sono sostan- zialmente rilevanti le differenziazioni di funzioni, censo, potere, mestie- re, genere o età, e le conseguenti possibilità di divergenze, competizione o conflitti, coalizioni, egemonia o subalternità, infine di repressione, e le connesse diversità di comportamenti e atteggiamenti, di interessi e valori. L’identità compare come la qualità, la “cosa” che in ultima istanza tutti ugualmente qualifica e accomuna. In questo contesto discorsivo tali grup- pi sono spesso chiamati “comunità” – un altro termine e concetto che, più che essere usato in qualche senso preciso e univoco, è invece inteso a sottolinearvi implicitamente un’interazione stretta, armonica, fondata su abitudini e valori condivisi, su una comunanza di intenti radicata e

quasi “naturale”, e che dunque è anch’esso da sottoporre ad una puntuale analisi e critica.

Introduciamo qui alcune precisazioni. Per quello che riguarda le ca- ratteristiche razziali, i “tipi” fisici, le acquisizioni di carattere scientifico relative alla loro inconsistenza in quanto fondamento e indicatori di dif- ferenze biologiche e culturali di qualche significato dovrebbero ormai da tempo essere diffuse anche al livello del senso comune e delle concezioni dell’identità che abbiamo preso in esame. Tra l’altro ne possediamo una recente formulazione sintetica, chiara e netta, elaborata a contrastare i ri- gurgiti di razzismo anche nel nostro paese e firmata da genetisti italiani e altri eminenti studiosi, tra i quali antropologi culturali. Vediamo breve- mente qualche affermazione di questo utile Manifesto (2008, punti 1 e 2): “Le razze umane non esistono.. [si tratta di] un’astrazione derivante da una cattiva interpretazione di piccole differenze fisiche fra persone erro- neamente associate a differenze ‘psicologiche’ e interpretate sulla base di pregiudizi secolari… È vero che gli esseri umani si aggregano in gruppi di individui, comunità locali, etnie, nazioni, civiltà, ma questo non avviene in quanto hanno gli stessi geni ma perché condividono storie di vita, ideali e religioni, costumi e comportamenti, arti e stili di vita, ovvero culture. Le aggregazioni non sono mai rese stabili da DNA identici….si formano, si trasformano, si mescolano, si frammentano e si dissolvono con una rapidità incompatibile con i tempi richiesti da processi di selezione genetica”. E tuttavia in molte concezioni correnti dell’identità, abbiamo visto, si insinua una sorta di naturalizzazione o biologizzazione non dichiarate e forse non del tutto consapevoli dei tratti che dovrebbero fondarla, come se appunto non fossero un prodotto storico, mutevole, attinente alla cultura, ma un dato immutabile, di sangue, che si trasmette dell’una all’altra generazione, del quale anzi si apprezzano una pretesa antichità e continuità.

Una più elaborata, nuova biologizzazione della comunità locale e della sua storia si sta però sviluppando di recente, per di più sotto l’autorevole egida della genetica professionale, con le iniziative di patrimonializzazione del DNA. Valeria Trupiano ne ha presentati di recente alcuni casi, anche in territorio italiano, nei quali a popolazioni locali è stata attribuita una omo- geneità e particolarità genetica di vecchia origine; non vi sono ovviamente dubbi sulla possibilità di riconoscere il DNA di membri di una popola- zione, il fatto è che in tali casi i dati quanto all’isolamento della comunità locale, all’endogamia e al suo perdurare immutata nel tempo, non sono prodotti dalla ricerca biologica, ma sono ricavati localmente da rilevazioni di carattere archivistico, comunale o parrocchiale, soprattutto relative alle genealogie quali risultano dai cognomi, e dalla memoria orale, senza il

sufficiente coinvolgimento di storici e antropologi culturali e le connesse cautele critiche. Ne consegue che la lettura dei dati genetici attuali, che go- dono del prestigio della loro indubbia origine scientifica biologica, avviene alla luce di autorappresentazioni e memorie locali nella cui produzione e utilizzo manca l’apporto specialistico delle scienze umane. La conclusione è che la definizione di tale patrimonio genetico e di una connessa “identi- tà” pare dipendere in misura eccessiva dalla negoziazione tra genetisti, da un lato, e politici e notabili locali e la stessa popolazione delle comunità interessate, dall’altro, che probabilmente vi intravedono – aggiungo – la possibilità di attrarre risorse, forse anche turistiche, sul posto, reclamizzato come esemplare per il suo prezioso, omogeneo, “tipico”, antico DNA: si profilano insomma, come si esprime Valeria Trupiano, “comunità geneti- che immaginate” (2008, e comunicazioni personali).

Veniamo ora ad alcune nostre proposte per l’approfondimento e per la progettazione dell’indagine.

2. Partiamo dunque dal presupposto – è forse bene chiarire ancora – che ‘identità’ non è uno strumento di ricerca e di analisi, di spiegazione e scrittura dei risultati d’indagine, non fa parte della ‘cassetta degli attrezzi’ delle scienze socioantropologiche (cfr. Remotti, 2009), ma indica invece un oggetto o meglio una varietà di oggetti di ricerca; e che in quanto tale va presa in esame come un costrutto, il prodotto di una specifica elabora- zione1. Dunque precisiamo ancora che il primo problema non è quello di

rilevare, documentare e analizzare dati storici, culturali o linguistici con- divisi, documentati o pretesi tali, che fonderebbero un’identità, ma quello di indagare e ricostruire la progettualità e la strategia collettive nelle quali l’identità si esprime anche con il ricorso a tali dati, e senza le quali questi stessi rimarrebbero inerti, meno consapevolmente condivisi e sperimentati; una strategia consistente in un’elaborazione e un’azione che si traducono sia in rappresentazione e comunicazione sia in comportamenti2. È parten-

do dall’identità come progettualità che diventa utile analizzarne le varie concezioni e i contenuti in uso a livello politico, amministrativo, mediati-

1 Il problema non si pone ovviamente solo per ‘identità’. Molti altri termini in uso nel lavoro antropologico, nella progettazione della ricerca, produzione dei dati, analisi, sono tratti dal linguaggio comune colto: quando li usiamo come tali e quando invece in modo più o meno puntuale e radicale li rielaboriamo e ridefinia- mo criticamente in base alla nostra e ad altre tradizioni di pensiero scientifico e filosofico ed al patrimonio di dati già consolidato?

2 Non mi interessa qui un punto di vista di psicologia sociale, né il problema dell’identità in quanto percorso e carattere individuale.

co, di opinionisti ecc. Sulla base di questo modello concettuale, infatti, si possono articolare una serie di domande e di ipotesi cui può rispondere una mirata indagine sul terreno.

Un primo punto: questa progettualità non va concepita e indagata come se fosse un’entità di per sé attiva, vanno invece riconosciuti e presi in con- siderazione gli specifici aggregati sociali che la praticano o subiscono. Ciò implica una chiara ricognizione, in termini socioantropologici, economici, demografici, degli attori sociali in gioco in tutta la loro specificità.3 France-

sco Remotti, che preferisce chiamarli soggetti, insiste sul fatto che questi

“si costituiscono nel loro fare e il loro fare consiste sia in azioni sia in

rappresentazioni (tra cui quelle dell’identità)” (2002, pp. 322-323). Essi si costituiscono e manifestano dunque proprio nella loro progettualità/stra- tegia identitaria, ed è appunto qui che si manifesteranno, diffonderanno e attiveranno i valori, le tradizioni, i caratteri storici, socioculturali e socioe- conomici per essa rilevanti e strumentali; tutti elementi che possono anche essere, in più casi, previamente diffusi e rilevabili all’osservazione, privi tuttavia di una loro finalizzazione identitaria. Ma in realtà la costituzione del soggetto non è solo un processo formale: immagini, valori, memorie, insofferenze e preferenze vengono selezionate, aggregate e valorizzate in modo specifico nella costruzione di una precisa strategia identitaria; in altri termini la progettualità non è una semplice operazione di montaggio di elementi ma implica la creazione di un quadro, di una narrazione dai con- tenuti specifici, e, per quanto fantasiosamente e strumentalmente, questa rielabora materiali già documentati in qualche forma scritta o di memoria immateriale o materiale, collettiva o individuale, di tradizione popolare, semicolta o colta.

La specifica struttura e i contenuti di questo quadro e di questa narrazio- ne, la selezione che essi implicano - questo è il nesso importante - trovano uno specifico fondamento negli interessi e motivazioni, nei tratti socioe- conomici, demografici, culturali, dei soggetti o attori sociali che contribu- iscono a configurarli; e in questa prospettiva sono meglio analizzabili. E il contesto in cui si realizzano le strategie, gli atteggiamenti e i comportamen- ti che a tale quadro si informano è a mio parere caratterizzato dall’incontro, confronto, competizione, infine contrapposizione, degli attori o soggetti

3 A. M. Cirese mette in evidenza come nel pensiero filosofico e socioantropologico italiano questo metodo possa essere fatto risalire alle analisi di Antonio Gramsci, il quale mostra “l’abitudine a stabilire un costante rapporto tra i fatti culturali e i gruppi sociali che ne sono portatori” e inoltre “non stende le sue osservazioni se- condo generalissime distinzioni di classe ma le articola operativamente alla scala, per categorie, gruppi e sottogruppi” (1976, p. 102).

che li mettono in atto con un altro o altri gruppi: avremo cioè gli attuato- ri di tale strategia, rappresentazioni, comportamenti, e la controparte o le controparti nel confronto. Parlare di incontro e confronto implica insomma che nell’analisi, oltre all’oggetto iniziale della nostra attenzione, debbano essere presi in esame questi altri attori sociali, con le quali andranno rico- struiti i fenomeni di interazione e di scambio, competizione o conflitto, di comunicazione, di rappresentazione, ma anche di aggressione; d’altro canto tali controparti potranno, nel confronto stesso, elaborare a loro volta rappresentazioni e strategie identitarie, costituirsi come soggetti, a meno che non vi prevalgano scelte di assimilazione o acculturazione. È forse più preciso dire che vanno indagate le modalità e le dinamiche attraverso le quali si costruiscono reciprocamente, si organizzano e trasformano le parti in gioco, i raggruppamenti diversi che si esprimono in concreto, e al tempo stesso la configurazione dei loro interessi. Tra questi interessi, per il soggetto che attua le strategie identitarie, una prima osservazione induce a far rientrare oggi innanzitutto la difesa di fonti di risorse o di privilegi o di welfare, le preoccupazioni per la perdita di beni e protezioni cui si è ormai consolidato l’accesso, e per l’abbandono da parte di decisori e nota- bili influenti, la competizione per la collocazione sul mercato del lavoro, la promozione e tutela di produzioni locali e tradizionali (la cucina “etnica” vietata a Lucca nel gennaio 2009) o di flussi turistici. Un secondo contesto importante – che può combinarsi con il primo - è quello in cui il sogget- to si colloca in rapporto con istituzioni e mercati in un’arena via via più ampia, al limite planetaria, inserendosi nella concorrenza per l’accesso a risorse, diritti, visibilità anche mediatica, rapporti con i creatori e diffusori d’immagine, presenza negli scambi. Anche Ugo Fabietti afferma come le strategie identitarie siano sostanzialmente indirizzate alla rivendicazione dell’accesso a risorse materiali e simboliche (1998, p. 22). Nel caso della rivitalizzazione delle tradizioni popolari ho avuto modo di osservare: “le identità locali…sono assunte per la riconoscibilità di sé e del proprio grup- po e per la negoziazione o la rivendicazione di una propria presenza e di diritti, ma anche di accesso a risorse collettive, come pure per la proposta sul mercato di beni di consumo originali e localmente connotati, di paesag- gi naturali e umanizzati, di percorsi comportamentali e rituali alternativi” (Bravo, 2005, p. 39).

In questa prospettiva l’identità va dunque analizzata come una costru- zione, continuamente in fieri, che si attua attraverso comportamenti e con- nesse rappresentazioni, è configurata, trasmessa, promossa o imposta sia entro il gruppo umano destinato ad esserne il portatore, sia verso quello o quelli con cui esso si confronta. Abbiamo però criticato il presupposto