Intima è l’immagine, dice Maurice Blanchot, “perché essa fa della no- stra intimità una potenza esteriore che noi subiamo passivamente: al di fuori di noi, nel regresso del mondo che essa provoca, trascina, smarrita e brillante, la profondità delle nostre passioni”. Perciò l’immagine “non ha niente a che vedere col significato, col senso, come lo implicano l’esistenza del mondo e lo sforzo della verità, la legge e la chiarezza del giorno. L’im-
magine di un oggetto non soltanto non è il senso di questo oggetto e non
aiuta alla sua comprensione, ma tende a sottrarvelo mantenendolo nell’im- mobilità di una somiglianza che non ha niente a cui somigliare”.
L’esperienza di immagine è dunque esperienza di transito, di un pas- saggio “dalla regione del reale, in cui ci teniamo a distanza dalle cose per meglio disporne, a quest’altra regione in cui la distanza ci tiene”.
Dismissione del senso ovvio e pragmatico, inabissarsi della vertigine delle nostre emozioni e sentimenti: in questo, per Blanchot – e per noi -, è la “passione dell’immagine”, ch’egli chiama fascinazione. Quando tale circuito si rompe, appena questo movimento si interrompe, l’immagine si ammala e ci troviamo nell’impossibilità di provare quel brivido del “limi- te”, quel sentimento della “soglia” a cui l’immagine, penetrata nel punto più profondo della nostra interiorità, sa condurci.
Il limite, la soglia: parole che ci dicono di un accostarsi alla morte e ci indicano un luogo dell’anima, un filo di frontiera che non solo separa la vita dalla morte, ma mostra il punto in cui tra vita e morte può darsi uno scambio, un reciproco passaggio. In quel punto si situa l’immagine che, come il Cavaliere di Bergman, gioca sempre la sua partita con la morte. L’immagine si ammala quando non le consentiamo più di giocare quella partita – e oggi, che abbiamo sottoposto la parola stessa, “morte”, a forte rimozione nel tentativo, inutile quanto devastante, di cancellare l’evento, sentito inconciliabile con la cultura, la società, la nostra psiche, anche la visione di Bergman ci sembra perdere forza, come se la metafora deperisse in esposizione di una astratta figuratività, incapace, se non di produrre, di evocare almeno un tremore.
E tuttavia l’immagine non finisce di trasportarci nel limite, nella so- glia, appena riusciamo a sorprendere la nostra passione; appena le lascia- mo aperto il varco per nascondersi nelle pieghe della nostra più oscura intimità.
Horacio Quiroga ha colto lo stato e il movimento dell’immagine che ci sposta sul filo della frontiera e li ha descritti. È un racconto. Ma illustra bene uno dei punti cardini di Morin sul cinema e su un meccanismo – l’identificazione e la proiezione – che fa del cinema lo spazio in cui si ela- bora tanto una drammaturgia dell’interiorità dello spettatore quanto quello dove nascono gli Dei: e perciò spazio del mito di passaggio non dalla vita alla morte ma dalla morte alla vita. Ascoltiamo, dunque, Quiroga.
Enid e Grant, tutte le notti, al Gran Splendid di Santa Fé, assistono alle prime cinematografiche. Lì, racconta Grant, “da un palco all’altro, segui- vamo le vicende del film con un mutismo ed un interesse tali che certa- mente avrebbero richiamato l’attenzione su di noi, se le circostanze in cui eravamo fossero state diverse”. E la “circostanza” è che Enid e Grant sono morti.
Enid è stata, in vita, la moglie di un grande attore cinematografico, Dun- can Wyoming, che era il miglior amico di Grant. Quando questi incontrò Enid subì immediatamente quel fascino, provò quella passione che è “la capacità di occupare tutti i sentimenti di un uomo”. Ma non tradì e non si tradì mai con Duncan “né in una parola, né in un gesto, né in un movimen- to. Solo lei, per quanto tranquilla, leggeva nel mio sguardo quanto profon- damente la desiderassi”.
Poi Duncan morì, “nel fiore dell’età, proprio nel momento in cui stava per finire di girare due pellicole straordinarie, secondo le informazioni del- la casa: Il deserto e Oltre ciò che si vede. Mentre stava per morire, con voce incerta, facendo abbassare fino al suo capezzale Enid e Grant, rivolto alla moglie dice: “Affidati a Grant, Enid… Finché avrai lui, non avrai nulla da temere”. E a Grant: “E tu, vecchio mio, veglia su di lei. Sii suo fratello…” Così il morente ha vincolato a sé la moglie e l’amico con la più feroce delle condanne: Sii suo fratello.
Grant vorrebbe sottrarsi al sacrificio che gli viene richiesto: dover ri- nunciare alla vita, dal momento che Enid è, per lui, la vita, l’avvenire, “il mio respiro e la mia ansia di vivere”. Però Enid, pur amandolo con tutta l’anima, considera un “delitto” infrangere quel mandato di fedeltà che le è stato imposto. Così, per Grant, lo sguardo di Enid diventa “la vita stessa e presto nel velluto umido dei suoi occhi e nei miei non ci fu altro che la gioia convulsa di adorarci. E nient’altro!”
Una sera vanno al Metropole dove si proietta Il deserto. Sullo schermo, ricorda Grant, “vedemmo apparire, enorme e con il volto più bianco che in punto di morte, Duncan Wyoming. Sentii tremare sotto la mia mano il braccio di Enid”. E’, per entrambi, uno choc. Quell’immagine era Duncan: suoi quei gesti, quel sorriso fiducioso sulle labbra, quell’energica figura… Il silenzio avvolge Enid e Grant, ma quando tornano a casa, lei piange, si rifugia nelle sue braccia, gli si dona.
E’, questo, un punto importante nella vicenda.
Dopo aver rivisto Duncan in questo strano meccanismo che è il cinema dove, come diceva Valéry, i morti tornano a vivere e sorridono; dopo aver sentito la forza di quell’immagine viva sulla sua pelle e averne provato il brivido, Enid perde Duncan insieme con l’obbligazione morale a cui la legava il ricordo e, letteralmente, si scioglie. Al contrario di Grant, il quale, nell’accogliere l’amore di Enid, dice: “Sì… Così dimenticheremo” – frase che ci inclina a credere che doloroso sia ancora per lui il lavorio, il trava- glio del ricordo, forte la difficoltà di staccarsene.
Momento importante, dicevo. È infatti qui, in questo punto, che accade qualcosa di decisivo che mette in posizione disimmetrica i due amanti, e produce nel loro amore una frattura, una distorsione, di cui i personaggi non si renderanno mai conto. Al centro di questo sommovimento è l’im- magine di Duncan che, appena apparsa sullo schermo, produce effetti di- versi, persino opposti, in Enid e in Grant: infatti se, da una parte, “libera”, “scioglie” il nodo che legava la donna; dall’altra, definitivamente incatena a sé l’uomo.
Enid non ha mai amato Duncan; è innamorata di Grant. Certo, quando il marito è morto, ne ha interiorizzato l’immagine da cui si è lasciata domi- nare. Ma è immagine, in lei, che non ha depositi né muove amore, e perciò immagine fredda del dovere (tu mi sarai fedele), della norma (tu non mi tradirai con chi deve esserti fratello); immagine dolorosa che imprigiona il desiderio e il sentimento – e quindi, per dirla con la nostra metafora, immagine malata.
Si può persino dire che Enid viva in Duncan, nella sua immagine fissata nella regione ostile della propria interiorità, il conflitto che nasce “tra il desiderio che vuole infrangere la norma”, l’amore appunto per Grant, “e la norma che tende a inibire il desiderio”, obbligo alla fedeltà a cui la vincola Duncan; quel conflitto a cui è stato dato il nome di “nevrosi”. Ma, appena tornato vivo sullo schermo, Duncan “libera”, “scioglie” Enid, in quanto la vita che irrompe improvvisa sullo schermo, per così dire, oggettivizza l’immagine, che si dispone ora nella distanza in cui guardiamo le cose e le persone reali, nella distanza in cui finisce d’essere “immagine”. Come dire
che, restituito all’esistenza, l’ombra del morto si dissolve. Ma non così per Grant.
La sera successiva i due amanti tornano al cinema per rivedere Il deser-
to, il cui soggetto – veniamo a saperlo adesso – è questo: “Un dramma di
brutale energia… La situazione centrale era costituita da una scena in cui Wyoming, ferito nella lotta con un uomo, riceveva bruscamente la rivela- zione dell’amore di sua moglie per quest’uomo, che egli aveva ucciso per motivi indipendenti da quell’amore. Wyoming si legava un fazzoletto alla fronte e, adagiato sul divano, ancora ansimante dalla fatica, assisteva alla disperazione di sua moglie sul cadavere dell’amante”.
Naturalmente c’è in Grant qualcosa dell’uomo ucciso da Duncan. Ma ciò che in maniera angosciosa preme in Grant è “la rivelazione del crollo, la desolazione e l’odio” che con violenta chiarezza appaiono negli occhi di Duncan. Sono queste le cose che Grant aveva voluto evitare, risparmian- do all’amico l’atroce dolore che ora sta vivendo non solo nella finzione del film, ma forse anche nella realtà della sala, dove è tornato a vivere e
vede il tradimento, l’amore che unisce la moglie e l’amico. Perciò questa
immagine assume la forma di “un’accusa allucinante” a cui Grant cerca di sfuggire controllando che “gli occhi di Wyoming” fossero “rivolti da un’altra parte”.
Comincia così il gioco sfibrante attraverso il quale Grant isola, insegue, scruta la direzione dello sguardo di Duncan fino a quando “una sera notai, lo sentii alla radice dei capelli, che gli occhi si stavano rivolgendo a noi!”.
Grant non ignora che ci sono leggi, “principi fisici che ci insegnano che fredda magia sia quella degli spettri cinematografici che danzano sullo schermo, simulando fin nei minimi dettagli una vita che si è perduta”; non ignora che “questa allucinazione in bianco e nero è solo la gelida persisten- za di un istante”, e che è impossibile “percepire il più lieve cambiamento nella livida traccia di un film”. E tuttavia, “a dispetto delle leggi e dei prin- cipi”, egli ha la certezza che Duncan li stava vedendo.
La finzione si muta in percezione, in sentimento di realtà: ora “la sce- na filmata viveva ardentemente, ma non sullo schermo, bensì in un palco, dove il nostro amore senza colpa si trasformava in una mostruosa infedeltà di fronte al marito vivo”, il quale ne riceveva “brutale rivelazione”: “La tenera moglie e l’amico intimo nella sala dello spettacolo, che con le teste vicine se la ridevano della fiducia riposta in loro…”
Il “dramma spettrale” aumenta di intensità. Grant ha la certezza che gli occhi vivi di Duncan si fissano davvero su di lui ed Enid; con terrore vede Duncan, uscito dalla sua parte, che lo obbliga a stare immobile sul divano, si alza, avanza verso di loro dal fondo della scena e “arriva al mostruoso
primo piano…” In questo momento di esasperata tensione, un “bagliore abbacinante” li acceca mentre Enid lancia un urlo che su loro richiama l’attenzione della sala. “La pellicola si era bruciata”.
L’indomani tornano a vedere lo stesso film; Grant ha una pistola in tasca e appena si spengono le luci, le sue dita contratte non abbandonano un solo istante il grilletto. “Come la sera precedente, nessuno notava sullo schermo qualcosa di anormale”. Ma, racconta Grant, io vidi Duncan “venire avanti, crescere, arrivare al margine dello schermo senza distogliere lo sguardo dal mio. Lo vidi staccarsi, venire verso di noi nel fascio di luce; venire nell’aria sulle teste della platea e, sollevandosi, arrivare fino a noi con la testa fa- sciata. Lo vidi allungare gli artigli delle sue dita… al momento stesso in cui Enid lanciava un urlo orribile, di quelli che con una corda vocale hanno fatto a pezzi la ragione intera – e feci fuoco”.
Partito il colpo, nello stesso istante, egli si vede “con il corpo che pen- deva fuori dal parapetto – morto”. Anche ora, assicura, ne ha un ricordo preciso: “Io ero quello che aveva ricevuto la pallottola alla tempia. Sono del tutto sicuro che volli dirigere l’arma contro Duncan. Solo che, credendo di puntarla sull’assassino, in realtà la puntai contro me stesso. Fu un errore, un semplice equivoco, nient’altro; ma mi costò la vita”.
Noi sappiamo che la cosa si può, si deve raccontare in un altro modo; sappiamo che il colpo non deviò obiettivo per errore, anche se deviò per un “equivoco”, perché proprio di suicidio si è trattato.
Grant, allo stesso modo di Enid, ha interiorizzato Duncan come immagi-
ne del divieto. Ma il percorso che Grant ha seguito è stato diverso, per certi
versi opposto, a quello di Enid.
Egli ama il suo amico, si è innamorato della moglie e però non vuole tradirlo. Mette perciò un freno al desiderio; ma, appena Duncan muore, il desiderio ha il sopravvento sul divieto che viene mantenuto solo perché Enid pone un argine e lo blocca. Così le corde del suo cuore, egli dice, si tesero fino a sanguinare.
Una pulsione tanto forte non si arresta senza conseguenze: è come un fiume che se trova sbarrato il suo letto defluisce altrove, deviando ma non interrompendo la corsa. Quel blocco, quell’arresto che l’angosciata fer- mezza di Enid gli impone, radicherà in lui un profondo, quanto ancora inconsapevole, senso di colpa nei riguardi di Duncan.
Contrariamente a Enid, infatti, egli fa tacere il conflitto tra desiderio e norma che si era manifestato in modo aperto, sublimando l’amore per la donna: “non ci fu altro che la gioia convulsa di adorarci”. In questo stato, l’amore ha la lievità e la trasparenza di un sentimento puro: quel sentire
notte in cui Enid, finalmente sciolta dal vincolo di fedeltà al marito rivisto vivo, gli si concede. A quel punto, in Grant, il fiume tracima, il senso di colpa esplode – ed è l’immagine di Duncan, come Grant la vive in sé, che l’assume, lo contiene, lo mette, alla lettera, in rappresentazione: sullo e attraverso lo schermo.
È un processo, per così dire, di traslazione e di conversione, quel che ora si attiva: perché Grant, da una parte, sposta su Duncan, sull’immagine che nel film appare reale, la dolorosa violenza che gli produce il suo insosteni- bile senso di colpa per aver violato il divieto, tradito l’amico; e, dall’altra, Duncan, così investito dai poderosi contenuti emotivi di Grant, diventa lo stesso Grant. Inevitabile che, nel momento in cui Grant mira alla tempia di Duncan, colpisca la propria. E nel dire come è accaduto, egli dice bene: “un semplice equivoco” – della psiche, s’intende.
Non si tratta, dunque, di una forma di travestitismo psichico, ma di uno scambio, di una permuta simile a quella che il cinema attiva tra lo spetta- tore e il personaggio del film. Una condizione che Cesare Musatti ha così descritto: lo spettatore è sempre portato, quando vede un film, a identificar- si con qualche personaggio. Attraverso questa identificazione “non soltanto lo spettatore assorbe in sé atteggiamenti e sentimenti dei personaggi del film, ma anche arricchisce quei personaggi dei propri elementi psicologici, e presta loro sentimenti e reazioni emotive che sono soltanto suoi. Cosic- ché si stabilisce una sorta di commercio o scambio di elementi psichici fra i personaggi e lo spettatore. Il meccanismo con cui lo spettatore conferisce ai personaggi pensieri, desideri, intenzioni, atteggiamenti che sono soltanto suoi personali, e per cui poi s’illude di cogliere negli stessi personaggi, come elementi obiettivamente dati, questi suoi elementi personali, è detto meccanismo della proiezione psicologica”.
Ho il forte sospetto che Quiroga abbia costruito e articolato il suo rac- conto proprio su questi meccanismi psicologici che il cinema attiva, su meccanismi che hanno bisogno della tecnica cinematografica per esprimer- si; e che così ci mostri, dell’immagine, un nuovo aspetto, una nuova fun- zione, rispetto ai mezzi artistici della tradizione, che estende i suoi effetti anche oltre la durata della visione del film.
Sappiamo, adesso, che la fascinazione dell’immagine di Duncan che Grant subisce, è fascinazione dell’immagine di Sé, di Grant, ch’egli pro- fondamente patisce, dal momento che qualsiasi immagine di un film su cui facciamo convergere la nostra “identificazione” e la nostra “proiezio- ne” – le monete dello scambio, della permuta tra persona e personaggio – nient’altro è che il palcoscenico improvvisato per l’irresistibile recita dell’Io dello spettatore.
È attraverso l’assunzione dell’immagine dell’Altro che l’Io – al cinema e mosso dai meccanismi del film – svela e vive, drammatizza, al riparo da occhi indiscreti e da imbarazzanti esposizioni, la propria immagine nasco- sta, che è quasi sempre immagine di una “malattia” o di un disagio che la psiche non ama riconoscere.
Intima è davvero l’immagine – e rischiosa.
Accade così qualcosa che sembra apparentarsi al sogno, per le molte dinamiche che questo condivide con il film. Con una cautela, direbbe Valé- ry: il cinema è un sogno meccanico. Ma vale davvero, ancora oggi, questa cautela, questa precisazione? Non possiamo più ignorare che la tecnologia, che si fa struttura e tessuto dell’arte, attraversa e abita non solo l’imma- ginario e il pensiero dello spettatore, ma agisce anche nella sua psiche la quale, letteralmente, vi reagisce, pronta a rimodulare l’espressione dei pro- pri stati.
L’immagine, dunque, trascina Grant oltre il limite, oltre la soglia: lo guida verso il suicidio. Tre anni dopo, anche Enid muore. Da allora, ogni sera, tutte le sere, insieme vanno al cinema. Ed è ancora qui, nel flusso delle immagini, che, dall’altra parte, ci si mostra l’esperienza del limite, l’accostarsi alla soglia.
Continuano a vedere lo stesso film, e attendono sempre che Duncan fac- cia il minimo movimento per uscire fuori dallo schermo, perché quel movi- mento avrà il potere di sollevare “il velo che separa la vita dalla morte”, il potere di aprire un varco dove possono penetrare e trovarsi nella strada che li può portare dalla morte alla vita. Vedono che “fra il Nulla che ha dissolto quello che era Wyoming e la sua resurrezione elettrica resta uno spazio vuoto”. E attendono che il movimento, lo scatto, di Duncan si compia per scivolare “come in una fessura nel tenebroso corridoio” attraverso il quale si entra di nuovo nella Vita.
Lo spazio vuoto; il velo che, scostandosi, lo mostra; la fessura dentro cui incunearsi per iniziare il viaggio: che cosa sono se non i tratti che danno configurazione alla “soglia”? A questa Enid e Grant si accostano. La guar- dano dalla parte della morte e provano la stessa ansia dell’attesa e del viag- gio che proviamo noi che ci troviamo dalla parte della vita; comune anche la sensazione di un “ritorno”. Perciò l’immagine ci lascia sempre percepire il gioco che intreccia vita e morte, e ci inclina a una struggente nostalgia – parola che in sé contiene appunto l’idea, l’attesa del ritorno.
Lo dice uno scrittore, Milan Kundera, che ne ha trovato prova nell’eti- mologia delle lingue del mondo a conferma dell’universalità di una di- sposizione dell’anima e di un doloroso sentire: “In greco ‘ritorno’ si dice
provata dal desiderio inappagato di ritornare”; ma è anche la sofferenza per l’ignoranza di un ritorno che non ha complemento e forse neppure destina- zione; e perciò ritorno in un luogo privo di sapere, proprio com’è l’”oltre” che l’immagine evoca e che ci attrae, ci seduce, ci inquieta.
Quando l’immagine penetra nella nostra più profonda e oscura intimità e vi sostituisce il mondo, l’Io diventa il luogo dove si producono e si svi- luppano le aberrazioni dell’immagine. Il racconto di Quiroga ce lo ha detto,