1. Linguaggi e complessità tra culturologia e teorie del cinema
La complessità è il luogo del linguaggio, e in particolare del linguaggio in azione – che sia verbale-discorsivo oppure variamente modulato con differenti media, a cominciare da quello audiovisivo. La complessità è la condizione per la quale il linguaggio si rende necessario, inevitabile, sia per produrre espressione sia per ridurre (senza annullare) il fraintendimen- to. Credo che da una consapevolezza del fraintendimento si possa far stra- da una comprensione non occasionale, resistente alle circostanze, un po’ come accade per l’umorismo, il quale, sosteneva Luigi Pirandello, nasce dal sentimento del contrario, dalla percezione simultanea di sensi alternati- vi (e dunque da un primo abbozzo di complessità). Prima di tutto, dunque, occorre riconoscere lo statuto paradossale del linguaggio che ha bisogno di spendere non poca energia per dimostrare che esiste e che funziona, prima di occuparsi dei contenuti da trasmettere, e poi da far capire, ottenendo se è il caso una risposta.
Tutto ciò avviene all’interno di una speciale forma organizzativa dell’e- sistente, quella che Jurij M. Lotman ha chiamato ‘semiosfera’ e sulla quale anch’io più volte sono tornato (ad esempio nel volume Colpi di testo. Di-
namiche dell’immaginario narrativo, Ets, Pisa 2004, cap. V). Vorrei quin-
di proporre, prima di tutto, qualche spunto di riflessione partendo da due termini che mostrano, almeno immediatamente, una certa familiarità tra di loro: semiosfera e iconosfera. I termini appaiono, sulla carta, non cer- tamente anacronistici: in tempi di globalizzazione, di culture convergenti, di multimedialità e transmedialità, potrebbero avere un certo successo due idee che appoggiano sul concetto di interdipendenza, un’interdipendenza tuttavia più inevitabile che volontariamente ricercata, una planetarizzazio- ne dell’informazione (non ancora della conoscenza e chissà quando mai della disponibilità delle risorse) che sembra trovare nelle nostre regioni del
sapere un certo diritto di rappresentanza. Ma forse è anche su questo diritto o capacità che ci dovremmo interrogare.
‘Semiosfera’ è presentato da Jurij M. Lotman nella rivista dei lavori del gruppo culturologico-semiotico di Tartu nel 1984. ‘Iconosfera’ sta in apertura di Problèmes du cinema et de l’information visuelle, di Gilbert Cohen-Séat, 1961 e potrebbe combinarsi al concetto di ‘atmosfera’ di cui lo studioso tratta più avanti in quello stesso volume (p. 26). I due autori collocano tuttavia in distinti orizzonti di riferimento i due termini. Lotman – che non cita Cohen-Séat - riconduce l’idea di semiosfera a un ampliamento del concetto di biosfera di Vernadskij, 1934, rimarcando che omogeneità e individualità sono i criteri di base che la governano. La semiosfera rappresenta dunque un continuum semiotico coerente, pie- no informazioni di vario tipo, che va circoscritto e distinto dalle aree circostanti. Ne deriva che il concetto di confine è quello basilare: confi- ne ovviamente non fisico ma determinato dall’esistenza di un sistema di descrizione. Il confine della semiosfera non è dunque fisico-geografico ma dipende dalla preesistenza di filtri di traduzione che permettono di superare i limiti della semiosfera di partenza per portarsi in semiosfere limitrofe o alternative.
Anche Cohen-Séat, per parlare di iconosfera, parte dalla biosfera: “Le cinéma introduit une coupure entre la chose et son contexte traditionnel de représentation , en la déracinant de la biosphère et en opérant sa transplan- tation, dans un milieu nouveau. Ce milieu, constitutif de l’univers filmique,
iconosphère, constitue bel et bien une mutation de toutes les conditions
de présentation et de réception de l’information” (p. 23). Potremmo dun-Potremmo dun- que affermare che l’iconosfera costituisce per Cohen-Séat una particolare semiosfera i cui caratteri costitutivi sono di tipo (anche) visivo.
Per garantire il passaggio del materiale informativo da un campo espres- sivo ad un altro è necessario porre in essere processi di traduzione. La traduzione, tra lingue o linguaggi, è dunque il passaporto simbolico che permette sia a materiale esterno alla semiosfera di essere trasformato e do- tato di senso e quindi incluso in essa, sia a materiale interno alla semiosfera di diventare accessibile, venendo esportato in altre sfere e in differenti spa- zi culturali (ad esempio, dalla letteratura o dall’arte visiva al cinema, dal cinema alle produzioni multimediali ecc.). Altrettanto dobbiamo dire della compresenza di più mezzi espressivi, sonori, musicali, gestuali ecc. o del concorso di più media. Sempre è in azione, anche se Lotman non lo pre- vedeva, il meccanismo della semiosfera: qualcosa che anche Cohen-Séat presenta, come la dilatazione, avvenuta grazie al cinema, del “contesto im- mediato degli individui nelle dimensioni del mondo” (p. 27).
La non-traduzione invece, l’azione divisoria del confine corrisponde- rebbe, secondo Lotman, al funzionamento dell’autocoscienza che ovvia- mente pone l’accento sulle proprie specificità, sulla consapevolezza e autonomia di ogni linguaggio e di ogni individuo. La semiosfera non at- tribuisce tuttavia alcuna priorità al singolo organismo o a un singolo dato informativo (suono, immagine, gesto ecc.) ma all’insieme strutturato che deriva dall’interazione dei testi e dei discorsi. Omogeneità e individualità non sono criteri difficili da sostenere in una fase storica – gli anni Sessan- ta-Ottanta del Novecento - in cui è il testo ad avere la centralità e dove viene definito semiotico, cioè dotato di senso intersoggettivo, qualsiasi dato possa venir sottoposto a descrizione linguistica, cioè rappresentato mediante un discorso.
La strutturazione del senso nella semiosfera – e di conseguenza anche nell’iconosfera in quanto in essa correlata o contenuta (a seconda dei casi) -ha di conseguenza il carattere della complessità perché deve continuamen- te gestire esportazione dei propri contenuti e valori ma anche importazioni di contenuti e valori, perseguendo su due versanti compatibilità o incom- patibilità, inclusione o espulsione. Sotto questo aspetto, dopo il concetto di “traduzione” interviene quello di stabilità (o instabilità) o se preferiamo di “adattamento”.
In sintesi, se la semiosfera rappresenta un territorio semiotico-informa- tivo, l’iconosfera costituisce invece il versante di una rappresentazione (quella cinematografica, audiovisiva) di ciò che è contenuto nella semio- sfera; infine si aggiunge ancora il concetto di atmosfera, la quale, suggeri- sce Cohen-Séat, è la condizione spirituale-psicologica tipica dell’ “aspetto nuovo di questo universo in cui viviamo, infinitamente più concreto e più opaco” (p. 26). Complessivamente si va da frontiere potenzialmente illi- mitate, , quelle della semiosfera, a frontiere più specifiche, quelle dell’ico- nosfera in cui, grazie al cinema e ai mezzi di informazione, si rimette in questione la pura e semplice percezione, sino all’atmosfera, nozione che accoglie l’inquietudine dell’osservatore dovuta alla necessità di integrare dati e fenomeni continuamente nuovi, i cui accordi con la realtà fenomeni- ca non risultano troppo semplici da cogliere.
Il problema della discontinuità tra mondo della percezione e mondo della rappresentazione era noto da tempo alle teorie cinematografiche e insorge con nuova evidenza con le riflessioni sul sonoro. Importanti le notazioni, ad esempio, che introduce Jean A. Keim nel suo volume Un nouvel art. Le
cinéma sonore, opera scritta in un campo di prigionia durante la seconda
guerra mondiale e quindi necessariamente rimasta “aggiornata” al 1939: notazioni soprattutto riferite al ruolo dello spettatore, ossia, diremmo alle
capacità richieste di cogliere il complesso delle “discontinuità” che il film offre nei suoi cambiamenti di piano. Keim parla di un “piacere” che “ap- pare raramente allo stato puro, senza essere accompagnato da impressioni estranee”, tanto da dar vita a una “jouissance sensorielle” fornita “congiun- tamente dalle sensazioni visive e da quelle uditive senza predominanza delle une sulle altre” (p. 106).
È dunque lo spettatore che compie quell’andirivieni tra livello della semiosfera – la complessità dei dati noti del mondo – e livello della ico- nosfera – quello delle rappresentazioni, dove all’immagine delle “arti in riposo” (Keim) si sostituisce l’immagine sonora del cinema e dove le nuo- ve connessioni tra visivo ed acustico determinano nuove concezioni del movimento.
Quando appunto si affaccia il problema della rappresentazione dei con- tenuti e dei valori, si presentano sia il problema dell’enunciazione - chi par- la rivolto a chi - e il problema della distanza: quale ottica utilizzare e quali conseguenze – nella comprensione - mettere in conto. Ad esempio, nella televisione, diceva Mc Luhan, caratteristico è il primo piano che rappre- senta coinvolgimento, e immedesimazione dello spettatore e che obbliga l’enunciatore ad essere sempre presente sulla scena.
2. Frontiere, confini e il “sociale” che non c’è. Media che ci accompa-
gnano, media che ci aspettano
“La mia patria è ovunque”: dietro questo motto apparentemente illumi-
nato si nasconde un’angoscia o meglio una riflessione obbligatoria gene- rata in alcuni forse più dalla necessità che dalla convinzione. Ma il motto nasconde archetipi, pensieri resistenti: il primo che può venire alla mente è quello delle fotografie delle persone conservate nel portafogli oppure la vecchia rubrica telefonica cartacea che un tempo ci accompagnava. Con- tatti generati dagli affetti, e dunque richiamati dalla sfera iconica, e altri dovuti anche a bisogni, a necessità, registrati invece sotto forma di indice e pronti all’uso come una rete numerica potenziale. A ben vedere sono in gioco due distinti versanti simbolici: da una parte i nostri cari coi quali ci relazioniamo (nella sfera di una qualche affettività), dall’altra parte nomi e numeri, i contatti telefonici che ci seguono disponibili (nella sfera della loro potenzialità informativa).
In apertura del convegno semiotico di Ostuni (l’intervento è stato pub- blicato nel volume Incontri di culture. La semiotica tra frontiere e tradu-
ci aspetta. La frontiera, invece, è mobile. Rifacendoci a Emile Benveniste, potremmo dire che il primo è dell’ordine semiotico, codificato, la seconda dell’ordine semantico, è il frutto di un processo discorsivo, investe nuove enunciazioni, nuove formazioni di senso. Il confine…è frutto di un accor- do, di un patto sociale…, la frontiera necessita invece di operazioni menta- li… Il confine contrassegna lo ‘spazio geometrico’, la frontiera lo ‘spazio antropologico’, per rifarsi alla tipologia di Merleau-Ponty”.
Sulla base di queste considerazioni, ritengo che si possa disegnare una tipologia dei media e del loro potenziale sociale, a seconda che essi si trovi- no fissi, a disposizione quando li raggiungiamo o al contrario mobili, stru- menti e ombre del nostro muoverci del mondo. Ne derivano due distinte modalità di rappresentazione sociale – e trascuriamo il fatto che nelle due categorie vi siano media o loro funzioni che consentono la fruizione dei medesimi dati o delle medesime funzioni. Nei media fissi ci attendiamo un più alto grado di ufficialità, di valore istituzionale. Ma questi hanno anche una fruizione domestica, e dunque si prestano all’intimità: una intimità ri- servata od occulta, praticabile in Internet oppure paradossalmente condivi- sa come quella che passa in televisione.
Nei media mobili, invece, la prossimità non è fonte sempre positiva: essi giocano nel campo della mitigazione dell’ansia, producono delle for- me succedanee di ‘io-tu’ attraverso tipi di enunciazione discorsiva che non potrebbero verificarsi altrimenti: l’uso del telefonino genera una incessante produzione di una realtà parallela alternativa o in conflitto con quella che si sta vivendo, sicché anche le semplici categorie dello spazio-tempo ven- gono negate in favore di un’idea di prossimità assoluta e di enfasi della diretta, in virtù delle quali persino lo stesso scrivere, lo stesso inviarsi un SMS non ha alcun senso se il messaggio verrà letto più avanti.
L’accadimento dev’essere istantaneo: non ci può più essere distanza temporale tra il messaggio emesso e la sua ricezione e risposta, tutto deve avvenire nella assoluta simultaneità. Di conseguenza l’esperienza – e qual- siasi valutazione della replica da effettuare - viene cancellata, fusa nell’atto della pseudo-comunicazione, delegata alla sua rappresentazione: l’espe- rienza sganciata dai media diventa inesistente o inutile o inefficace.
Eppure in questa “terra desolata”, in queste modalità esasperate man- teniamo un bisogno – forse anche maggiore – di socialità ma di una so- cialità che viene intesa come moltiplicazione di accessi, proliferazione di reazioni, non adesione critica e controllata. I social network hanno così usurpato la parola ‘sociale’ e i media che ci attendono – come una persona amata o uno spazio personale – si fondono con i media che ci accompagnano: questi ultimi ombre, duplicazioni, insieme dispensatori
e terapisti dell’ansia, produttori di conferme, menti a noi estranee, stru- menti che pretendono non di servirci ma di abitare i nostri corpi, clonare i nostri bisogni.
Frontiere e confini: se nella dimensione delle frontiere siamo ancora aperti a negoziazioni, ad accessi ad altri mondi – come avviene nei film e nel cinema – nella dimensione dei secondi, i confini, percepiamo inevi- tabilmente una metafisica debole, un pragmatismo radicale che finisce per confondere percezione e rappresentazione, dove prevale l’immersione, il senso e la gioia del perdersi . La nostra percezione di soggetti nel mondo può venir delegata – ma meno che mai sostituita – in favore dei mezzi di ripresa audiovisiva, sottratti a qualsiasi controllo di qualità, capacità con- sapevole, valutazione dei risultati raggiunti.
3. Totalità, raggruppamenti, individui. La complessità del far vedere e il
rapporto tra macchina e intimità
Diventa determinante, nella dimensione audiovisiva, saper distinguere tra le totalità, i raggruppamenti e gli individui, saper lavorare su distinte identità: di campo, di aggregazione, di singolarità, proprio come quando si opera nella ripresa cinematografica attraverso la modulazione dei piani, con soggetti indistinti, di massa o in dialogo tra di loro o isolati.
Prendiamo un paio di esempi dallo spiccato valore simbolico che mo- strano i diversi gradi di complessità del vedere e del far vedere. Il primo è ricavato da Terre des hommes di A. de Saint-Exupéry (Gallimard 1939, pp.7-8). L’autore sta effettuando uno dei suoi voli postali notturni (il più noto è quello sulla rotta Tolosa-Malaga-Casablanca-Dakar e poi la traver- sata atlantica Fernando de Noronha, Brasile sino a Montevideo e a Buenos Aires)e così annota: “J’ai toujours, devant les yeux, l’image de ma pre- mière nuit de vol en Argentine, une nuit sombre où scintillaient seules, comme des étoiles, les rares lumieres éparses dans la plaine. Chacune sign-Chacune sign- alait, dans cet océan de ténèbres, le miracle d’une conscience… Parmi ces étoiles vivantes, combien de fenêtres fermées, combien d’étoiles éteintes, combien d’hommes endormis…”. Un poeta aviatore è il migliore protago-Un poeta aviatore è il migliore protago- nista di una iniziazione, poiché resta tra l’intelligibile e il corporeo, e la sua macchina, l’aereo si trasforma in macchina cinematografica. Qui la com- plessità espressiva mescola i ruoli tanto che possiamo ritenere non soltanto che Saint-Exu scriva mentre sta pilotando ma che noi insieme a lui stiamo osservando la scena su uno schermo.
Il livello della semiosfera, quello dei dati culturali, si intreccia con il livello dell’iconosfera, i dati presenti alla coscienza grazie a una particola- re sfera sensibile, e a quelli dell’atmosfera che competono al raccordo tra emozioni percepite, rappresentate ed evocate.
L’altro esempio è di un altro importante autore del Novecento – storico delle idee, oltre che politico e primo presidente del Consiglio d’Europa, Denis de Rougemont. Anche in questo caso, la grande scuola della sen- sibilità francese, che sa mescolare l’intimità con l’oggettività (forse l’ac- costamento è alle fotografie di Robert Doisneau più che a quelle di Henri Cartier-Bresson) si esprime nelle pagine indimenticabili del diario di uno scrittore. De Rougemont, insieme alla moglie, passa nel 1933 un esilio volontario nella piccola Ile de Ré, vivendo mesi di grande semplicità e nel suo Journal d’un intellectuel en chomage (1937), così sintetizza il rapporto tra macchina e spirito in una mirabile rappresentazione del metrò, che in quei momenti doveva apparirgli davvero remoto: “Il metrò, considerato nella sua realtà sentimentale, sensuale, e sensibile (o sensoriale, finché ci si trova dentro), è l’espressione architettonica e meccanica di uno stato febbrile. È una fantasticheria sotterranea di bagliori e volti sovrapposti nei vetri sfuggenti, è un ritmico fracasso che raggiunge talvolta l’asintoto di un silenzio morto – l’assenza di musica che si ha quando il silenzio è stato ucciso, assenza che si confonde con la presenza di un rumore universale… Immagino un metrò silenzioso, più rapido, ma procedendo a repentini scat- ti da una zona luminosa all’altra, oscuro al suo interno, affollato e volgare, con iloti di lusso rivoltanti, musiche effemminate e raffinate, dei lampi su scene criminali, abissi verdastri… Un metrò che sarebbe semplicemente l’inconscio dei cittadini” (pp. 214-15).
È così che si fa strada quell’idea, espressa tanto lucidamente vent’anni dopo da Edgar Morin in Le star: “E’ la vita squallida e anonima, fatta di mi- serie e di necessità, che vorrebbe uscire dalle sue ristrettezze e assumere le dimensioni di quella cinematografica. La vita immaginaria dello schermo è il prodotto di questo bisogno reale”, in quanto il cinema, osserva ancora Morin “rimette in movimento i vecchi processi immaginari di identifica- zione e di proiezione dai quali nascono gli déi” (p. 115).
Dèi probabilmente detronizzati, in quanto nati in un metrò, in una sala cinematografica, entro lo schermo di un new media - a cui potremmo ri- dare una qualche dignità soltanto se ci spostassimo nel dietro-le-quinte, se salissimo sull’aereo di Saint-Exu (passando ovviamente per Casablanca) e imparassimo ad ammirare le tecniche, cioè a starne consapevolmente lon- tani, non soltanto a padroneggiarle ansiosamente.
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