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CAPITOLO 2: TRA REALE E IMMAGINARIO: LE SFUMATURE DEL

2.1. La più lunga pubblicazione: la travagliata vicenda dei Canti orfici . 113

2.2.1. La città notturna: i «cieli plumbei» con qualche lontana stella

notturno presentate da Campana sono volte prevalentemente a creare sensazioni di angoscia, smarrimento e solitudine, spesso connesse all’immagine di una città

infernale, degradata51, dove l’io poetico percepisce la propria inadeguatezza, il vivere

in un contesto misterioso e malfamato espressione forse dei tormenti interiori che lo attanagliano. Si tratta di una rappresentazione che avrà particolare successo anche nei componimenti sbarbariani, nei quali il poeta, presentando una Genova notturna, creerà dei quadri che divengono espressione delle angosce del soggetto, spesso colto nel suo camminare isolato per le vie notturne. Si noti che in Campana la città notturna spesso diviene il luogo dell’incubo, popolato di figure surreali, deformate dalla visione dell’io poetico, che si trova ad avere degli incontri con delle figure femminili angoscianti che incarnano il vizio e la lussuria. Si consideri il seguente passo tratto da

La Notte:

Ero sotto l’ombra dei portici stillata di goccie e goccie di luce sanguigna ne la nebbia di una notte di dicembre. A un tratto una porta si era aperta in uno sfarzo di luce. In fondo avanti posava nello sfarzo di un’ottomana rossa il gomito reggendo la testa […] Sbattuto a la luce dall’ombra dei portici stillata di gocce e gocce di luce sanguigna io fissavo astretto attonito la grazia simbolica e avventurosa di quella scena […] La sua

vita era un lungo peccato: la lussuria.52

Si noti come la città raffigurata dal poeta in queste poche righe, ovvero la Bologna53 dai

portici rossi, sia pervasa da un’aura di mistero e di peccato, che viene incarnato poco dopo dall’apparizione del femminile lussurioso. Da ciò consegue che un elemento oggettivo cittadino, come il rosso degli edifici bolognesi, diventa il simbolo del sangue

51

Cfr. Matteo Meschiari, Dino Campana. Formazione del paesaggio, Napoli, Liguori, 2008, p. 43.

52

Dino Campana, Canti orfici e altre poesie, cit., p. 15.

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e del sacrificio, quasi il soggetto si trovasse in un ambiente infernale dove le anime dannate sono costrette a scontare le loro pene. D’altra parte che la sensazione

prevalente trasmessa dalla città notturna sia quella dell’inquietudine e della lussuria54

lo dimostra anche la scelta di un paesaggio avvolto dalla nebbia invernale che conferisce all’immagine quel sentimento di tristezza lugubre che prevale in un contesto angosciante. Si può dire dunque che la Bologna notturna percepita dal soggetto si trasforma in una sorta di postribolo lussurioso, che ospita figure ammaliatrici e impudiche che attraggano e respingono l’io poetico creando un sogno di fame ed orrore. Forse, la scelta di aprire la raccolta con questo breve poemetto vuole

già in partenza riferirsi alla discesa nelle zone dell’oltretomba55, dove il poeta ricerca il

significato di sé e della realtà, muovendosi tra le ombre insensate dell’inferno. Molto delle descrizioni d’ambiente rimanda infatti ad una caratterizzazione infernale: le scelte cromatiche tendenti al rosso e al nero, l’idea del peccato incombente, le ombre che prevalgono sul mondo. Si noti infatti che l’io poetico afferma di vagare «sotto l’ombra dei portici», atteggiamento che viene ripetuto due volte nel passo considerato, quasi ad accentuare l’immersione in un’atmosfera oscura, di non grande conforto al protagonista. Si tratta di una figurazione che viene espressa più volte anche nei componimenti più propriamente poetici, si considerino ad esempio i seguenti versi di La sera di Fiera:

Era la notte

di fiera della perfida Babele

salente in fasci verso un cielo affastellato un paradiso di fiamma

in lubrici fischi grotteschi

e tintinnare d’angeliche campanelle e gridi e voci di prostitute

e pantomime d’Ofelia

stillate dall’umile pianto delle lampade elettriche56

54

Sull’immagine della lussuria Cfr. Ernesto Citro, Sbarbaro e Campana. Lo sguardo e la visione, Genova, il Melangolo, 1994, p. 80.

55

Sull’immagine della discesa, forse nelle zone dell’oltretomba Cfr. Silvio Ramat, Dino Campana, cit., p. 111.

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Qui la fiera cittadina si trasforma in uno scenario dai connotati infernali, si noti a questo proposito i fasci di fiamme che salgono verso il cielo che sembrano avvolgere le figure incontrate per le vie, colte nel mentre emettono grida e voci. Ne esce una città caotica, una sorta di Babele informe in cui suoni e colori si confondono, quasi il soggetto si trovasse ad assistere ad una messinscena. Si noti come l’autore connoti la città notturna in maniera negativa, dato che parla di una «perfida Babele», di un luogo insidioso dunque, nel quale trovano posto immagini o atmosfere poco confortanti. La stessa definizione dell’ambiente come «paradiso di fiamma» vuole forse essere ironica, dato che la città si discosta fortemente da una figurazione idilliaca. Nel complesso dunque molti sono gli elementi che si accordano con l’immagine dell’Ade, alcuni dei

quali forse possiedono alcune reminiscenze dantesche57. Si aggiunga inoltre come la

figurazione della città notturna presentata in La sera di Fiera in parte ricalchi l’idea di una città imponente, alla quale si possono riferire le fiamme che raggiungono il cielo. Tale immagine volta a creare la sensazione di un ambiente che sovrasta l’individuo, immergendolo nella propria vita marginale, viene espressa esemplarmente in un passo di La notte, nel quale il soggetto si trova a camminare in una città colossale perdendosi in mezzo ai suoi edifici:

Tutto era mistero per la mia fede, la mia vita era tutta un’ansia del segreto delle stelle, tutta un chinarsi sull’abisso. Ero bello di tormento, inquieto, pallido, assetato errante dietro le larve del mistero. Poi fuggii. Mi persi per il tumulto delle città colossali, vidi le bianche cattedrali levarsi congerie enorme di fede e sogno colle mille punte nel cielo,

vidi le Alpi levarsi ancora come più grandi cattedrali.58

Qui la città tumultuosa diventa il luogo dell’allucinazione e della perdizione del soggetto, forse ambiente in cui l’io proietta i sogni di grandezza, ma allo stesso tempo si dimentica di sé perdendosi nell’ambiguità delle vie. Si noti a questo proposito l’insistenza sull’immagine del tormento e del mistero, che precede la figurazione della città colossale che ben identifica l’inquietudine e l’ansia di chi si sente smarrito nella grandezza di un ambiente sconosciuto. Si tratta di un’inquietudine paragonabile a chi si

57

Sull’influenza degli scenari danteschi sui Canti orfici Cfr. Ivi, p. XLVII dove Martinoni nota che molti femminili che compaiono nei Canti orfici si ispirano a peccatrici dantesche.

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trova a dover affrontare un paesaggio alpino, dove l’uomo si sente perduto nella vastità selvaggia dell’ambiente. Da qui l’assimilazione tra le cattedrali delle città e le Alpi che il poeta avanza nel seguito del testo. Si noti allora come la figurazione cittadina che ne deriva è volta ad identificare un luogo in cui l’individuo si trova sperduto, da un lato per la grandezza dell’insieme, dall’altro per il rapporto con le figure che incontra. Si tratta di un individuo isolato, solo nella modernità degli spazi in cui vive, un soggetto che percepisce in profondità la separazione con il luogo in cui si trova immerso. Non c’è identificazione tra io e paesaggio, egli afferma di sentirsi inquieto, errante, privo di punti di riferimento, quasi avesse improvvisamente perso se stesso e stesse con ansia cercando risposte che non vengono. Di qui l’angoscia e l’inquietudine che lo caratterizzano e che può essere facilmente riscontrata anche in molti scenari notturni sbarbariani. Si osservi inoltre che le figure di sfondo incontrate durante il suo vagare notturno a loro volta accentuano la sensazione di estraneità e inquietudine interiore. Queste sono infatti paragonate a degli spettri che deambulano nello spazio, non a figure concretamente descritte che rassicuranti si trovano a camminare per le vie cittadine. Si considerino ad esempio le seguenti righe di La notte:

Aprimmo la finestra al cielo notturno. Gli uomini come spettri vaganti: vagavano come gli spettri: e la città (le vie le chiese le piazze) si componeva in un sogno cadenzato, come una melodia invisibile scaturita da quel vagare. Non era dunque il mondo abitato da dolci spettri e nella notte non era il sogno ridesto nelle potenze sue tutte

trionfale?59

Qui gli uomini sono paragonati a delle larve della notte che si trovano a vagare senza punti di riferimento per le vie, per le piazze della città notturna, senza una vera e propria meta. Si noti come il soggetto parlando degli spettri li definisca «dolci», quasi volesse connotare l’ambiguità con cui egli si rapporta con queste figure, misteriose e impenetrabili allo stesso tempo, inconsistenti nel loro vagare e nel loro rapportarsi con

il mondo. La città figurata dal poeta appare dunque come un luogo spettrale60, irreale

e truce allo stesso tempo, spesso pervaso da mormorii e sussurri misteriosi, che il

59

Ivi, p. 21.

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soggetto non riesce facilmente ad identificare. Si tratta di un’immagine che ben evidenzia l’idea di una modernità alienante, di uomini che fanno parte dell’ambiente cittadino il quale, come afferma il soggetto stesso, «scaturisce» dal vagare delle figure, quasi spettri e città fossero un unicum e questi costituissero un elemento distintivo della città stessa. La critica ha a questo proposito identificato il paesaggio cittadino proposto da Campana in La Notte come un «fantasma di morte che porta dissolvimento, dispersione, entropia, e che sembra incarnare preoccupazioni

contemporanee e ancestrali»61, nei confronti del quale il soggetto prova sentimenti

orridi e dilettevoli, contrastanti e opposti, ma che assieme convivono all’interno degli stessi componimenti. Si può affermare allora che nel caso in cui la città venga rappresentata nella sua caotica dimensione notturna, questa si dimostra un luogo popolato da figure che attraggono e allo stesso tempo respingono il soggetto, uomini emarginati talvolta colti nel loro alienante cammino. Si può dire inoltre che questi talvolta vengano ad assumere un valore simbolico: le prostitute il simbolo del peccato, i muri rossi di Bologna la figurazione del sangue e della lussuria, gli spettri l’alienazione dell’uomo moderno.

Si osservi ora che le scelte qui presentate non esauriscono la totalità dei modi di raffigurare il paesaggio notturno in Campana, una buona parte dei componimenti dipinge una città notturna vuota, nella quale il soggetto si trova a camminare in solitudine. Si considerino ad esempio i seguenti versi tratti da La petite promenade du

poète:

Me ne vado per le strade strette oscure e misteriose […] la stradina è solitaria:

non c’è un cane: qualche stella nella notte sopra i tetti: […] e la notte mi par bella. E cammino poveretto nella notte fantasiosa pur mi sento nella bocca

la saliva disgustosa. Via dal tanfo via dal tanfo e per le strade

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e cammina e via cammina, già le case son più rade trovo l’erba mi ci stendo

a conciarmi come un cane62

Qui il poeta viene presentato mentre percorre strade oscure e solitarie, in cui nessuna figura umana sembra vivere. Si noti come queste appaiano buie e misteriose agli occhi del soggetto, che si affretta nel cammino per poter raggiungere l’erba benevola, lontano dal tanfo cittadino. Forse l’attenzione è posta non tanto sulla solitudine interiore del personaggio, quanto sulla vastità dello spazio che le vie vuote sono in questo caso in grado di creare. È stato più volte osservato come già l’atto del

percorrere a piedi le vie notturne ha la capacità di dilatare lo spazio63 allo scopo di

creare il senso di grandezza dello scenario cittadino; a ciò è possibile aggiungere che la scelta di spazi vuoti come le strade solitarie a loro volta creano la percezione di un luogo esteso, dalle sproporzionate dimensioni, che il soggetto soltanto in tempi lunghi riesce a percorrere. Di qui la sensazione opposta di piccolezza, di inconsistenza della propria persona nel paragone con la grande città che non è più racchiudibile entro uno

spazio ben definito, conosciuto e conoscibile64. Si noti infatti come la lunghezza delle

vie solitarie conferisce all’immagine la sensazione di una realtà ampia, smisurata che il soggetto si trova a percorrere in autonomia. Egli procede camminando tra i palazzi della città notturna, sperimentando la loro solitudine e l’odore disgustoso delle vie che emanano «tanfo». La mancanza di figure contribuisce ad accentuare la vuotezza del luogo, privato del suo elemento di comunione. Si noti allora come queste poche righe presentino una descrizione cittadina che facilmente si discosta con i versi considerati in precedenza: lì il poeta figurava una babele caotica, luogo della perdizione, qui l’attenzione viene posta su una città desolata, smisurata, per certi versi cimiteriale nel suo silenzio notturno. A ciò si aggiungono inoltre le ombre che prevalgono nel contesto urbano e che impediscono al soggetto di distinguere facilmente le vie accentuando ancor di più la sensazione di un luogo ostile che egli difficilmente riesce a racchiudere

62 Dino Campana, Canti orfici e altre poesie, a cura di Renato Martinoni, cit., p. 33.

63

Cfr. Matteo Meschiari, Dino Campana. Formazione del paesaggio, cit., pp. 2-3.

64

Sull’immagine di uno spazio ampio Cfr. Laura Incalcaterra Mcloughlin, Spazio e spazialità poetica, Leicester, Troubador Publishing, 2005, p. 12.

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entro i propri confini visivi. Si può dire inoltre, come ha notato la critica65, che la scelta

campaniana di porre un io che procede a piedi nello spazio urbano dilata ancor più la grandezza di questo e ne mostra la vastità. Come accadrà infatti anche nell’opera di Sbarbaro, l’io che deambula da un luogo all’altro è un io che non si appropria davvero dello spazio, che non arriva mai a conoscere totalmente la realtà cittadina ma noterà sempre dei vicoli bui sconosciuti, o degli angoli inesplorati. Da ciò consegue che la scelta di presentare un soggetto nell’atto di percorrere distanze difficili da immaginare

a piedi66 equivale ad accentuare la sproporzione tra questo e il luogo di tale vagare, tra

l’individualità e l’ambiente urbano. Si tratta di un’attitudine che spesso ritroviamo nei componimenti campaniani e che viene egregiamente espressa nel componimento dei

Canti orfici che ha titolo Batte Botte. Si considerino i seguenti versi:

Il mio passo solitario beve l’ombra per il Quais […] solo il passo che a la notte solitario si percuote per la notte dalle navi solitario ripercuote […] dentro l’occhio disumano de la notte di un destino ne la notte più lontano per le rotte de la notte il mio passo batte botte67 65

Cfr. Matteo Meschiari, Dino Campana. Formazione del paesaggio, cit., pp. 2-3.

66

Cfr. Ivi, p. 2.

67

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Qui il poeta presenta un personaggio intento a camminare in autonomia attraverso le vie del porto di Genova, costruendo i versi sul ritmo dei passi che vengono mossi, mostrando al lettore un contesto urbano percorso a piedi. Si noti a questo proposito come nel componimento facilmente venga espressa l’equivalenza tra uomo e paesaggio, dato che il camminare dell’io sembra a sua volta accordarsi con il rumore delle onde marine che si infrangono sul molo. Non esiste tuttavia una perfetta identificazione tra paesaggio e soggetto dato, che questo nel paesaggio sembra comunque disorientato, si affretta per sfuggire all’occhio «disumano della notte» quasi si trovasse a vivere un incubo. Ne deriva che egli appare in tutto “deterritorializzato”,

un vero e proprio nomade che vaga in solitudine per la città notturna68. Ancora una

volta, inoltre, l’attenzione viene posta sull’isolamento del suo vagare, quasi a dire che nessun aiuto può essere ricevuto, egli deve affrontare la città e, in metafora, la modernità in completa autonomia. Interessante inoltre come nel componimento Campana si avvalga dell’immagine della nave presente nel porto di Genova quale un elemento del paesaggio che non conduce ad una meta precisa, in quanto viene figurata nel suo movimento oscillante, non orientato. Questa, infatti, afferma il poeta, «si scuote», non è colta in un viaggio che progredisce, ma in una posizione di staticità quasi fosse una carcassa, un relitto. Si tratta di una figurazione interessante in quanto indica a sua volta la perdita di punti di riferimento, il senso di smarrimento esistenziale, molto simile a quello creato dalle vie vuote. Si noti infatti che talvolta la scelta di strade o viali spopolati venga associata al sentimento di solitudine del soggetto, tanto che la città notturna dipinta come un luogo ostile, per certi versi angosciante, diventa la proiezione dell’animo dell’io. Si considerino queste poche righe tratte da Il Russo:

Un uomo in una notte di dicembre, solo nella sua casa, sente il terrore della sua solitudine. Pensa che fuori degli uomini forse muoiono di freddo: ed esce per salvarli.

Al mattino quando ritorna, solo, trova sulla sua porta una donna, morta assiderata.69

68

Cfr. Matteo Meschiari, Dino Campana. Formazione del paesaggio, cit., p. 3.

69

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Qui l’immagine della solitudine esistenziale arriva addirittura a far percepire al soggetto un vero e proprio senso di terrore, di profonda mancanza, al quale si aggiunge la figurazione di uomini che muoiono di freddo, forse una metafora per indicare coloro che non stabiliscono delle relazioni e rimangono rinchiusi nel loro ego. Evidente come la rappresentazione di un ambiente invernale notturno ancor più conferisce quella sensazione di chiusura e isolamento, in contrapposizione ad un luogo caloroso, solare, gioioso in cui si intraprendono gli scambi umani. Si tratta di un ambiente che si accorda con l’interno del luogo in cui si trova il Russo, ovvero quello

del carcere, nel quale i singoli «camminavano come pazzi, ciascuno assorto»70 nella

propria colpa. Evidente come il poeta voglia rappresentare in questo breve poemetto una realtà che si accorda con l’esterno della città, povera, isolata e fredda così come i singoli che vi abitano. Forse quest’ultima idea, quella di un luogo triste e solitario compare con maggiore frequenza nel seguente passo di Dualismo dove l’attenzione del poeta è rivolta più che altro a descrivere l’isolamento partendo dalla realtà esterna. Si consideri il seguente passo:

Di notte nella piazza deserta, quando nuvole vaghe correvano verso strane costellazioni, alla triste luce elettrica io sentivo la mia infinita solitudine. La prateria si alzava come un mare argentato agli sfondi, e rigetti di quel mare, miseri, uomini feroci, uomini ignoti chiusi nel loro cupo volere, storie sanguinose subito dimenticate che rivivevano improvvisamente nella notte, tessevano attorno a me la storia della città giovine e feroce, conquistatrice e implacabile, ardente di un’acre febbre di denaro e

gioie immediate.71

Si noti come in questo caso la figurazione di una città notturna, solitaria, permette di esprimere il senso di infinita solitudine provato dal soggetto, che osservando la piazza deserta percepisce tutta la propria limitatezza forse anche in relazione alla vastità delle

costellazioni. Ne deriva che il notturno accentua anche la vuotezza del paesaggio72,

contribuendo a costruire quel senso di isolamento del soggetto tipico della poesia del Novecento. Si noti inoltre come, in queste poche righe, l’immagine di una città notturna si connette con la figurazione di un contesto urbano rivolto al profitto e al

70 Ivi, p. 99. 71 Ivi, p. 73. 72

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denaro, quasi a dire la solitudine di cui si parla è anche il frutto di una mancanza di valori che la città, potremmo altrimenti dire: la modernità, induce a dimenticare. Si noti infatti come gli uomini vengano rappresentati «chiusi nel loro cupo volere»,