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CAPITOLO 1: TRA RAFFIGURAZIONI URBANE E QUADRI

1.2. Tra natura e urbanità: l’essenza dei Frammenti lirici

1.2.5. Dai «palpiti di ciglia» al «lacrimar dell’ombre»: la figurazione notturna

Molti componimenti della raccolta propongono un paesaggio ambientato nella dimensione notturna, uno spazio dalle forti note sentimentali che ricalca sensazioni pure e sottili. Qui la notte, lontana dall’essere sede dell’incubo, diventa un luogo di pace e tranquillità in cui l’uomo si pone in intimo contatto con il mondo. Strettamente collegati ai Frammenti ambientati al tramonto, anche una parte dei componimenti “notturni” presentano dunque aspetti d’armonia e concordia già presenti nei primi, sebbene manchino delle scelte più propriamente legate all’immaginario decadente. Si consideri ad esempio il frammento XVIII:

Respira il lago un palpito sopito e dan le stelle bàttiti di ciglia divini: appare il mito

dei monti limpido, e origlia. Per ogni seno l’ora intima scende dalla campana: e silenzio indi vive; ogni cosa s’intende

tra foci errando e sorgive.147

Si noti come la scelta di un paesaggio notturno in cui predomina la figurazione di un lago dalle acque tranquille conferisca alla realtà sensazioni di pace e concordia, quasi l’io, trovandosi di fronte alle cose, ne percepisse l’intima vita e queste, a loro volta, fossero descritte come figure umane personificate. Osservando infatti i primi versi si può notare come il lago, a detta di Rebora, sembri respirare e le stelle, nelle loro pulsazioni, producano quasi dei battiti intermittenti come se possedessero delle lunghe ciglia. Un’analoga figurazione verrà presentata nel montaliano Meriggiare

pallido e assorto in cui il poeta parla di un «palpitare lontano di scaglie di mare»148

dove, ancora una volta, la lucentezza generata dal muoversi flebile delle onde permette alle acque di brillare nel momento in cui sono illuminate dal sole. In queste descrizioni la realtà appare dunque una sorta di grande organismo vivente in grado di

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Clemente Rebora, Frammenti lirici, a cura di Gianni Mussini e Matteo Giancotti, cit., p. 259.

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trasmettere armonia e concordia a chi rimane a contemplare la bellezza del paesaggio. Si noti inoltre come Rebora arrivi ad evidenziare nei versi sopra riportati suoni d’ambiente tenui, appena accennati, quasi la debolezza di questi non dovesse rompere il generale equilibrio venuto a crearsi. Ciò è accentuato dalla scelta di vocaboli come «indi» «origlia» «errando», termini che conferiscono il senso di indeterminatezza e la cui poeticità contribuisce a creare un panorama da sogno. Si tratta di scelte riscontrabili di frequente nella poesia romantica, si pensi anche soltanto al Passero

solitario leopardiano dove il poeta utilizza espressioni come «d’in sulla vetta» «erra

l’armonia», dando al canto quella suggestione tipica del Romanticismo che Rebora in un certo senso eredita dalle tendenze di questo periodo. Si potrebbe aggiungere inoltre che una sorta di afflato mistico pervade l’intero frammento, dato che al nono verso il personaggio parla di leggi pure che governano il creato e che sovrastano la vita

degli uomini. Ciò arriva a determinare una sorta di atmosfera contemplativa149, come

ha affermato Matteo Giancotti, dove la contemplazione permette in parte di intuire il disegno divino che presiede il mondo. Si noti come in questo componimento il paesaggio assuma il ruolo preponderante, venendo a costituire il vero snodo centrale del frammento. Le figure umane, nominate tra l’altro in maniera generica con il termine “gli uomini”, sono introdotte soltanto alla terza quartina, in una posizione dunque decentrata rispetto all’intera poesia, quasi a queste venisse conferito un ruolo secondario. Ecco dunque che i veri protagonisti della vicenda diventano le stelle, il lago, i monti cui Rebora attribuisce il ruolo principale. Si può infine aggiungere che anche in questo componimento, come accadeva nei frammenti più propriamente ambientati in montagna, compare l’immagine del monte come il luogo privilegiato cui l’uomo tende tanto che Rebora parla di «mito dei monti» che sovrasta la realtà. Si tratta di monti che si stagliano nel cielo notturno e che, con la loro imponenza, sembrano in qualche modo raggiungerlo, quasi a stabilire un contatto tra le due dimensioni: quella terrena e quella divina. Analoghe immagini notturne, volte a trasmettere la sensazione di una realtà pacificata, si possono notare considerando il frammento XXIII, dove il poeta dipinge il sopraggiungere della notte tra la semplicità

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Matteo Giancotti in Clemente Rebora, Frammenti lirici, a cura di Gianni Mussini e Matteo Giancotti, cit., p. 258.

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delle stalle, evidenziando le pratiche tipiche degli uomini in questo momento della giornata; si notino i seguenti versi:

Col moto egual delle tue genti, o valle, dal buio rombo profondo

alle pendici in ninnananna sale il notturno corale,

e fuma d’ombre al nido delle stalle150

Qui il canto corale notturno anticipa il sopraggiungere della notte, identificata come la fine del lavoro diurno, evidenziando come l’intero creato si stia preparando al riposo del sonno. Si noti come, anche in questo caso, l’immagine della sera e del suo rituale sia unita a suoni ameni come la ninnananna che sale le pendici dei monti; ecco dunque che la musica dolce sembra veicolare un profondo connubio tra gli elementi del creato. Lo spazio appare sospeso in una sorta di aura senza tempo, tanto che il poeta parla di un «moto egual delle genti» che realizzano dunque delle azioni consuete, ripetitive, quasi non ci fosse una progressione temporale. In questo contesto ognuno si prepara al riposo della notte:

Qui, nella tana è curva fra il variar delle braci la digiuna forma rozza del parentado accolto […] poi tranquillo ognun posa,

e in guizzo anche il fuoco si spoglia151

La descrizione paesaggistica si unisce qui con una sorta di raccoglimento realizzato dagli uomini di ritorno dalle mansioni lavorative. Rebora arriva a descrivere dunque un momento di profonda e autentica condivisione che caratterizza gli uomini al termine del lavoro quotidiano. La scelta d’ambiente permette in questo caso di creare con più

evidenza quella sensazione di legame che sussiste tra le persone152, legame fatto di

semplicità, amore e tenerezza speso tra il buio della notte, illuminato da qualche

150 Ivi, p. 296. 151 Ibidem. 152

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guizzo di fuoco. Simili immagini, di una sobria riunione tra gli uomini, erano state rappresentate non molti anni prima in alcuni dipinti di fine Ottocento; si pensi ad esempio ai Mangiatori di patate (1885) di Vincent Van Gogh. Qui il pittore raffigura il desinare semplice di poveri contadini nella penombra della sera, mentre sono intenti a consumare un frugale pasto di patate. L’intento è quello di creare, attraverso i colori quasi monocromi dell’interno, la figurazione della povertà e della fatica di chi si deve guadagnare il cibo quotidiano. L’ambientazione è quella di una semplice capanna, luogo povero e modesto, così come appaiono consumati i volti dei personaggi rappresentati. Essi, nel spigoloso sporgere delle guance, ricordano la fatica e la magrezza di chi manca del benessere fisico alla quale si aggiunge la luce tenue della lampada che ne evidenzia i tratti del volto. Nel complesso il pittore mira a realizzare una sorta di denuncia sociale delle condizioni dei miseri alla quale si accosta tuttavia uno scorcio raffigurativo sull’umiltà e la semplicità della povera gente. Si noti come il frammento XXIII di Rebora in parte riproduca una simile scena: un gruppo di persone raccolte attorno ad un fuocherello modesto; l’immagine del fumo che proviene dalle semplici stalle; le figure umane «digiune» forse con il significato di magre e quindi in un certo senso povere e umili. L’ambientazione data da Rebora sembra in parte rispecchiare quella del quadro di Van Gogh, dalle fosche tinte notturne, contrapposto ai componimenti più propriamente “cittadini” volti a mostrare la spersonalizzazione dell’uomo nella contemporaneità. Si consideri infine l’ultima parte del frammento, in cui ritorna quella sorta di sensazione di uno spirito che presiede la vita degli uomini e che spesso è accennato nei frammenti del poeta:

Per l’umido giro dei monti tendo lo sguardo e l’udito;

e se al mio strano pensier paragono le immote umili forme

che giaccion dentro, arcano dalla terra esce un fantasma,

e bacia solo chi dorme.153

153

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Qui il paesaggio notturno diviene il luogo in cui l’intima essenza della realtà viene percepita dall’uomo, quasi il momento della pace e del riposo permettesse una momentanea rivelazione. È ciò che accade nei versi finali, dove il poeta parla di un fantasma che esce dalla terra e che realizza la funzione di conservare il sonno delle persone. Si noti come l’io si ponga qui nella situazione d’ascolto, affinando sia i sensi della vista che dell’udito, i quali gli permettono di percepire meglio le cose della realtà quasi l’essenza potesse essere rivelata più facilmente quando i rumori del giorno sono venuti meno. Infine la scelta di un’espressione come «immote umili forme» in riferimento agli elementi della realtà lascia pensare ad una sensazione di abbandono delle cose che giacciono come relitti in un grande calderone, sensazione che è riscontrabile anche in altri componimenti di Rebora e che tendenzialmente appare legata alla condizione cittadina.

Si consideri ora il frammento XXX, in cui alla bellezza e purezza del paesaggio si aggiunge una sorta di tenera immagine celeste, dalle tipiche ascendenze romantiche. Si analizzino i seguenti versi:

Leggiadro vien nell’onda della sera un solitario pàlpito di stella: a poco a poco una nube leggera

le chiude sorridendo la pupilla154

Qui il cielo notturno compare puntinato di chiare stelle che conferiscono al frammento un contesto fortemente raffinato quasi l’io poetico stesse contemplando la volta celeste alla ricerca di proprie risposte esistenziali. Si tratta della tipica attitudine romantica di chi riflette sull’universo alzando lo sguardo al cielo, simbolo del mondo e del suo esistere per arrivare a percepirne l’essenza intima, così come accadeva ad esempio nel Canto notturno di un pastore errante di Leopardi. Si noti come, ancora una volta, Rebora attribuisce a queste immagini una sorta di umanizzazione, dato che parla di una nube leggera nell’atto di chiudere le stelle con i propri veli e con le proprie piume. Qui l’oscurità si fa più intensa, al punto che i luccichii delle stelle iniziano a comparire uno dopo l’altro nel cielo sgombro di nubi quasi dipingessero dei veri e

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propri ricami sulla volta stessa. Il tutto contribuisce dunque a creare una raffinatezza spiccata, come si può notare anche dai seguenti versi:

E mentre passa con veli e con piume, nel grande azzurro tremule faville nascono a sciami, nascono a ghirlande, son nate in cento, sono nate in mille:

ma più io non ti vedo, stella mia155

La bellezza del paesaggio si unisce qui con un altro tema che Contini ha definito «il

desiderio di dissolvimento di sé, di umile partecipazione corale»156, prospettato

dall’immagine della stella che si confonde tra le altre cento quasi fosse risucchiata dal cielo. Si tratta dunque di un paesaggio notturno carico di significati, in cui le figurazioni presentate vogliono veicolare determinati tipi di immagini e realtà di una certa concordia e armonia esteriore. Forse, anche in questo caso, ritorna la scelta di un paesaggio notturno per esprimere la gioia, la distanza ma in parte anche il dolore del sentimento dell’amore, incarnata dalla stella che più non si vede e che forse viene a rappresentare l’amata lontana. Ecco dunque che la scelta della notte si unisce qui con la raffigurazione di un cielo stellato in un binomio che spesso compare nei frammenti “notturni” del poeta.

Si può dire dunque che in questa prima parte di frammenti la figurazione del paesaggio notturno viene ad assumere molteplici funzioni, complessivamente volte a creare un senso di armonia e quiete, all’interno delle quali è possibile percepire una sorta di comunione tra gli elementi del creato. Cieli stellati si uniscono ad immagini amene, dando vita ad una realtà in cui quasi tutto vive di una profonda pace. Le descrizioni sono volte dunque a creare un panorama pacifico, in una sorta di ariosa armonia naturale. Le poche figure umane che vengono dipinte dal poeta sembrano a loro volta godere di una concordia interna che non le porta ad essere in contrasto l’una con l’altra ma, al contrario, a condividere situazioni, emozioni. Si noti a tal proposito come nel frammento XXIII Rebora parli di un “coro di voci”, nel XVIII di un mistero che «accomuna» gli uomini, li rende dunque uniti, non separati o indifferenti l’uno con

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Ibidem.

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l’altro. Analogamente, nel frammento XXX, le stelle sembrano concordi nel loro nascere e comparire nel cielo. Non c’è dunque discordanza tra gli oggetti del paesaggio e le figure sullo sfondo, ma nel complesso la realtà vive di un profondo palpito divino. Si noti tuttavia come tali immagini paesaggistiche appartengano ad un ambito prettamente naturale, lontano appare il contesto urbano perturbatore, che non viene per nulla citato. Da ciò consegue che, soltanto laddove il paesaggio notturno appare ancora incontaminato dalle contraddizioni della modernità, questo viene descritto come ameno e libero nelle sue caratteristiche. Si osservi infatti come esso invece si trasformi in un luogo di inquietudine nel momento in cui viene figurato nei componimenti propriamente urbani.

Si consideri a tal proposito il frammento XLV dove la rappresentazione del buio notturno diviene l’espressione di una realtà oscura e cupa, privata della sua luminosità. Si considerino i seguenti versi:

Con me in persi indicibili moti è la pioggia che fila giù bieca, mentre senz’eco di colori ignoti presagi l’aria notturna discende

quasi eterno coperchio sopra un’urna157

Qui l’ambiente nelle sue tinte grigio-nere conferisce subito al componimento un’aura di monotonia e tristezza che ingloba il mondo; l’aria notturna viene infatti assimilata ad un coperchio che chiude un’urna, quasi si trattasse di una soffocante pellicola che avvolge la realtà. Nulla di confortante traspare dalle immagini descritte: la pioggia con la sua inclinazione accentua il grigiore complessivo mentre l’idea di un tappo eterno, quindi non rimovibile, che in un certo senso soffoca il mondo, pervade il testo. Si noti inoltre che quel senso di chiusura e asfissia viene espresso anche dal moto perso e ripetitivo della pioggia, quasi la ripetitività di questa fosse emblema dell’inautentico e dell’uniforme. Tali versi anticipano infatti il quadro cittadino grigio e frenetico che compare alla fine dell’opera:

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L’ansiosa città non avverte: va imperlando di fari i suoi solchi fra strida schianti boati, e bigia s’intesse in un vaporare di fiati

alle botteghe lucenti158

La città diventa, nella descrizione reboriana, una sorta di macchina stridente che produce rumori maligni, come schianti e boati che cozzano con l’armonia che dovrebbe trasmettere il paesaggio. Si tratta forse del suono fornito dalle industrie meccaniche che creano rumori nella realizzazione dei pezzi fabbricati. Si noti come Rebora arrivi a sostenere, attraverso l’immagine delle botteghe lucenti, l’idea di una produttività industriale, fatta di elementi che attraggono il pubblico, lusingandolo con i colori variegati delle vetrine volte alla vendita della merce. Gli uomini infatti appaiono incollati al vetro con un’avidità belluina, dato che quest’ultimi sono addirittura appannati dal calore del fiato. L’insieme è volto dunque a calare il lettore in un movimentato contesto cittadino. Si può aggiungere che la vita della città qui descritta appare in tutta la sua frenesia, tema centrale nei componimenti urbani, non a caso il poeta parla di «un’ansiosa città», ovvero un luogo in cui l’attività e la velocità risultano preponderanti tanto da dimenticare gli avvertimenti che provengono dal cielo. All’immagine di uno spazio sovraffollato in cui prevale il camminare incalzante riconducono anche i seguenti versi:

Urto nei brevi scambi, e per gl’imbocchi esito trasognando;

alle vetrine chiedo cosa io sia, fin che di via in via

dove è men luce svoltando

tra nere forme forma nera ho spazio159

Qui l’ambiente appare nella sua enorme compagine di vie e viottole colme di vetrine, dove l’io poetico si trova a muoversi alla ricerca di se stesso, come denuncia l’interrogativo «chiedo cosa io sia» che egli pone alla vetrata stessa quasi fosse uno specchio in cui osservarsi. Come ha notato Matteo Munaretto egli, non trovando

158

Ibidem.

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risposta, preferisce in un certo senso sprofondare nel buio, unico luogo in cui non

sentire la propria estraneità al mondo circostante.160 Ecco dunque che, al riflesso dei

luoghi lucenti, si sostituisce l’immagine di vie immerse nell’oscurità notturna in cui il soggetto sembra più facilmente nascondersi, in una sorta di connubio con queste. Le scelte paesaggistiche sono volte inoltre a descrivere la città come un luogo sinistro in cui l’io poetico viene risucchiato dalla massa. A questi rimane soltanto di frequentare quegli scorci dimenticati dato che il caos e la luce delle vie non lo soddisfano a sufficienza. Si noti inoltre come Rebora arrivi a descrivere lo spazio della città come un luogo dalla forma geometrica spigolosa, tanto che parla spesso di «anditi» delle case nonché di «svoltare» nei vari angoli di queste. Si tratta dunque di una figurazione per nulla confortante che favorisce la sensazione di uno spazio ostile ben lontano dai paesaggi ameni che si potevano notare ai frammenti XVIII e XXX. L’attenzione posta su una geometria squadrata, a ben vedere, riporta quindi ad un ambiente sfavorevole, così come accadrà nell’opera di Sbarbaro, in contrapposizione con una forma curvilinea che possa veicolare l’immagine di un mondo chiaro senza zone seminascoste coperte da profondi strati d’ombra. Si noti infine come la monotonia di una città grigia, quale appariva nei primi versi, compaia nelle battute finali del componimento:

Per gli ànditi e le case, e fuori son uno che va con l’ombrella al passante col piede ai guazzi attento, e me l’uso eguale modella: l’ansietà dentro aggroviglia

ciò che più m’assomiglia.161

Qui il paesaggio descritto con la sua estrema serpentina di vie diventa emblema dell’ansietà dell’io, ansietà dichiarata al verso settanta in cui il soggetto afferma di avere dei grovigli interiori che pervadono il suo animo. Ecco dunque che le vie contorte, come accadrà in molte figurazioni coeve, vengono ad assumere i tratti di un vero e proprio labirinto, espressione forse del labirinto della coscienza del

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Ivi, p. 529.

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personaggio. Si noti come il paesaggio piovoso diventi inoltre emblema di una interiorità grigia, di un ripetitivo esistere che viene prospettato dai passi che cercano di evitare le pozze d’acqua sul terreno. In questo ambiente monotono l’io si trova dunque ad essere assimilato ad un qualsiasi passante, da cui non è distinto per nulla dato che il loro volto è nascosto dai numerosi ombrelli che popolano la via cittadina.

Si consideri ora il componimento LIV in cui la rappresentazione della notte diviene l’immagine della tetra oscurità percepibile come un nulla che pervade la realtà e ingloba i passanti. Si notino i seguenti versi:

E tu, notte che dai parvenza al rito immortale, se graviti sovrana dove creando nostra sorte emana,

stai con chi ha luce; e il nulla all’abbrunito

passeggier scavi d’intorno.162

Qui la descrizione notturna diventa l’emblema di una realtà profonda che avvolge il passante nascondendogli il paesaggio, forse proiezione della propria interiorità travagliata che in un certo senso non riesce a comprendere la luce della verità. Ecco dunque che ciò che circonda l’io è una sorta di voragine nera che da un lato gli impedisce di vedere chiaramente, dall’altro realizza un processo di erosione, come denota l’espressione «scavi d’intorno», quasi le tenebre arrivassero a risucchiare l’ambiente circostante. Tale immagine viene in parte veicolata anche dai versi finali: