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CAPITOLO 1: TRA RAFFIGURAZIONI URBANE E QUADRI

1.2. Tra natura e urbanità: l’essenza dei Frammenti lirici

1.2.6. Una frenetica modernità: l’ambiente urbano dei Frammenti lirici

lirici

Si è già potuto notare come lo spazio cittadino assuma nei Frammenti lirici reboriani un

ruolo centrale, diventando il polo opposto al paesaggio montano169, nonché, nella sua

dimensione notturna, un luogo sinistro dai rumori assordanti, spesso emblema della mercificazione del vivere. Più in generale, se si considerano i Frammenti nella loro totalità, è possibile notare come sussista una interessante corrispondenza tra le descrizioni d’ambiente cittadine e l’idea di moderno che esse mirano a veicolare, in una sorta di legame profondo tra lo spazio fisico e le sensazioni emotive, le contraddizioni, le ansie e i dubbi tipici del mondo contemporaneo. Già si era notato, analizzando il frammento XLV, come l’io che camminava di notte lungo le vie gremite di botteghe lucenti cercasse di definire la propria identità in un difficile processo di incontro con l’alterità cittadina che lo spingeva a preferire le zone oscure in cui tali angoscianti domande erano messe a tacere. Ne derivava una sorta di distanza tra il soggetto e la realtà esterna che rendeva difficile il processo di identificazione con questa, in un conflitto vivo, continuamente mutevole e sottoposto a ridefinizioni. Ecco dunque che, se la città novecentesca diviene il luogo in cui l’io cerca di definirsi e comprendersi, questo risulta una figura sempre in tensione che, come ha osservato la

critica, deve in continuazione misurarsi con un mondo variegato e in crescita.170 La

città diviene quindi, in primo luogo, il simbolo della modernità in cui l’uomo non può più seguire il ritmo cadenzato, stagionale, della vita di campagna, ma si trova a confrontarsi con uno spazio sempre più esteso, difficilmente delimitabile e quindi comprensibile. Ecco dunque che:

Le città dei secoli passati, odiate o amate che fossero, erano entità ben definite, situate generalmente in posizioni strategiche sul territorio e rinchiuse all’interno di mura di

169

Sull’immagine della città come «polo negativo, distante dall’idea» si veda Giorgio Bàrberi Squarotti,

La città di Rebora, cit., p. 42.

170

Laura Incalcaterra Mcloughlin, Spazio e spazialità poetica, Leicester, Trobadour Publishing, 2005, p. 17.

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cinta e fortificazioni. Quando tra l’Otto e il Novecento le città cominciano ad assumere il carattere di metropoli, esse costrinsero l’individuo a confrontarsi con un orizzonte

che arretrava in continuazione e con uno spazio sempre più esteso.171

L’uomo nel Novecento perde dunque i punti di riferimento: ciò che prima è circoscritto e definito secondo una struttura conosciuta adesso diviene ambiguo; non sussiste più un confine che possa segnare con esattezza l’ambiente urbano, questo si è espanso oltre le sue barriere, inglobando una parte della campagna. È ciò che accade nel frammento III nel quale il moto del temporale sembra procedere facilmente dalla città alla campagna, in una sorta di legame spaziale tra le due realtà che impedisce di delimitare con facilità il termine di quest’ultima. La sensazione che viene a crearsi è quella di una vasta spazialità sebbene il poeta mantenga ben distinte le due entità: quella cittadina e quella rurale. Si considerino i seguenti versi:

Dall’intensa nuvolaglia […] piomba il turbine e scorrazza sul vento proteso a cavallo campi e ville, e dà battaglia; ma quand’urta una città si scardina in ogni maglia, s’inombra come un’occhiaia, e guizzi e suono e vento tramuta in ansietà

d’affollate faccende in tormento:

e senza combattere ammazza172

Qui la contrapposizione tra campagna e città viene evidenziata dall’avversativa, che nota come il temporale personificato sia libero di “scorrazzare” nei vasti prati campagnoli mentre è costretto ad incanalarsi nelle strettoie cittadine, perdendo in un certo senso la libertà che prima possedeva nel movimento tra gli edifici. Sebbene

l’immagine della città superi lo spazio limitante delle mura173, in un’accezione moderna

dello spazio, questa viene percepita come distinta dal mondo di campagna, dove la natura sembra integrarsi più facilmente, esprimendosi con libertà in tutte le sue manifestazioni. Ecco dunque che nella città il turbine si trova a dover sottostare alle

171

Ivi, p. 19

172

Clemente Rebora, Frammenti lirici, a cura di Gianni Mussini e Matteo Giancotti, cit., p. 97.

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anguste e strette vie degli edifici, a spazi più ristretti e non agevoli, che mal si adattano alla sua presenza. Si noti inoltre come il frammento faccia affiorare un differente ritmo interno per le due tipologie di spazio: nel primo caso il vento viene paragonato ad un cavallo al galoppo e il paesaggio è pervaso dunque da suoni scanditi, ameni nella loro ritmica cadenza; nel secondo caso, invece, i rumori generati dall’incontro con gli edifici portano ad un’incalzante ritmo che aumenta sempre più dando vita a frenetici e sovrapposti rumori. Come è stato infatti osservato dalla critica, nel Novecento:

i ritmi cadenzati della campagna vengono rapidamente sostituiti dai ritmi dissonanti della città, dove il ruolo dell’io è caratterizzato dall’indeterminatezza, contro uno

sfondo dinamico e sempre mobile174

In questa situazione l’io si trova dunque perso nella vertiginosa vita cittadina, di qui forse il tormento e l’ansietà di cui parla il soggetto negli ultimi versi. Da un lato ciò può significare ansia interiore, difficoltà di sostenere dei ritmi serrati; dall’altro si può trattare di un’ansia da mancanza di punti di riferimento, dato che la città sembra una sorta di labirinto variegato di cui è difficile definire capo e coda. Ecco dunque che in questo caso la descrizione spaziale non è fine a se stessa ma è volta a trasmettere l’immagine della realtà moderna e delle sue consuetudini, in primo luogo ciò che possono significare i cambiamenti del nuovo secolo nell’uomo e nella natura. Si noti come, alla visione prettamente naturale del contesto rurale, si sostituisca un evidente accenno all’affollato luogo cittadino che già era comparso nel frammento XLV considerato, in cui l’io poetico urtava i passanti nel tentativo di camminare per le vie. Qui, nel frammento III, il poeta parla di «affollate faccende» con un chiaro riferimento agli uomini che ne sono coinvolti e trasmette dunque l’idea di uno spazio ricco di figure occupate nelle diverse attività quotidiane. Si tratta di attività sfiancanti, come dimostrano le «occhiaie» del decimo verso apparentemente riferite al vento che si insinua negli angoli più occulti della città ma in realtà attribuibili agli esseri umani consunti. Ecco dunque che Rebora, in questo frammento, riesce ad identificare una delle essenze del contesto urbano moderno: il brulicare di persone che si muovono nelle vie sempre affaccendate nei più disparati lavori, intente ad eseguire con ansia le

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proprie mansioni. Analogamente l’immagine di una città moderna, caotica e allo stesso tempo fortemente massificata, viene presentata anche nel frammento XXXVI in cui l’autore descrive le figure degli studenti intenti a recarsi a scuola come il «gonzo

pecorume/dei ragazzi di scuola»175, i quali possiedono «palloncini sugli spaghi» e

«oscilla/ dai corpi smilzi il vuoto delle teste».176 Al di là del particolare sguardo critico

nei confronti dello studente poco diligente, immagine che non è certamente prerogativa del Novecento, si può dire che qui Rebora sottolinei l’idea di una modernità che massifica, figurata nel prototipo del ragazzo che non riflette e si appresta a seguire per consuetudine le tendenze dei compagni. Analogamente anche

nel frammento LXVIII l’autore parla di «genti della gran plebaglia»177 che seguono

l’Utile senza porre in primo piano i veri valori, in una concezione fortemente critica della vita massificata dedita soltanto al guadagno. Ecco dunque che la città, nel caos delle cose, diventa l’ambiente in cui l’io facilmente perde l’identità dato che fisicamente si eclissa nella confusione indistinta di questa. Tale processo può essere spiegato anche come una conseguenza del continuo mutamento del contesto urbano stesso, che spinge il soggetto a doversi adattare a situazioni e spazi nuovi impedendogli di fissarsi in una forma specifica. Già era stato notato, infatti, come i ritmi cittadini, dalla sostenuta velocità, riducessero l’uomo ad un individuo costretto a sottostare ad un ritmo incalzante, delirante, spesso ciclico ed uguale a se stesso. Ciò è visibile con maggiore precisione nel frammento LI, dove l’immagine della velocità è associata ad uno degli elementi-simbolo della società contemporanea: il treno e il suo movimento. Si considerino i seguenti versi:

Sibila scivola livido il treno in una gora di fumo e aria che si riversa convulsa. […] Erra dai vetri lo sguardo

e s’amplia nel ritmo un gran senso oh il variar delle cose ch’io guardo e le vorrei!

175

Clemente Rebora, Frammenti lirici, a cura di Gianni Mussini e Matteo Giancotti, cit., p. 428.

176

Ibidem.

177

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quel che da lungi m’invita va sempre più in là:

e nulla è mio al passaggio178

Qui il treno e il suo percorrere ampie tratte diviene il simbolo del variare delle cose, che non permette al passeggero di farle sue, dato che il paesaggio che sta osservando risulta in continuo mutamento. Chi guarda, infatti, non è in grado di distinguere con precisione la forma della realtà e non appena qualcosa colpisce maggiormente l’occhio dell’io poetante questa è già passata, «va sempre più in là», afferma l’autore. Ecco dunque che uno degli elementi maggiormente pregnanti dello spazio cittadino primo-novecentesco viene utilizzato da Rebora per trasmettere il sentimento della mutevolezza delle cose, del loro eterno passaggio, del loro essere effimero che non permette all’uomo di fissarle e di conseguenza di stabilire un rapporto con esse. Si noti la differenza con l’immagine della locomotiva che era stata data mezzo secolo prima da

Giosuè Carducci179 nell’ Inno a Satana; qui il treno, emblema del progresso scientifico e

tecnico, appariva come ciò che permetteva di vincere le grandi distanze, simbolo del potere dell’uomo sullo spazio e delle possibilità di questo di appropriarsene. Si considerino i seguenti versi:

Un bello e orribile mostro si sferra, corre gli oceani, corre la terra: Corusco e fumido come i vulcani, i monti supera, divora i piani; sorvola i baratri; poi si nasconde per antri incogniti, per vie profonde; ed esce; e indomito di lido in lido come di turbine

manda il suo grido180

178

Ivi, p. 600.

179

Sull’influenza di Carducci nell’opera di Rebora Cfr. Ivi, p. 595.

180

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La descrizione carducciana ben sottolinea l’immagine di un oggetto venerato e temuto allo stesso tempo; il treno appare come un mostro meccanico in grado di superare i confini spaziali consueti, quasi fosse un essere indomabile. Evidente è il fascino che questo suscita nell’io poetico volto ad esaltarne le possibilità e la potenza, più che a criticarne le caratteristiche. Si tratta di un fascino timoroso, «bello e orribile» afferma l’autore nei primi versi, ad indicare il duplice sentimento che nutre nei confronti di questa particolare innovazione della modernità. Essa permette, nell’immagine che viene proposta, di esplorare le zone più sconosciute: gli «antri incogniti», le «vie profonde» spingendo la conoscenza umana oltre i propri confini. Nel frammento reboriano, invece, la figurazione della locomotiva che scivola «livida» tra la nebbia e il fumo, in una sorta di aria plumbea, spinge ad inserire l’immagine del treno tra gli oggetti cittadini che impediscono il quieto vivere e diventano il simbolo della meccanizzazione delle cose. Si può notare allora come la locomotiva venga qui considerata non più nelle sue potenzialità e nella sua positività, facendo in modo che gli uomini riescano velocemente negli spostamenti, ma viene inserita in un più ampio contesto urbano che legge la velocità come frenesia e repentino cambiamento. Di qui i verbi negativi che caratterizzano il componimento: “Sibila” il treno, “Erra” lo sguardo nel primo caso allusione a qualcosa di insidioso mentre nel secondo ad una visione

senza punti di riferimento181. Si aggiunga inoltre che nella descrizione di Rebora il

movimento del treno all’interno di una nuvola di fumo e aria non è più, come nel caso del componimento carducciano, un sogno di potenza, ma diviene forse la figurazione di un oggetto che inquinando rovina la bellezza del paesaggio soleggiato. Da questo punto di vista l’immagine si accorda con quella del fumo che esce dalle fabbriche, più volte presente nella poesia reboriana e ben lontana dal paragone con il vulcano in ebollizione prospettato nell’Inno a Satana. Ecco dunque che i due autori arrivano a presentare due contesti quasi opposti sul medesimo argomento e che la visione di Rebora si adatta a nuovi significati su cui il nuovo secolo spinge a riflettere.

181

Sull’immagine del treno come simbolo di un “moderno stancato” cfr. Silvio Ramat, Clemente Rebora, cit., p. 97.

100

L’idea di una realtà urbana in continuo movimento ritorna anche nel componimento XXXIV in cui il poeta presenta la frenesia di un lavoro serrato unita a quella di uomini immersi nelle faccende quotidiane; si analizzino i seguenti versi:

Vòlano le sirene negl’incensi del fumo chiamando al buon lavoro! e via si lancia il giorno d’ora in ora al meriggio, e giù per la sua china a foggiar cose e pensieri con intrecciate vicende con risonanti movenze,

fin che la sera il gran pàlpito accoglie e ne respira le voglie

fra il rincasar tumultuoso

che ai sobborghi nereggia negli echi dell’ultime officine,

tra il brulicar delle forme che s’indugian più scaltre

nel tinnir luminoso dei corsi.182

Qui Rebora descrive un quadro urbano considerato nella sua dimensione lavorativa diurna, quando gli uomini si recano al suon delle sirene a svolgere le mansioni di fabbrica, in un repentino risveglio che spinge loro nelle più disparate attività. Si noti come il poeta riesca a creare, con l’incalzare dei versi, la figurazione di un contesto frenetico, scandito dai rumori delle macchine, emblema della città novecentesca. Si tratta di una figurazione urbana volta a mostrare la vittoria della scienza sulla natura, come dichiara l’autore nell’incipit del componimento; natura che viene dunque “soffocata” dato che i rumori che prevalgono sono quelli striduli dei macchinari, i quali coprono il canto degli uccelli e la melodia dei ruscelli. Emblematico a questo proposito la scelta del verbo “volano” di solito riferito appunto a degli esseri animati e ora, forse

in maniera polemica, alle sirene delle fabbriche183, quasi a sottolineare il predominio di

suoni meccanizzati su quelli del paesaggio, contrariamente a come accadeva invece nei frammenti ambientati in montagna. Si noti come lo spazio che Rebora mira a creare è

182

Clemente Rebora, Frammenti lirici, a cura di Gianni Mussini e Matteo Giancotti, cit., p. 405.

183

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quello di un luogo caotico, dove al caos si unisce l’aria gremita di fumo che allude forse al doppio significato fisico e metaforico di una confusione effettiva e mentale. Si tratta della vittoria della meccanizzazione sulla natura, dell’interesse materiale su quello sentimentale, dell’avidità sulla generosità, della velocità sul tranquillo ritmo rurale. Ciò si può osservare anche se si considera che Rebora fa del movimento il vero protagonista del frammento, non nominando mai direttamente gli uomini ma semmai le loro azioni, il loro rincasare o risvegliarsi al mattino o il preoccuparsi quotidiano. Ciò permette meglio di inserire le loro figure nelle vicende cittadine, considerandole nella loro coralità più che nella individualità, nel loro essere parte di un ambiente complesso più che nella loro singolarità. Si noti come, se in altri frammenti della raccolta, l’eclissi dell’uomo nella natura e il suo perdere le caratteristiche individuali significava partecipare alla vita armonica del creato, qui il ridurre l’uomo alle sue mansioni quotidiane, in un atteggiamento che lo accomuna agli altri esseri, comporta l’acquisizione di una coralità negativa, di un decentramento della sua persona nel mondo urbano. A questa idea rimanda anche la scelta dei versi conclusivi del frammento, che identifica i lavoratori come «forme che s’indugian più scaltre» più che come vere e proprie persone. Infine si noti che una conferma del ritmo incalzante, che logora, è dimostrata dalla contrapposizione con i versi finali, dato che soltanto nel rincasare a sera i protagonisti sembrano ritrovare la pace e il riposo meritato. Qui, infatti, l’affrettarsi non è più simbolo di una velocità alienante, ma si trasforma in un movimento che permette di raggiungere più velocemente le proprie case e l’affetto dei propri cari.

Si consideri ora il frammento X dove l’immagine della città viene invece associata a quella di un insieme di uomini dediti al bisogno materiale, quasi si trattasse di un luogo ricco di sporcizia, meglio identificabile con lo squallore morale. Nella descrizione di Rebora, infatti, il contesto urbano viene presentato come lo spazio dello scambio e compravendita, l’ambiente in cui predominano la scaltra parola e l’etica del guadagno che in un certo senso portano l’uomo e la sua anima alla dannazione. Si considerino i seguenti versi:

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Chiedono i tempi agir forte nel mondo in un perenne tumultuar balordo di vita senza razza;

e che, fiumana alle marcite in guazza, scoli ognuno nei molti,

e dissolva la sua intima pace alla città vorace

che nella fogna ancor tutti affratella184.

Si noti come, già in apertura al componimento, compaia assieme alla figurazione di un attivismo che pervade il contesto urbano il tema del vivere in un luogo intriso di bassezza morale, dato che la «fogna» di cui il poeta parla è forse una figurazione ideale più che un luogo fisico. In questi versi, infatti, Rebora mira a creare una stretta connessione tra le marcite che, come osserva nella nota linguistica Matteo Munaretto,

sono caratteristiche della bassa padana185, e il marcio di chi si sottopone alle leggi di

questa, come si può notare nel seguito del frammento:

Ben t’applaude chi compera e smercia venere neutra immonda:

chi, di sé ghiotto nell’anima lercia con vasti gesti d’unione

umanità circonda chi fiuta la ragione

(cagna che ha piscio per ogni cantone)

e il meccanismo e la scaltra parola186

Ecco dunque che l’autore propone uno spaccato sociale volto a dipingere alcune figure che popolano la vita urbana: dal venditore che compra per rivendere, a colui che si serve in maniera eccessiva della razionalità per fare il proprio utile, a chi, abile con le parole, le utilizza per raggirare ed imbrogliare l’ascoltatore. Si tratta di figure dall’anima “lercia”, come commentava l’io poetico al terzo verso, in maniera

metaforica, immerse nella melma urbana187. Si noti come il paragone tra il fango e

un’anima a-morale, non dedita ai veri valori, abbia reminiscenze molto lontane nella

184 Ivi, p. 170. 185 Ivi, p. 173. 186 Ivi, p. 170. 187

Sull’immagine della fogna come luogo di bassura Cfr. Giorgio Bàrberi Squarotti, La città di Rebora, cit., p. 46.

103

nostra letteratura che possono essere fatte risalire alla Divina Commedia di Dante. Spesso dunque ritorna il paragone tra il marcio ambientale e il marcio interiore, quasi ad indicare che l’uno è espressione della profondità dell’altro. Si aggiunga inoltre che le figure dipinte da Rebora in questo quadro cittadino sembrano coinvolgere «con vasti gesti d’unione» anche chi, non corrotto, potrebbe condurre una vita di veri valori, quasi le attività cittadine lo spingessero ad adeguarsi al sistema. Analogamente nel frammento LXVIII viene detto:

Ogni città tituba curva nei duri margini chiusa[…] e batte a risveglio monete d’oro sui vetri e nei cuori

e sciocche, le genti della gran plebaglia superba d’errore e di male,

osannano o impiccano al cenno dell’utile188

Qui si può notare il riferimento, ancora una volta, all’utile come uno dei valori preponderanti del vivere cittadino. Interessante come il predominio di questo viene espresso attraverso l’immagine della città che risveglia gli uomini spingendoli al pensiero delle monete d’oro che forse guadagneranno nel corso della giornata. Si può dire dunque che Rebora miri a creare uno spazio urbano in cui gli autentici sentimenti e i valori sono sottoposti al vivere materiale in contrapposizione con quello morale. Ne deriva un paesaggio a sua volta dipinto come il luogo-ospite di questa realtà, se non