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CAPITOLO 1: TRA RAFFIGURAZIONI URBANE E QUADRI

1.2. Tra natura e urbanità: l’essenza dei Frammenti lirici

1.2.1. Verso il divino, verso l’eterno: l’immagine del paesaggio montano

Se la città costituisce per Rebora il «polo negativo»42 come è stata definita da Bárberi

Squarotti, la montagna, con le sue caratteristiche amene, con le cime elevate lontane dalle bassezze della pianura, rappresenta invece un luogo incontaminato, un’isola felice in cui l’io può vivere dei momenti di ristoro a stretto contatto con la natura. Osserva infatti Bárberi Squarotti che nell’itinerario che conduce l’uomo dalla pianura all’altezza delle vette, l’io si libera delle devianze della realtà cittadina per raggiungere il luogo più vicino a Dio43. Si tratta dunque di un itinerario in ascesa44, una sorta di pellegrinaggio morale oltre che fisico, che permette di alleggerire la propria anima in vista di un contatto più stretto con il mondo. La montagna, nella distanza che la separa dalla città, diventa dunque ambiente di ristoro, in contrapposizione al bassopiano quasi l’altezza potesse preservarla dai problemi, in un’immagine piuttosto frequente nella storia letteraria dove alla distanza viene abbinata l’imperturbabilità, la non

partecipazione alle faccende del mondo45. Ciò si può notare nel Frammento LXX; qui il

poeta realizza una descrizione paesaggistica volta a mostrare una sorta di tensione del creato verso l’altitudine dei rilievi. Si considerino i seguenti versi:

Dal grosso e scaltro rinunciar superbo delle schiave pianure,

ch’a suon di nerbo la vietata altezza sfogan nel moto isterico carponi tra ruote polvere melma carboni, per grumi di zolle e colture e clamorosi grovigli di folle […] dal pigro disnodar con sforzi grulli

42 Clemente Rebora, Poesie. Prose. Traduzioni, a cura di Adele Dei, cit., p. 42.

43

Ivi, p. 33.

44

Sull’itinerario di ascesa verso la montagna Cfr. commento di Matteo Giancotti in Clemente Rebora,

Frammenti lirici, a cura di Gianni Mussini e Matteo Giancotti, cit., pp. 773-774.

45

Cfr. con l’osso montaliano Spesso il male di vivere ho incontrato dove le due immagini dell’aquila e della nuvola, entrambe distanti dalla terra, diventano emblemi di ciò che è distante e quindi non perturbabile dalle faccende terrene.

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delle ignare colline,

ch’a suon di frulli la fiutata altezza tentan su dal letargo come serpi […] dal soprassalto d’aquile e farfalle dell’avide giogaie

ch’a suon di stalle la sperata altezza invocan […]

dall’assalto impennato in tormento delle tragiche catene

ch’a bufere di vento

a gurgiti immani di vitreo silenzio […]

serran l’altezza veduta46

Si noti come nell’incipit del componimento il poeta voglia evidenziare una sorta di moto ascensionale verso le vette della montagna, che diventa sempre più concreto con il procedere dei versi, quasi gli elementi naturali cercassero una sorta di contatto con il

cielo, spingendosi in un movimento ascendente verso l’alto47. Se alle «schiave pianure»

viene infatti negata la possibilità di raggiungere la sperata altezza, a loro «vietata», già le colline, grazie alla tipica conformazione rotondeggiante, «fiutano» la possibilità di elevarsi dalla “piattezza” della pianura, quasi stessero svegliandosi dopo un lungo letargo. Il paesaggio, nelle sue caratteristiche fisiche, viene dunque interpretato come se la propria conformazione fosse il risultato di un procedere verso l’alto sempre più riuscito che mira a raggiungere la meta, rappresentata dall’altezza della montagna. Ecco dunque che, con il procedere del componimento, anche la scelta degli elementi ambientali sembra farsi più vicina alla cima: ai versi 17-20 Rebora cita aquile e farfalle le quali, grazie alla loro capacità di librarsi nell’aria, procedono più facilmente per laghi e boschi, avvicinandosi ai monti. Soltanto le bufere, tuttavia, qui personificate, riescono davvero a toccare la vetta, esse «guatano addentano» le sommità dei rilievi “mordendo” la dura pietra e raschiando la neve che si è depositata. Quest’ultime, infatti, vengono descritte nella loro azione distruttiva, addirittura responsabili di far fuggire le creature che vivono nelle alture montane, radendone al suolo gli elementi vitali. Rebora arriva dunque a descrivere un paesaggio lontano dal contesto cittadino, un ambiente che, dimentico della meccanizzazione della città, viene vissuto nei suoni e

46

Clemente Rebora, Frammenti lirici, a cura di Gianni Mussini e Matteo Giancotti, cit., pp. 778-779.

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nelle figurazioni naturali. Si noti come la descrizione assuma dei tratti fortemente espressivi arrivando a presentare una natura per certi versi totalizzante, che avvolge il paesaggio e predomina incontrastata sullo spazio circostante. Qui l’uomo non trova un terreno fertile per il proprio insediamento e forse, proprio per questo motivo, la montagna appare incontaminata e nella sua indomabile natura più vicina a Dio. Conclude infatti il poeta affermando:

ogni cosa intendendo oltre aspetta in fede enorme la vetta:

dal piede inestricabil di catene, unica al cielo misura la forza;

con l’anima ardente in gelida scorza,

da sola respira il tremendo suo bene.48

Soltanto le vette sono in grado dunque di respirare l’alito divino; nella loro elevatezza sembrano poter accedere ad una dimensione ultraterrena, aspetto negato alla pianura, calpestata dalla folla e dalle ruote dei carri. Osserva infatti Bàrberi Squarotti che:

l’allegoria dell’ascesa alla vetta indica esemplarmente il procedimento reboriano di sollecitazione delle cose in funzione della rivelazione della loro moralità interna, in quanto simboli della condizione morale dell’uomo che le sceglie per viverci in mezzo e

per usarle.49

Gli elementi del creato possiedono dunque una loro intrinseca armonia, armonia che diventa più evidente con il salire gli erti pendii, in un processo che conduce dagli elementi più bassi a quelli più vicini alla divinità. Ecco dunque che il cammino verso la cima dei monti diventa una sorta di pellegrinaggio interiore che l’io realizza liberandosi degli oggetti che caratterizzano la vita effimera per raggiungere quelli più elevati. Come osserva Bárberi Squarotti l’acquisire la dimensione del vertice porta tuttavia a misurarsi con una sorta di voragine d’ombra e di fuoco; quindi si tratta di un’esperienza per certi versi di terrore che introduce l’uomo al senso profondo delle

48

Ivi, p. 780.

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cose50. Nell’immagine di un’anima ardente e gelida allo stesso tempo Rebora sembra

quasi voler rappresentare quel cosmico fondersi della materia in un unicum indistinto come può accadere soltanto all’origine del tempo e dello spazio, in una sorta di mescolanza divina. Si noti inoltre come l’autore assuma in questo componimento il punto di vista del paesaggio, quasi la natura venisse ad essere la vera protagonista del frammento. La cima della montagna, ad esempio, viene descritta come se fosse una sorta di gigante ieratico che dall’alto controlla il mondo sottostante:

Da piani colline giogaie catene si lamina enorme la vetta su vertebre e stinchi a vedetta

con l’anima ardente nei geli costretta.51

Nei versi che precedono, essa assume tratti umani, quasi possedesse una propria anima interna, raffreddata dalla neve che qui gela. Da notare come l’espressionismo stilistico conferisca al paesaggio una connotazione soggettiva, come se esso fosse composto da ossa come stinchi e vertebre. Nella montagna il poeta sembra dunque riscoprire la natura in tutte le sue sfaccettature, privata di ogni irrigidimento umano e lasciata vivere nei suoi aspetti più profondi. Si tratta tuttavia di una natura non sempre

feconda ma talvolta avente una potenza e capacità devastatrice52, quasi a voler

mostrare il suo predominio sul creato. Sembra quasi che Rebora voglia qui presentare un luogo in cui l’uomo, nonostante la sua capacità di trasformare il mondo, sia rimasto escluso; una zona che ancora vede la natura selvaggia avere la meglio su animali ed esseri di ogni tipo; un vero e proprio «polo opposto» alla riduzione che l’umanità ha realizzato nella pianura. Si noti come questa immagine di una natura incontaminata ritorni molto spesso anche nell’opera di Leopardi, nella figurazione di luoghi in cui l’uomo è sottomesso alla superiorità degli elementi naturali. Nell’opera di Rebora, tuttavia, la natura non viene forse descritta come matrigna, gli spazi in cui essa

50

Ibidem.

51

Clemente Rebora, Frammenti lirici, a cura di Gianni Mussini e Matteo Giancotti, cit., p. 779.

52 Cfr. commento critico di Matteo Giancotti, in Clemente Rebora, Frammenti lirici, a cura di Gianni Mussini e Matteo Giancotti, cit., p. 788. Qui la capacità devastatrice della montagna viene connessa all’impossibilità di attingere una condizione di gioia e trionfo, concordemente all’interpretazione di Bàrberi Squarotti.

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spadroneggia sono preferiti a quelli calpestati dall’uomo, in un’accezione dunque positiva della vita di montagna a quella cittadina. Sebbene l’autore ripercorra dunque delle rappresentazioni che rimandano alla tradizione letteraria, diverso è forse il contesto in cui esse trovano luogo, in una sorta di contrapposizione tra naturale e artificiale che si ritrova in molti suoi componimenti.

Si consideri ora il frammento IX, anch’esso legato alla figurazione del paesaggio montano:

Tutta è mia casa la montagna, e sponda al desiderio il cielo azzurro porge; ineffabile pàlpita gioconda

l’estasi delle cose, e in me si accorge53

Anche qui l’ambiente delle vette viene presentato nella sua estrema vicinanza al cielo quasi la casa di montagna del protagonista fosse più prossimo ad un luogo armonico in cui la realtà vive in una sorta di pace. Il colore azzurro che dipinge la volta celeste rimanda ad un paesaggio sereno, privo di elementi perturbativi, in parte dunque diverso da quello presentato nel frammento LXX. In tale contesto l’io afferma di riuscire a percepire «l’estasi delle cose», quasi esse lasciassero trasparire una intrinseca gioia. Sembra che il poeta abbia voluto dunque descrivere un luogo paradisiaco, una sorta di Empireo dantesco in cui le anime vivono tra una musicale armonia da cui traspare la vicinanza alla divinità. Si considerino ad esempio i seguenti versi:

Quassù quassù, fra il suonar dei campani e il canto lungo di un prono bifolco, l’uman destino vincola le mani con lacci che non han peso né solco quanto misero mal vita perdoni, quanta bontà ci volle a crear noi, quassù quassù non è chi non l’intoni

mentre vorrebbe far puri i dì suoi54.

53

Ivi, p. 162.

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Si noti come la montagna veicoli un’idea di libertà dato che il poeta parla di lacci che non hanno peso, dunque che non legano veramente ma consentono a chi li porta di mantenere uno status di armonia e di pace interiore, non sentendosi soggiogato in alcun modo. Si tratta dunque di una descrizione paesaggistica per molti versi idillica, in cui prevalgono sensazioni gradevoli, suoni deliziosi e una vegetazione rigogliosa. Ancora una volta i monti divengono dunque il «polo opposto» alla città, un luogo di pace e ristoro, agli antipodi della frenesia della pianura. Si può aggiungere inoltre che la conformazione sopraelevata meglio veicoli l’immagine di uno spazio vicino al divino,

quasi l’altezza potesse idealmente alludere alla possibilità di toccare il cielo55, in una

sorta di contatto con l’eterno. Ecco dunque che si possono meglio comprendere le allusioni alla luce, forse simbolo della luce divina o della beatitudine raggiunta, come

compare nel frammento XIII. Qui si parla infatti di una «lucente verità»56 «sciolta alla

montagna» quasi tale luogo fosse intriso di una propria aura incantevole che lascia trasparire lo spirito eterno. Si noti come in questo caso, la scelta del verbo sciogliere rende qui l’immagine della rivelazione, quasi l’altezza dei monti potesse permettere il procedere della conoscenza eterna. Si può dire dunque che Rebora rappresenti in una parte dei frammenti un paesaggio dall’immensa vastità, forse debitore di una tradizione romantica che predilige il vago al concreto, l’esteso al definito, lasciando una sorta di indeterminatezza allo spazio e alle figurazioni. Si consideri a questo proposito il breve componimento LIII:

In un cofano azzurro

traluce la gemma dei monti con iridi di valli

e baleni di prati:

avesse la terra una mano

da inanellare e far mia!57

55

Si pensi che fin dall’antichità i luoghi di culto venivano costruiti nelle zone sopraelevate, da un lato perchè considerate protette da eventuali incursioni, dall’altro perché più vicine al cielo e quindi al divino.

56

Clemente Rebora, Poesie. Prose. Traduzioni, a cura di Adele Dei, cit., p. 35.

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Anche qui l’immagine delle montagne, gemme dispiegate in un cielo limpido, sembra veicolare la sensazione di pace e armonia accentuata dall’utilizzo di termini come «iridi» e «baleni» che ripercorrono la lucentezza del luogo, trasfigurandolo in una sorta di paesaggio mitico, edenico. Sembra dunque che l’autore voglia rappresentare un ambiente dalla forte emotività, quasi dovesse far trasparire dai versi delle immagini pittoriche, dipingendo idealmente i colori sulla carta. Si tratta di un paesaggio distante dunque da quello cittadino, apparentemente simile più a certe figurazioni petrarchesche e stilnoviste che a tanta letteratura primo-novecentesca. Si noti come in questo frammento il protagonista alluda ad un profondo affetto nei confronti della propria terra, terra che afferma di voler idealmente sposare, così da stabilire un inseparabile contatto con questa. Il luogo rappresentato in questo componimento non è dunque ambiente spersonalizzante e ostile, come poteva accadere ad esempio in O

carro vuoto sul binario morto, dove le fatiche della vita venivano compensate dalla

speranza di un’esistenza più autentica. Esso sembra acquisire quella dimensione altra necessaria per vivere in comunione e tale dimensione viene ancora una volta raggiunta attraverso le valli e i prati della montagna.

Si consideri ora il componimento XXXVII dove il poeta descrive il percorso di un vecchio uomo lungo il sentiero che conduce ai piedi di un monte:

Il vedovo, rizzando il torso nero, l’ultimo fascio strinse nelle spanne; toccò nel vespro di raso il sentiero verso un bozzolo azzurro di capanne, e lusingando alla malcerta traccia del bimbo, come fior nello sterpeto lo colse lieve […]

ritta la gerla fragrante di fieno, roseo e biondo lo calò baciando, e per il monte, di contro al sereno,

sotto il buon peso si mosse oscillando.58

Si noti come la scelta paesaggistica proponga un ambiente dalle forti reminiscenze romantiche: il sentiero al tramontare del sole viene descritto come un percorso di

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raso, alla sommità del quale si distinguono in lontananza dei piccoli villaggi di abitazioni, un piccolo «bozzolo» afferma il poeta. Le descrizioni spaziali e l’aggettivazione utilizzata fanno pensare ad un panorama concorde, in cui trovano posto gesti sinceri, come quello che spinge il vedovo ad abbracciare il bimbo e avvicinarlo al proprio petto. Ancora una volta l’ambiente legato alla montagna sembra preferibile a quello di pianura, non a caso l’io poetico conclude dicendo: «sotto il

gravar morto dello strazio a valle caddi in fuga dietro l’ombra»59, indicando così un

percorso opposto a quello del vecchio che lo riporta tra le fatiche della vita cittadina, tra le bassezze della realtà si potrebbe dire. Rebora arriva dunque a rappresentare qui due differenti movimenti, l’uno rivolto verso le alture della vetta, l’altro rappresentato da una retrocessione verso valle, quasi il peso ideale sopportato lo spingesse verso la pianura. Si può dunque notare che, ancora una volta, i due movimenti hanno un significato più profondo: essi presentano l’opposizione, già notata al frammento LXX, tra un paesaggio più vicino al divino e uno ridotto ai suoi termini più bassi. Tale idea sembra confermata dall’immagine del raggruppamento di capanne al quarto verso, che nel loro colore azzurro quasi sembrano ricoperte da un’aura superiore, pronta ad attendere il personaggio in cammino. A ciò si può aggiungere la scelta di un cielo sereno davanti al quale si staglia il paesaggio montuoso in contrapposizione con la valle ombrosa dell’ultimo verso, entro cui viene inghiottito il protagonista della vicenda. Ecco dunque che mentre il vecchio, nel suo camminare verso la montagna, sembra avviarsi forse ad una dimensione vicina al paradisiaco, il personaggio principale della vicenda viene inghiottito dalla voragine della valle, tanto da esserne quasi risucchiato in una sorta di abbassamento alla vita infernale. Si noti a questo proposito la differente aggettivazione che caratterizza il peso del vedovo e quello dell’io poetico: nel primo caso si parla di «buon peso», quasi la gerla piena di fieno non gravasse davvero sulle spalle del protagonista; nell’altro caso esso sostiene che l’io è schiacciato dal «gravar morto dello strazio» che idealmente lo fa ruzzolare a valle. Ancora una volta, dunque, la pianura viene associata ad una sorta di miseria terrena; la montagna, invece, al luogo verso cui l’uomo tende, in cui è possibile elevarsi dai pesi della vita.

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Tale aspetto ritorna anche nelle poche righe dedicate al paesaggio montano che caratterizzano il frammento XXXIII dove il poeta associa i monti al luogo del ristoro. Si considerino i seguenti versi:

Con piè di nubi poggia il cielo in vetta ai monti forti in un riposo lene, e van per l’aria imagini di bene

con riso di speranza60

Anche qui i monti divengono un paesaggio ameno, l’aria è carica di riso e speranza, il cielo, in metafora, si appoggia lieve sulla cima della montagna senza gravare su questa. Si tratta dunque nuovamente di un ambiente che sembra essere toccato dalla mano del creatore, quasi quest’ultimo fosse presente nella natura manifestandosi attraverso i suoi elementi. Si noti inoltre come i monti vengano collegati ad immagini di speranza, forse intesa come speranza di una maggiore comprensione del mondo che il paesaggio montano sembra ispirare particolarmente. Se si considerano al contrario le immagini della pianura come compaiono ad esempio nel frammento XI O carro vuoto sul binario

morto si può osservare che, in questo caso, il poeta rimanda la comprensione del

mondo ad un luogo altro che si trova ai poli opposti della pianura. Il contatto con le cose diventa dunque una condizione più affine al primo ambiente rispetto al secondo.

La montagna dunque, nelle descrizioni estrapolate dal paesaggio dei Frammenti viene ad assumere quelle caratteristiche negate alla città, in virtù di una maggiore autenticità e armonia delle cose che traspare dal paesaggio stesso. Si tratta di valori

che anche altri poeti vociani61 attribuiscono al contesto montano; si pensi soltanto alla

funzione che viene data da Jahier in Con me e con gli Alpini dove i monti incarnano i

significati di forza, salute e memoria in contrapposizione alle alienazioni cittadine.62

Afferma infatti la critica a proposito del ruolo dei monti in Jahier:

La montagna si fa mito, religione. Si fa assoluto che ti chiama ad una scarnificante purificazione. […] La montagna e la sua gente sono il ruolo della naturalità: del vivere

60 Ivi, p. 395.

61

Sulla dialettica città-natura presente nei vociani Cfr. ivi, p. 158.

62

Cfr. introduzione di Ermanno Paccagnini in Piero Jahier, Con me e con gli alpini, Milano, Mursia, 2005, pp. 10-11.

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con pienezza il rapporto con la terra e le tradizioni. Il montanaro diviene l’emblema dell’uomo vero: di chi suda e fatica la propria vita conquistandosela quotidianamente,

e che vive in simbiosi con la comunità e i suoi valori63

Nel capitolo Etica del montaro del romanzo di Jahier, ad esempio, l’autore dichiara che in montagna è necessario fabbricarsi ciò di cui si ha bisogno, mentre in città gli abitanti

appaiono smarriti se sono privi dei propri arnesi.64 Ecco dunque che «il montanaro che

deve creare ogni cosa, ha rispetto alla cosa creata; sa che è fatica creare […] il cittadino, invece, gli dà una falsa impressione di facilità e inesauribilità l’industria

manifatturiera».65 In Con me e con gli alpini ritorna dunque la contrapposizione tra

città e natura e quest’ultima è vissuta nella sua totalità soltanto nelle zone montuose, dove l’uomo vive a stretto contatto con essa cercando di rispettarla nei suoi elementi. Si noti inoltre come Jahier proponga due diversi modi di vivere per gli uomini cittadini