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Nussbaum già nel ‘95 si soffermava a sottolineare la forza del legame esistente tra la capacità di vivere in società e l’immaginazione letteraria. Ci si riferisce in particolare a Poetic Justice, un’opera in cui si consigliava la lettura dei classici di Dickens, e, in generale, di romanzi realisti, a coloro i quali avrebbero dovuto assolvere funzioni legate al giudizio. La parte più interessante della produzione dell’autrice, in vista dei propositi di questa ricerca, si trova nelle opere successive; si potrebbe affermare che Cultivating Humanity, pubblicato nel ‘97, si caratterizzi per essere il testo di riferimento per quanto riguarda i temi più cari alla filosofa. In quest’ opera, l’autrice dedica molte righe al valore dell’educazione, soffermandosi principalmente sulla formazione universitaria e, senza tralasciare quella primaria, indaga i processi di crescita, tenendo ben presenti le problematiche derivanti dall’adolescenza. L’opera potrebbe essere definita come un grande manifesto di educazione liberale e alla democrazia. La scuola, come già affermato, è il luogo principe in cui questa formazione si svolge e, di conseguenza, viene individuata una serie di caratteristiche essenziali ad essa, per far sì che al suo interno crescano ragazzi capaci di diventare buoni cittadini di un paese democratico. Sarebbe però riduttivo limitare a questo il ruolo che la Nussbaum riserva all’educazione. Si ricorderà senz’altro come nel primo capitolo sia stato presentato il dibattito generatosi a metà Novecento, in America, fra elitisti ed anti-elitisti; il punto centrale della filosofia nussbaumiana può essere ricollegato senza dubbio a tali questioni. Se gli elitisti infatti si battevano per una democrazia realistica e funzionale e i loro avversari affermavano quanto questo non bastasse e che fosse invece necessario porre l’attenzione ai valori alla base del processo democratico, Nussbaum sostiene che tramite un’educazione fortemente liberale sia possibile dare vita ad una democrazia funzionante e che, al contempo, non si dimentica dei valori fondanti da cui è nata. La formazione diventa per l’autrice una vera e propria

mission politica: la pedagogia liberale deve cioè fornire “la capacità di pensare criticamente, la capacità di trascendere i localismi e di affrontare i problemi mondiali come «cittadini del mondo» e, infine, la capacità di raffigurarsi simpateticamente la categoria dell’altro"24.

Viviamo in un mondo in cui le persone sono sempre più interdipendenti l’una dall’altra; in altre parole, tutti noi dipendiamo da persone che non abbiamo mai visto, le quali a loro volta dipendono da noi. I problemi che dobbiamo affrontare sono di portata mondiale e si parla sempre più di un superamento del concetto di nazione.

Nessuno di noi può dirsi estraneo a questa interdipendenza globale. L’economia globale ci lega tutti a vite lontane: le nostre decisioni più semplici come consumatori toccano i livelli di vita di persone molto distanti da noi che sono coinvolte nella produzione di ciò che usiamo. Le nostre esistenze quotidiane sono collegate all’ambiente globale e allora l’istruzione dovrebbe prepararci tutti a prendere parte alla discussione attiva su tali problemi e tutti dovremmo considerarci “cittadini del mondo” anziché semplicemente americani, indiani e europei.

Le nostre interazioni umane continuano ad essere regolate dalle norme del mercato, in cui le vite umane sono considerate anzitutto come strumenti di profitto. Le scuole e le università di tutto il mondo hanno quindi un compito prioritario: devono sviluppare negli studenti la capacità di vedere se stessi come membri di un mondo complesso ed eterogeneo. Occorre insegnare ai giovani un’intelligente cittadinanza del mondo basata sul rispetto degli altri e sulla conoscenza autentica dei gruppi che compongono il mondo intero. Diventa importante che i giovani capiscano come funziona l’economia globalizzata, devono conoscerne la storia per capire se essi sono parte dell’ingranaggio,

24 Nussbaum M., Non per profitto, Perché le democrazie hanno bisogno della cultura

che cosa consumiamo e perché, chi lo produce e se tutti hanno una vita dignitosa. Diventa fondamentale decostruire gli stereotipi soprattutto in ambito religioso e sessuale. Tagore riteneva che l’obiettivo più urgente in India fosse il superamento delle divisioni di caste e religioni. Egli riteneva inoltre che gli orrori della prima guerra mondiale fossero stati causati dall’atteggiamento delle varie nazioni coinvolte che insegnavano ai giovani a preferire il dominio piuttosto che la reciproca comprensione. Di conseguenza, la scuola di Tagore sviluppò delle strategie per far crescere gli studenti come cittadini del mondo e per lui era fondamentale istruire i bambini sin dalla più tenera età sulle differenti tradizioni religiose ed etniche. Si organizzavano quindi delle feste per celebrare l’amicizia tra induisti, cristiani e musulmani.

Anche per Dewey l’istruzione doveva essere finalizzata alla cittadinanza globale, fin dai primi giorni di scolarizzazione del bambino; inoltre ciò che i bambini imparavano a scuola doveva essere applicabile anche nella quotidianità. Ciò che Dewey disprezzava era lo studio astratto, slegato dalla vita delle persone. La sua concezione della vita, aperta e non riduttiva, insisteva su relazioni umane ricche di significato, sentimento e curiosità. L’educazione alla cittadinanza globale è una materia vasta e complessa che deve riguardare l’insegnamento di tutte le discipline sin dai primi giorni di scuola. La discussione in classe deve riguardare argomenti importanti come le differenze di potere e di opportunità, il ruolo delle donne e le minoranze, le diverse strutture di organizzazione politica.

Per quanto riguarda i contenuti, l’obiettivo della cittadinanza del mondo impone che tutti i giovani debbano imparare gli elementi fondamentali della storia mondiale, da arricchire con il crescere dell’età. Questo permetterà loro di non avere stereotipi e pregiudizi mentali.

Inoltre, non c’è dubbio che i bambini possano cominciare fin da piccoli ad apprendere i princìpi dell’economia. Dewey ebbe grande successo nel far riflettere i bambini sull’origine dei prodotti di uso comune e sui meccanismi di scambio che ce li procurano. Man mano che i bambini crescono questa conoscenza si dovrà arricchire, finché alla fine della scuola superiore i ragazzi non avranno raggiunto una sufficiente chiarezza sui meccanismi dell’economia globale, tanto da riuscire a prendere decisioni equilibrate come consumatori e come lettori.

Oltre ad imparare un’altra lingua in aggiunta alla propria questo nuovo tipo di istruzione deve essere multiculturale, essere un’istruzione alla cittadinanza del mondo basata su corsi di religione di storia comparata. Possono essere anche programmati corsi su globalizzazione e diritti umani, corsi sulle teorie della giustizia, in particolare quella sociale. Solo questo tipo di istruzione permetterà loro di capire come le differenze di classe, casta e religione possano creare diverse opportunità di vita, come vivere in città sia diverso dal vivere in campagna, come le diverse forme di organizzazione politica conducano a diverse opportunità per le persone, come anche l’organizzazione della famiglia sia determinante. In questo modo gli studenti potranno anche capire come i ruoli delle donne e degli uomini siano condizionati dalle legislazioni e dalle politiche pubbliche.

Tutto questo significa che anche nelle facoltà scientifiche vanno insegnate le materie umanistiche perché non vi potrà mai essere un buon economista, un buon ingegnere, un buon medico che non abbia sviluppato attenzione ed empatia verso gli altri ed una comprensione adeguata della storia e dei costumi di altre nazioni e civiltà.

Alcuni si chiedono se la cittadinanza globale richiede veramente studi umanistici e se non sia sufficiente conoscere bene solo i fatti concreti. Tuttavia, un elenco di fatti, senza la capacità di valutarli o di capire come una narrazione venga organizzata in base ai dati

disponibili, è deleterio quasi quanto l’ignoranza, perché l’allievo non sarà purtroppo in grado di distinguere gli stereotipi. In realtà, la cittadinanza democratica richiede molto di più, cioè soprattutto la capacità:

• di valutare i dati storici,

• di utilizzare e pensare criticamente i principi economici,

• di riconoscere la giustizia sociale,

• di padroneggiare una lingua straniera,

• di apprezzare le complessità delle grandi religioni mondiali

25

.

L’obiettivo dell’autrice non si esaurisce nella volontà di migliorare la società di cui fa parte. Per quanto la sua attenzione sia rivolta principalmente al contesto americano ed indiano, ella afferma con forza la volontà di formare “cittadini del mondo” andando assolutamente al di là dei localismi. Tale concetto, che forse già emergeva nella critica alla tradizione basata sul pensiero socratico, merita di essere approfondito e messo in relazione con lo sviluppo della filosofia greca che, come abbiamo visto, interseca continuamente le teorizzazioni della Nussbaum.

In particolare, è interessante contrapporre la figura di Diogene il Cane a quella di Socrate ed analizzare come i due pensatori sviluppano il significato delle parole che danno il titolo a questo paragrafo. Ovviamente la nostra autrice opterà per la versione fornita dal padre della logica opponendosi agli sprezzanti comportamenti del cinico, tuttavia il diversissimo modo di declinare un identico concetto da parte dei due e la scelta della Nussbaum ci dicono molto sulle caratteristiche intrinseche della filosofia di quest’ultima.

Diogene il Cane deve il suo nome all’abitudine di infrangere la tradizione nel modo più provocatorio ed eclatante possibile. Divenuto famoso per essere fonte di scandalo quotidiano dovuto al suo mangiare e masturbarsi in pubblico (comportamenti attribuiti appunto ai cani e da cui egli mutuò il suo nome), il suo intento principale era quello di spingere i suoi concittadini e contemporanei a discutere la tradizione attraverso comportamenti volutamente provocatori. L’intento del padre del cinismo era quello di dimostrare praticamente che le regole potevano essere infrante in qualunque momento e nessuno se ne sarebbe curato più di tanto, il mondo non sarebbe finito e gli dei non avrebbero punito nessuno. Diogene si scagliava in questo modo contro il localismo che vedeva attribuire ad un uomo determinate caratteristiche ed abitudini unicamente in funzione del luogo in cui era nato. Egli come Socrate rifiutava l’esistenza di un concetto universalmente valido concernente il bene, la giustizia, il che cosa fosse normale ed il che cosa invece eccedesse da questa categoria: attraverso lo scandalo egli si opponeva a quell’autorità che si pretendeva riconosciuta e giustificata naturalmente ed inviolabile. La sua era una filosofia che possiamo definire attiva in quanto, tramite la reazione suscitata nell’altro, mirava a far vacillare la consuetudine. Del resto, un gran numero di filosofi, più o meno contemporanei al cinico, ha discusso la validità del modus vivendi ateniese: Platone, ad esempio, si era schierato dalla parte dell’educazione imparziale per uomini e donne raccogliendo esempi di città greche in cui questo già avveniva; Aristotele nella “Politica” si dilunga nell’analisi di forme di governo alternative alla democrazia in vigore in luoghi distinti dalla propria patria. La conclusione è ovviamente a favore di Atene, ma ammette la non-necessità di tale modello di governo. Vi è dell’altro, altrettanto dotato di senso.

La popolarità di Diogene deriva dalla traduzione estremizzata sul piano pratico della speculazione filosofica, il suo obbiettivo era mostrare che effettivamente si può vivere

diversamente e, data questa possibilità, dovremmo maturare una certa propensione ad accettare il diverso. Questo perché i nostri valori hanno validità limitata e circoscritta. La spinta anti-autoritaria che accomuna il cinico e Socrate è evidente, tuttavia, non deve lasciarsi ingannare, e non deve farci credere che i due arrivassero a sostenere una sorta di relativismo assoluto in cui tutto è possibile e nulla è vero. Come abbiamo visto Socrate si pone come obbiettivo quello della ricerca della verità oggettiva e la Nussbaum ripercorrerà punto per punto il suo ragionamento. Il più estremo Diogene, per quanto provocatore e controverso, ammette senza discussione l’esistenza di una matrice comune a tutti; il dichiararsi appartenente al genere umano dimostra come vi sia qualcosa che è inevitabilmente condiviso da tutti gli appartenenti alla specie. Inoltre, egli ricerca anche le caratteristiche di un certo tipo di virtù non collegata alla tradizione locale ma quanto più ascrivibile all’umanità in toto. Il comportamento scandaloso trovava la sua giustificazione nell’infrangere ciò che c’è di legato alla tradizione ed alla cultura locale: una volta liberati da tutto ciò, sarebbe rimasto unicamente quello che ci rende veramente umani, quella verità e virtù trascendente e condivisa da tutti.

Nussbaum rifiuta, tuttavia, le posizioni di Diogene in quanto il suo agire non trova giustificazione nella razionalità della logica, esso è più guidato dalla spettacolarizzazione e dall’estremizzazione nell’infrangere la norma. In questo senso egli non si merita di essere elevato al rango degli altri grandi pensatori della sua epoca. Per quanto le prossime righe saranno dedicate al concetto di “cittadino del mondo”, così come viene accettato e riproposto dall’autrice, si ritiene che il cinico metta in crisi più del dovuto la filosofia nussbaumiana, in quanto riporta i concetti in essa espressi all’interno del dominio della corporeità: li ritrascina nella melma delle consuetudini e di un’accettazione a-critica che, più che basarsi sulla razionalità, sembra avvicinabile ai concetti di habitus e disciplina di matrice foucaultiana e mutuati da Bourdieu. Per quanto non si possano certo attribuire

a Diogene concetti che entreranno a far parte del modo filosofico solamente migliaia di anni dopo, secondo chi scrive, nel suo agire unicamente tramite il corpo se ne possono ritrovare i semi generatori. Se quanto detto è vero, risulta altrettanto scontato quanto Martha Nussbaum sia costretta ad un modello che si discosti da quello del Cane ateniese. L’onestà intellettuale ci impone inoltre di riportare che il concetto attorno a cui questo paragrafo si sviluppa non deriva direttamente da Diogene, ma venne unicamente mutuato dai suoi comportamenti solo successivamente e da parte degli storici che analizzarono la sua vita.

Il pensiero degli stoici si avvicina molto a quello della moderna filosofa americana di cui stiamo trattando. Per gli appartenenti a questo branca del pensiero classico la nascita sanciva la casuale appartenenza ad una determinata comunità, circoscritta su base geografica e dotata di caratteristiche precise. L’identità però non si esauriva nella dimensione locale ed ogni essere umano era anche parte di qualcosa di più esteso e coincidente con la specie di appartenenza. Ciò che permetteva di delimitare questa secondo immenso gruppo era la capacità di pensare razionalmente e la capacità di giudicare su base morale. Tali capacità erano ascrivibili a chiunque ed a prescindere dalla condizione di sottomissione a cui era relegato in funzione della cultura locale. Veniva così concesso il beneficio della ragione e dell’equità sotto questo punto di vista anche alle donne ed agli schiavi. Da qui lo stoicismo faceva derivare la superiorità del mondo morale su quello politico: l’essere un cittadino del mondo significava saper ragionare e dunque far parte di un insieme più grande e non circoscritto alla località geografica. Ciò che era veramente degno di nota risultava questa appartenenza comune, più che la norma che sanciva la vita quotidiana. Ovviamente i filosofi in questione non rigettano la tradizione e la religione in toto, mirano piuttosto alla ricerca dell’umano che risiede all’interno di ogni specificità culturale. È certamente necessario creare una comunità estesa, ma la

caratteristica principe di questo slancio globale non è sicuramente da ricercarsi nell’omologazione totale. Sarà piuttosto utile dare vita ad un sistema sociale con caratteristiche di pluralità, in cui ad ognuno sia riservata la possibilità di essere accettato in favore della propria particola identità. Il comune denominatore umano è ciò da cui deriva la possibilità di comprendere l’altro, di accettarlo e di apprezzare la diversità come ricchezza. Questo tipo di filosofia declina il mondo secondo un paradigma familiare: gli abitanti e cittadini di quest’ultimo dovrebbero accettarsi l’un l’altro come se fossero lontani parenti, diversi certo, ma derivanti da un nucleo comune. È nuovamente necessario sottolineare come una prospettiva di questo tipo non porti all’automatica accettazione di ogni comportamento sulla base di un relativismo estremizzato. Gli stoici insistevano sulla necessità dello studio e dell’esame approfondito dell’altro, la razionalità comune è sicuramente la base della comprensione da riservare al diverso, ma è allo stesso tempo il mezzo tramite cui possiamo renderci conto dell’insensatezza di atteggiamenti culturalmente mutuati e modificarli su base logica.

In tutto ciò Martha Nussbaum si ritrova perfettamente, e si sarà sicuramente notato come, quest’ultima parte in particolare, sia perfettamente in linea con ciò che la pensatrice intende quando parla di pensiero critico. Nel riprendere le posizioni di questa famosissima corrente filosofica, tuttavia, la Nussbaum sente il bisogno di riportare alcune criticità incontrate nell’affrontarne le teorie. Se parlando di Diogene, ciò che indisponeva la nostra autrice, era l’eccessiva materialità del cinico e la sua irrazionalità, qui gli stoici sembrano avere il difetto opposto. Per essi infatti i beni materiali non avevano alcun peso: l’umano era ricondotto al puro domino del razionale e del morale, gli oggetti erano fugaci, mutevoli e per ciò insensati. Da essi derivavano unicamente distrazioni ed erano quindi un ostacolo da aggirare durante lo sviluppo delle facoltà mentali. Per gli stoici la perfezione coincide con l’autosufficienza e il distacco totale dalla materialità in nome del

pensiero. Martha Nussbaum, pur accettando e ritrovandosi pienamente nelle premesse del loro pensiero, fin dagli inizi della sua carriera, rifiuta tali conclusioni finali. Come si è visto, la filosofa si impegna in quello che è un percorso prettamente politico e, in quanto tale, determinato da forti connotazioni pratiche. La comune razionalità, base del pensiero critico e socratico, porta necessariamente ad un’affermazione di incompletezza e ad una necessità di comunità reale da cui si originano i sentimenti di compassione e rispetto necessari a garantire a tutti una vita dignitosa26.

L’etica e la logica presenti in ogni essere non possono che portare all’accettazione della debolezza intrinseca dell’uomo e dare forma così ad una comunità giusta e garante di diritti per tutti.

Il benessere del cittadino è per la scrittrice è centrale, ciò che ella vuole costruire è una democrazia basata sulla tutela e l’accesso ai diritti. Tuttavia, è necessario constatare, che una vita degna di essere vissuta è necessariamente collegata alla possibilità di soddisfare determinati bisogni e dunque ad esigenze materiali. In questo senso l’autrice non può che discostarsi dal rigetto della fortuna di matrice stoica che va ad esprimersi nel totale disinteresse di questi pensatori per i diritti politici. Se la virtù è astrazione, allora non è fondamentale tutelare la soddisfazione di determinati bisogni. Per Nussbaum, una razionalità di matrice identica conduce invece alla tutela della dimensione materiale come presupposto essenziale alla vita. “Gli stoici romani non hanno riflettuto in misura adeguata sulle connessioni tra dignità umana, che mostravano di giudicare così importante, e i diritti politici che invece così di frequente trascuravano”27.

26 Cfr. Nussbaum M., 1986.

27 Nussbaum M., Non per profitto, Perché le democrazie hanno bisogno della cultura

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